CRITICA LIBRI

“Scale Matte” da leggere

Nasce la collana Scale Matte, dedicata alla storia dell'ebraismo italiano. Tra testi ormai introvabili, percorsi alternativi e autentiche scoperte, come Si può stampare di Silvia Lombroso
milano memoriale della Shoa al binario 21

Scale Matte, come le scale contorte, vagamente escheriane di uno dei più significativi edifici del Ghetto di Venezia: da lì ha preso il nome una nuova collana editoriale, a cura del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano e della Comunità Ebraica  lagunare, stampata per i tipi dell’Editore Il Prato. Testi dedicati alla cultura ebraica italiana; opere importanti, ma qualche volta dimenticate, oppure titoli ormai fuori commercio: «Sono libri che hanno ancora valore nel presente – ha commentato il Direttore della Fondazione CDEC Gadi Luzzatto Voghera». L’operazione, di grande peso concettuale e simbolico, è partita dagli scaffali della Biblioteca “Renato Maestro” (di cui Luzzatto Voghera è stato Direttore per anni) e da un progetto condiviso con Paolo Navarro Dina (giornalista de Il Gazzettino e consigliere della Comunità veneziana). L’anno scorso, con l’apporto significativo di Stefania Roncolato del CDEC e la volontà dell’Editore Luca Parisato, il progetto è divenuto realtà: «Un’impresa non facile, affascinante, – ha ammesso lo stesso Parisato – ma fondamentale. Sapete perché? Perché contiene precisi obiettivi di politica culturale, in un momento cruciale, in cui è più che mai necessario ragionare sui valori storici e ancor più importante divulgarli, anche attraverso il mezzo rivoluzionario del libro a stampa».

Il meraviglioso, sempre rivoluzionario libro: i primi tre volumi della collana rappresentano autentiche chicche. La prima è la Storia degli ebrei italiani nel Levante del grande Attilio Milano, con la prefazione di Francesca Trivellato; poi, Venezia ebraica di rav Adolfo Ottolenghi, indimenticabile presenza per gli ebrei veneziani, scomparso ad Auschwitz, con un testo di Giovanni Levi; infine Si può stampare. Pagine vissute 1938-1945 di Silvia Lombroso. Quest’ultima opera , in particolare, costituisce un’autentica riscoperta nel campo della memorialista sul tempo delle leggi razziali e delle persecuzioni. Nella prefazione accurata ed intelligente di Alberto Cavaglion, si sottolinea come i diari, i racconti in prima persona, gli scritti privati dedicati a quegli anni tragici non siano sufficientemente riconosciuti nel loro interesse documentario. Considerata un genere minore, la letteratura di memoria spesso, invece, nasconde autentici tesori di spregiudicatezza e lucidità, come questo Si può stampare: titolo dai toni ironici, quasi a ribadire una libertà troppo a lungo negata. L’autrice ha un nome importante: Silvia Allegrina Forti nasce a Verona da una facoltosa famiglia ebraica; nel 1913 sposa Ugo Lombroso, fisiologo, figlio di Cesare, il padre dell’antropologia criminale. A sua volta, una figlia della coppia, Nora, si unirà in matrimonio con il fisico Bruno Rossi (pioniere della fisica dei raggi cosmici e promotore dell’uso del contatore Geiger). Nel momento in cui vengono introdotte in Italia le leggi razziali, la vita della famiglia ne è sconvolta: il padre allontanato dall’Università, Nora e il marito costretti ad emigrare negli Stati Uniti, a Chicago. I coniugi Lombroso – antifascisti, di fede socialista – decidono dapprima  di trasferirsi in Francia, dove il professore ha ricevuto l’invito di lavorare all’École de Médicine di Parigi come “Maître des Recherches”. Con lo scoppio della guerra e l’occupazione tedesca della Francia, rientreranno in Italia, spostandosi e nascondendosi da Genova a Firenze, a Roma.

Silvia vede e scrive: non pensa ad un’opera letteraria; lo fa per mettere in ordine i pensieri, forse per esorcizzare il dolore che la circonda. È un tipo perspicace, dotata di fine ironia, quando racconta le visite dei vicini venuti ad acquistare gli oggetti che la famiglia è costretta a vendere: «La moglie prende un’aria contrita, metà condoglianza, metà commiserazione che nasconde l’ansia astuta di fare un buon affare: le dispiace proprio … ma chi l’avrebbe mai pensato … ma son cose che passano … bisogna farsi forza …; – annota Silvia – intanto loro prenderebbero questo e questo e questo. Enumera le cose, offre il prezzo; meno di un terzo di quello segnato sulla lista». Ricorda la soddisfazione impagabile di accompagnare gli avventori alla porta, a bocca asciutta, «con un gelido, superbo, distante sorriso». Con la stessa acutezza, l’autrice individua negli indifferenti il concreto problema del momento storico, in un passo magistrale del suo libro: «Curiosa è la “reazione” cioè la “non reazione” che ho osservato nelle persone anche intelligenti, anche buone. Protesterebbero se voi diceste loro che sono inumani, anticristiani; eppure, in pratica, si sforzano giorno per giorno di diventare un poco più indifferenti al tormento degli altri; e se proprio qualche scrupolo rimane lo fanno tacere e si consolano dicendo che, in fondo a questa campagna, ci deve essere “una ragione”, un qualche cosa di misterioso, che nessuno ha scoperto mai, che nessuno sa cosa sia, ma che “ci deve essere”, non fosse che per permettere a questa brava gente di dormire i propri sonni tranquilli». Eppure, sostiene Silvia Lombroso «bisogna parlare, non tacere». Vietato tacere per pudore, vietato accettare: «Troppo comodo», ribadisce.

Quel diario che doveva accompagnare il periodo della perdita dei diritti, dal 1938 al 1943 – dopo la debole speranza di riacquistare la libertà nel luglio di quell’anno –, si trasforma in un doloroso (ma sempre vigile) racconto di fughe continue, di paure, di vita clandestina negli anni dell’occupazione nazista. «Con gli scritti di Giacomo Debenedetti e di Luciano Morpurgo, Si può stampare – si legge nell’esaustiva nota biografica al volume redatta da Stefania Roncolato – rappresenta uno dei primi testi sulla Shoah italiana, descritta non dalla prospettiva del deportato, ma di chi è riuscito a nascondersi in Italia e sopravvivere». Forse, in queste pagine c’è ancor di più: la volontà di riflettere anche sulle dinamiche, per nulla scontate o pacifiche, della fine delle persecuzioni e della nuova liberazione. «Gli ebrei – scrive Lombroso, commentando un articolo di Giacomo Debenedetti – non aspirano ad una campagna di “riparazione” che rovesci una campagna di distruzione; ma ciò che li rende pensosi, è il timore che la rapida manovra per invertire la rotta, sia stata adottata solo per un ordine venuto dall’alto, e che venga eseguita “oggi” con la mentalità di “ieri”». Un dubbio sempre attuale, sull’esercizio del potere.

Il testo viene pubblicato in poche decine di copie, a Roma, nel 1945 (per i tipi della Dalmatia Editrice);  tradotto in inglese, è riedito nello stesso anno a New York. Poi, il silenzio. Rimasta vedova nel 1952, Silvia Forti Lombroso si trasferisce negli Stati Uniti, a Cambridge, dove vivono figli e nipoti. Morirà nel 1979.  Si può stampare ci restituisce il pensiero limpido di un ebraismo tipicamente italiano, ma è anche storia di tutti. Operazione indispensabile, riproporlo al pubblico: come dice Luca Parisato, è un’arma di difesa di massa contro l’oblio.