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Quando Andreotti ordinò l’assalto a Bankitalia

Foto LaPresse Torino/Archivio storico Storico anni ’80: da sinistra Mario Sarcinelli, Paolo Baffi, Carlo Azeglio Ciampi

Sono passati, esattamente, non quattro secoli ma appena quarant’anni. Eppure, chi ricorda – in questo Paese senza memoria storica – che, alla fine del marzo 1979, un ciclone investì la Banca d’Italia, portando all’incriminazione del governatore Paolo Baffi (un gran galantuomo cui il carcere fu risparmiato solo per l’avanzata età) e all’arresto del suo braccio destro, Mario Sarcinelli, vicedirettore generale e capo della Vigilanza? Le accuse erano pesantissime: favoreggiamento e interesse privato in atti d’ufficio per mancato esercizio di uno dei fondamentali compiti dell’istituto di emissione: la vigilanza sul sistema bancario. In realtà si trattava di un gioco violento, manifestamente strumentale (e politicamente targato) di quei settori della magistratura romana che avevano fatto del “Palazzaccio” il porto delle nebbie e che usò come braccio armato dell’operazione il giudice istruttore Antonio Alibrandi (magistrato di destra), insieme al sostituto procuratore Luciano Infelisi.

Ebbero partita vinta per due anni, costoro, ma alla fine dovettero arrendersi all’evidenza che avevano voluto ignorare. Il proscioglimento totale di Baffi e Sarcinelli (nel frattempo scarcerato, ma fino all’ultimo umiliato) restituì, pur tardivamente, la dovuta onorabilità a due rispettati servitori dello Stato. E tuttavia enorme fu il danno personale e istituzionale di quella malvagia operazione, che aveva suscitato in Italia e all’estero un’ondata di indignazione quasi generale. Solo il presidente del Consiglio dell’epoca, Giulio Andreotti, tacque sempre e ostinatamente. Mentre il senatore Nino Andreatta, anche lui scomparso e allora responsabile dell’ufficio credito della Dc, non solo difese energicamente i due dirigenti della Banca, ma non si trasse indietro quando Alibrandi e Infelisi, quasi per intimidirlo, gli imposero di presentarsi in procura perché “giustificasse” la solidarietà sua e di altri 146 docenti di economia nei confronti degli inquisiti.

Danno comunque enorme, dicevo: con insolita dignità il governatore si era quasi subito dimesso (e al suo posto s’insediò qualche mese dopo Carlo Azeglio Ciampi, destinato più tardi ad essere eletto presidente della Repubblica). La credibilità dell’istituto fu per un lungo momento scossa sul piano internazionale; e soprattutto molti anni dopo poté accadere che qualcuno – il successore di Ciampi, Antonio Fazio – provasse a contare sul restituito prestigio di Bankitalia per coinvolgere sé stesso, la moglie e i “furbetti del quartierino” in un traffico (stavolta davvero uno scandalo), che costrinse lo stesso Fazio ad abbandonare il governatorato in fretta e furia.

Torniamo ai fatti. Formalmente l’accusa nei confronti dei due economisti era di non aver inviato ai giudici una relazione degli ispettori di Bankitalia sull’attività del Cis (Credito industriale sardo) per quanto riguardava certi finanziamenti in cui aveva goduto l’industriale Nino Rovelli. Accusa pretestuosa, dimostreranno i documenti. In realtà, la molla che aveva fatto scattare l’accusa a Baffi e le manette a Sarcinelli era ben altra: che Sarcinelli, con la totale copertura di Baffi, era diventato in quegli anni uno dei più ferrei (e odiati) controllori delle banche italiane. Due esempi per tutti, e non casuali: era stato lui, Sarcinelli, ad aver disposto lo scioglimento del consiglio d’amministrazione dell’Italcasse, che coordinava le Casse di risparmio del Paese ed era allora il più importante centro di potere creditizio, naturalmente controllato dalla Dc e in particolare dal sistema di potere andreottiano. Ed era stato ancora Sarcinelli ad aver spedito alla magistratura un rapporto ispettivo su quel carrozzone, da cui emergevano pesanti ipotesi di reato (in primo luogo peculato: non era ancora la stagione di Tangentopoli e di Mani Pulite) a carico dei segretari dei quattro partiti del centrosinistra.

