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Roth, Levi e il segreto delle interviste

Philip Roth durante l’intervista a Primo Levi

L'”appassionata” biografia di Primo Levi pubblicata da TESSERE col titolo Questo è un uomo e scritta da Daniele Pugliese inizia con una citazione tratta dall’intervista che Philip Roth fece allo scrittore torinese per “The New York Times Book Review”: «A Philip Roth che – dopo l’uscita di Se non ora, quando?, l’“unico” romanzo con la R maiuscola da lui pubblicato – lo intervista per “The New York Times Book Review” nell’ottobre del 1986, Primo Levi – il prigioniero n. 174517 del lager di Auschwitz – parlando di radicamento, dice: «La scrivania a cui scrivo sta esattamente nel luogo in cui, secondo la leggenda, sono stato partorito».

Di quell’intervista scrive dettagliatamente il curatore delle opere di Primo Levi, Marco Belpoliti, in un articolo intitolato Philip Roth e le tre interviste a Primo Levi, pubblicato su “Doppiozero“, prestigiosa rivista on line con la quale TESSERE auspica un rapporto di reciproca collaborazione come già avviene con “Succedeoggi”, “Ytali” e “Internazionale”.

Dopo l’articolo di Flavio Fusi uscito in occasione della morte di Roth, per gentile concessione di Luigi Grazioli, saggio ed efficiente curatore di “Doppiozero”, pubblichiamo l’inizio dell’articolo di Belpoliti rinviando la lettura al sito della rivista.

Marco Belpoliti e Anna Benedetti. Foto di Andrea Ruggeri (andrea@nonamephoto.it)

MARCO BELPOLITI 

Uno dei più bei libri di Philip Roth non è un romanzo e neppure una raccolta di racconti, bensì un libro di interviste. Si intitola Shop Talk, in italiano Chiacchiere di bottega. Lo ha pubblicato in inglese nel 2001 e contiene una serie di conversazioni con colleghi scrittori. Sono interviste precedute da fulminanti ritratti delle persone che Roth ha incontrato, da Aharon Appelfeld a Ivan Klíma, da Isaac Bashevis Singer a Milan Kundera, poi una visita a Edna O’Brien e uno scambio epistolare con Mary McCarthy, un ritratto di Philip Guston e una serie di rapide recensioni ai libri di Saul Bellow. Sono testi molto belli dove Roth manifesta non solo la qualità dell’eccellente lettore – come potrebbe essere diversamente dato che è uno scrittore? – ma anche quelle del critico, cosa in cui non tutti gli autori, soprattutto se celebri e famosi, sono versati. Un critico è uno che entra nelle pieghe dei libri che legge, ne percorre la tela fine che li compone e ne trae riflessioni d’ordine generale sulla letteratura, sul mondo, su se stesso. Roth dimostra nelle sue chiacchiere di bottega di possedere una straordinaria umiltà. Non si pone mai al di sopra degli autori che incontra e neppure guarda dall’alto i loro libri: si affianca e li sollecita. Da amico, oltre che da ammiratore, con una curiosità che lascia di stucco in uno scrittore così complesso, ricco e profondo. La profondità che usa è quella dell’intelligenza, che per quanto affilata non è mai cinica né sentimentale, ma sempre disposta a capire.

Il libro, ora rifuso nel volume di saggi della sua opera, Why Write? Collected Nonfiction 1960-2013 (The Library of America, New York 2017), si apre con una conversazione con Primo Levi, lo scrittore che probabilmente Roth ha più ammirato, almeno tra quelli non americani. Una conversazione davvero affascinante che ha una storia interessante, dal momento che questa versione non è l’unica che si può leggere. Si tratta di una intervista che, al saldo delle innumerevoli varianti, è leggibile in almeno tre differenti versioni che raccontano qualcosa del rapporto tra Roth e Levi, ma anche del modo con cui Levi pensava alla sua opera. In questi giorni esce presso Einaudi il terzo volume delle Opere complete dello scrittore torinese che ha come sottotitolo: Conversazioni, interviste e dichiarazioni, che ho curato, dove sono contenute due delle versioni di quella conversazione. Ma partiamo dall’inizio, da quando Roth e Levi si sono conosciuti.

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