Un’identità ibrida, con il cuore sospeso tra due mondi: da un recente studio pubblicato dall’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del CNR, risulta che la diaspora greca in Italia, negli ultimi quindici anni, si attesta intorno alle settemila unità, senza contare gli studenti – concentrati soprattutto a Milano e a Napoli – stimati attorno a quattordicimila persone. La ricerca si concentra in modo particolare sui greci che si sono stabiliti in Italia nel ventesimo secolo: una prima ondata, subito dopo la seconda guerra mondiale, quando la situazione economica ellenica era devastante, con un Paese uscito da anni di conflitto, da una feroce occupazione straniera, a cui fece seguito – per un quinquennio – la guerra civile. Non si trattava solo di emigranti economici ma, molto spesso, di esuli politici messi al bando in patria dai tristemente celebri fakelloi (“buste”), gli archivi della polizia il cui contenuto è stato solo recentemente reso disponibile al pubblico dal governo Tsipras. La seconda ondata, invece, ha riguardato gli anni della dittatura, dal 1967 al 1974: anche in questo caso, soprattutto studenti ed esuli politici. Un solo dato basta a fare chiarezza sull’esodo dei ragazzi che si sono iscritti in quel periodo nelle università italiane: dopo il golpe dei colonnelli, più di diciassettemila. Sono i tempi in cui, nella Facoltà di Architettura di Milano, si contano più striscioni scritti in greco che in italiano. Sarà solo l’ingresso della Grecia nella Comunità Europea (1981) e poi nella Zona Euro (2002) – assieme alle Olimpiadi tenutasi ad Atene nel 2004 – a favorire un massiccio rientro in patria, prima dell’instaurarsi della crisi del 2008.
Eppure, il rapporto tra l’Italia e le comunità elleniche ha origini molto più lontane: dalla più antica, quella veneziana, che si sviluppa (almeno ufficialmente) dalla resa di Costantinopoli ai Turchi ottomani nel 1453, a testimoniare quanto la diaspora greca abbia influenzato la nascita e lo sviluppo dell’umanesimo italiano. In laguna, ancora oggi, ha sede l’Arcidiocesi ortodossa d’Italia e di Malta, con la chiesa di San Giorgio dei Greci. Poi, seguiranno Roma, Napoli, Trieste, Ancona, Livorno; alcune, ai giorni nostri ancora numerose, altre ridimensionate. La prestigiosa comunità veneziana , ad esempio – che ha annoverato personaggi del calibro di Domenico Theotokopoulos, più noto come El Greco – oggi conta meno di centocinquanta membri, residenti nelle varie città del Veneto. Tuttavia, è da Venezia che tutto è iniziato, dal luogo – come commentò in una lettera al Doge il cardinal Bessarione (destinato a donare alla Serenissima il corpus originario della Biblioteca Marciana) – che «è quasi un’altra Bisanzio». I segni della presenza greco-bizantina sono ancora ben visibili nell’arte e nell’architettura veneziane, a cominciare dalla Basilica di San Marco. Se i veneziani, qualche secolo prima, nel 1081, non si fossero impegnati ad aiutare i greci contro i normanni che si accingevano ad attaccare l’impero bizantino e, l’anno successivo, la flotta del Doge Domenico Selvo non avesse sconfitto in battaglia Roberto il Guiscardo, forse la Serenissima non avrebbe goduto di una corsia preferenziale per i commerci con il Levante. La caduta dell’Impero bizantino venne quindi a consolidare un processo già in atto da secoli.
Alla fine del quindicesimo secolo, il Consiglio dei Dieci autorizzò i residenti greci ad organizzarsi in una Confraternita, andando a costituire il più antico ed importante centro della diaspora ellenica: vennero marinai e mercanti, ma anche artigiani, artisti, intellettuali e persino soldati (i celebri stradioti, dalla parola greca stratiòtes, destinati a combattere a fianco delle truppe veneziane). Pochi anni più tardi, nel 1511, fu approvata dalla Serenissima l’edificazione della chiesa di San Giorgio, in stile tardo-rinascimentale. La facciata alta e stretta, di una sobria eleganza; il breve sagrato che dà sul rio, il bel campanile inclinato, l’interno armonioso e solenne.
Sono tra gli scenari attorno a cui si articola Il profumo dell’estate, memorie greco-veneziane che Annamaria Redolfi de Zan ha appena scritto e pubblicato per l’editore Supernova: storie delle sue due famiglie d’origine, una veneziana e greco ortodossa (che conosceva la lingua le tradizioni dei padri) e una friulana che – trovandosi fuori delle proprie terre – parlava solo italiano. L’autrice è conosciuta soprattutto come artista visiva, per le sue opere concettuali: una continua e sottile ricerca antropologica sui manufatti femminili e le loro implicazioni di memoria, burqua di metallo ossidato e reti tessute con il punto dei pescatori, nelle tinte del sangue e del mare. Nei suoi racconti – da cui sono stati tratti anche sceneggiature teatrali e veri e propri spettacoli – si articola un percorso finora poco toccato, originale, colmo di nostalgia, ma anche di orgogliosa appartenenza: personaggi indimenticabili come l’indipendente zia Gina (l’unica della famiglia ad essere veramente andata in Grecia), oggetti, mobili donati che narrano legami e contatti, in simbiosi profonda con la città. Un passato memorabile, con cui fare i conti, quello illuminato da Il profumo dell’estate: l’editoria dei grandi testi della tradizione classica, da Manuzio in poi, l’opera degli artisti madoneri con le loro botteghe a Rialto. Persino l’idioma dei veneziani risente dell’influenza greca; si contano almeno trecento parole, alcune legate all’architettura, come il pato de la scala (“il pianerottolo”) che deriva dal termine greco patoma (significa “piano”) oppure liagò (piccole logge esterne che sporgono dal prospetto dei palazzi) dal greco iliakos, dove Ilios è il sole. oppure, in campo culinario, butiro (il burro) è identico al greco vutiro o il piron, la forchetta, viene dal greco piruni.
Nel 1953, dopo la fine della Serenissima e un lento declino, la comunità veneziana si spoglia di tutto il suo patrimonio immobiliare ed artistico trasferendolo alla Stato ellenico (e permettendo così la nascita a Venezia dell’Istituto di Studi bizantini e postbizantini, l’unico Istituto di ricerca ellenica all’estero). Tuttavia, il rapporto tra i greci e la città resta fondamentale. La narrazione di Redolfi de Zan, limpida e piana, procede per illuminazioni improvvise: la Pasqua ortodossa, la cerimonia nel profumo d’incenso, il segno della croce «ampio e danzato tre volte», le processioni e il pozzo in campo dei Greci – sempre lo stesso – di generazione in generazione, dove scattare istantanee. Intorno, come testimoniano le innumerevoli e splendide fotografie che corredano il volume, c’è Venezia: percorsi in gondola, l’area Saffa prima della trasformazione, la spiaggia del Lido (oltre alla casa in campagna e quell’albero di olea fragrans che offre il pretesto per il titolo). Come sempre, senza cesure, una città a mosaico: ogni minoranza trasforma nel profondo la vita del contesto urbano in cui è inserita, ne offre una lettura diversa. Nel caso della comunità greca, tutto è tsivaeri, “cosa preziosa”. Si chiama così un canto tradizionale caro agli emigranti lontani dalla madrepatria. Di tesori, quell’identità ibrida che si chiama Venezia è intessuta.