Umberto Ambrosoli

E d’altra parte era stato Baffi in persona a nominare l’avvocato Umberto Ambrosoli liquidatore della Banca Privata Italiana, la banca di Michele Sindona, protetto sin che fu possibile da Andreotti. Quel Sindona che, prima di essere avvelenato in carcere perché non svelasse i misteri delle sue fortune, aveva ordinato e fatto eseguire da un killer italo-americano l’assassinio di Ambrosoli. La riprova dell’effettiva natura persecutoria dell’iniziativa dei giudici romani? Fu fornita proprio dal giudice Alibrandi, forse senza neppure rendersi conto dell’enormità delle sue stesse parole. Accadde che un giorno (21 aprile, appena un mese e mezzo dopo il mandato di cattura spiccato nei confronti di Sarcinelli), chiacchierando con il redattore giudiziario del “Messaggero” e altri giornalisti rivelò – e mai smentì di aver rivelato – che il vicedirettore Sarcinelli era stato così duramente colpito perché, proprio in quanto capo della Vigilanza, sembrava aver preso particolarmente di mira istituti bancari in Trentino, Veneto e Sicilia, «cioè in località notoriamente note come feudi democristiani».

Scrisse il redattore del quotidiano romano: «Sorpresi di tanta franchezza, i giornalisti hanno chiesto ad Alibrandi come mai si sia fatto paladino della Dc nei confronti della presunta “persecuzione” della Banca d’Italia». Ed ecco la risposta del giudice: «Qui non si tratta di ideologie politiche ma di amministrare la giustizia ed io, come giudice, non posso non rilevare questa mancanza di obiettività da parte della Banca d’Italia. C’è da augurarsi che Sarcinelli impari la lezione, se un giorno o l’altro riprenderà il suo posto». Commentò “Repubblica” in una noticina attribuita a Eugenio Scalfari: «Siamo dunque in presenza d’un magistrato il quale applica la legge per dare a un cittadino veri e propri “avvertimenti mafiosi” per conto del partito di governo e lo perseguita, lo mette in carcere, lo sospende dall’incarico (la sospensione fu, con sfacciato ricatto, la condizione posta dai due magistrati per la scarcerazione di Sarcinelli, ndr), incurante delle conseguenze che questo modo di procedere potrà avere su una delle principali istituzioni dello Stato, nella speranza che quel cittadino ‘impari la lezione’ e la smetta dunque di fare il dover suo. Dichiarazioni del genere gettano una luce sinistra su una delle più delicate vicende giudiziarie di questi anni e sui legami sotterranei tra gli uffici giudiziari romani e il partito democristiano».

Come finì? Che mentre Baffi e Sarcinelli erano ancora sotto inchiesta (che finì letteralmente in una bolla di sapone, ma dovettero passare due anni), il Consiglio superiore di Bankitalia a settembre si riunì, rese «omaggio e gratitudine» a Baffi che aveva operato «in condizioni oggettivamente difficili e talora dolorose», e, mentre nominava il dimissionario governatore presidente onorario della Banca, chiamò Ciampi (che era direttore generale) alla massima responsabilità e confermò Sarcinelli non solo vicedirettore generale dell’istituto ma anche capo della Vigilanza. La loro irriducibile autonomia era premiata.

Ora, proprio in questa stagione, il governo gialloverde ci riprova: da un lato cercando di sistemare gente sicura nei delicatissimi ruoli di vicedirettori generali; e dall’altro cercando di aggredire le riserve auree di Bankitalia per cercare di tappare qualche buco nel baratro delle finanze pubbliche. I pericoli non sono cessati.