DAILY LA PAROLA

Sicurezza

La sicurezza è impagabile, ma la paghiamo a caro prezzo: quello dei diritti. Eppure gli esperti ci dicono che la sicurezza è cresciuta, non diminuita, negli ultimi anni

La vecchia signora seduta davanti all’ingresso si lamenta con un sospiro: «una volta si poteva lasciare la porta aperta tutta la notte. Oggi, dio ci salvi, non si sta più sicuri nemmeno in casa propria, bisogna sprangarsi, e spesso non basta». Uno sguardo intorno, e vedi il paese deserto, quattro anziani all’ombra, il bar chiuso da anni, i cartelli di “vendesi” che ingialliscono sulle facciate, asfalto sconnesso, giardini incolti, una campagna abbandonata. Chi si arrampicherebbe fino a questo borgo agonizzante per il gusto di molestare la dolce signora?

Eppure sì, il pericolo è dietro l’angolo. Lo dice la televisione tutte le sere all’ora di cena, quando fa il conto degli invasori che vengono dal mare, lo scrivono i giornali tutte le mattine: arresti, furti, sgozzamenti, agguati. Lo ha detto anche Lui in quel comizio là: «regole, ordine, disciplina»: di questo ha bisogno il nostro sventurato Paese.

Sicurezza, appunto, è questa la parola che va di moda nella nostra estate declinante, tra i sudori e gli odori nelle spiagge affollate e il ronzio dell’aria condizionata nelle austere aule parlamentari. Sicurezza, dal latino “sine cura”, senza preoccupazioni. Ah, averla, una vita senza preoccupazioni né pericoli!
La sicurezza è impagabile. Anzi, si può e si deve pagare. Lo rese chiaro un presidente americano in tempi che ormai pochi ricordano. Subito dopo gli attentati dell’11 settembre a New York, George Dabliu Bush si presentò in televisione per proporre un baratto: sicurezza in cambio di garanzie, sicurezza in cambio di diritti. Siamo in guerra, disse questo dislessico rampollo di petrolieri texani, e il pianeta – se non lo sapete – è un luogo pericoloso, «a dangerous place». L’America, la culla della democrazia occidentale, piegò il capo: sicurezza, of course.

Del resto, questa è la storia del nostro mondo. Dall’ Urss di Stalin alla Germania hitleriana, da Mao Tse Tung a Mussolini a Kemal Ataturk a Moubarak, tanti innocenti furono fatti penzolare dalle forche per preservare la sicurezza dello Stato. Si riempirono le carceri e si riempirono le fosse in nome della pace dei focolari, della garanzia dei traffici, dell’impunità dei trafficanti, dell’ immunità dei padri della patria.
Gli scienziati, i tecnici, gli specialisti, dicono invece che la sicurezza – nel nostro come negli altri Paesi – è una grandezza misurabile. E le misure ci dicono che la sicurezza è cresciuta, non diminuita, negli ultimi anni. I reati denunciati lo scorso anno sono in diminuzione. Le denunce per rapina, ad esempio, sono oltre il 35 per cento in meno rispetto al picco (44mila) del lontano 2013. I furti sono il 24 per cento in meno rispetto al 2014. Gli omicidi, infine, sono da anni in calo costante. Ma che volete che sia un’arida statistica rispetto al combinato disposto di “emozione” e “comunicazione”? In un Paese dove oltre il 30 per cento della popolazione non sa comprendere un semplice testo scritto e non sa interpretare una percentuale è abbastanza semplice pompare i due termini per far crescere una forte, spesso irrazionale, domanda di protezione.

Diciamo la verità: la sicurezza – come la calunnia – è un venticello, per quanto illustri scienziati si ingegnino a esaminarla, misurarla, discuterla, analizzarla. Un venticello che soffia insistente dai palazzi del potere alle periferie urbane, fino a raggiungere i borghi dell’ amabile signora spaventata dagli spettri. Il sogno di una vita senza pericoli (sine cura) è del resto umano, umanissimo, come il sogno di una vita senza povertà. Diverso, se un qualunque politico agita lo straccio di una pozione magica che possa miracolosamente abolire sia il pericolo che la povertà.
E poi, di cosa parliamo? La sicurezza è un termine polimorfo, declinabile in mille situazioni. C’è la cintura di sicurezza (a cui nessuno ha mai chiesto di abolire gli incidenti stradali), c’è la sicurezza alimentare, c’è la sicurezza economica, c’è l’uscita di sicurezza, che davvero oggi dovrebbe essere garantita a noi tutti, cittadini indifesi.

C’è infine, ma nessuno ne parla, la sicurezza sul lavoro. Le solite noiose statistiche ci dicono che nel 2018 i morti sul lavoro in Italia sono stati 704, il 14 per cento in più rispetto all’anno precedente. E nel primo trimestre di quest’anno gli incidenti mortali sono già 212: esseri umani che la mattina lasciano la casa per guadagnarsi la pagnotta, e la sera tornano chiusi in una cassa di legno.
Per questa necessità di sicurezza non c’è né emozione né comunicazione. A volte un servizio in televisione, un articoletto a pagina quindici, la solita lagnanza dei sindacati. Il venticello tace, e perché mai un cittadino dovrebbe indignarsi di fronte a questi inevitabili casi della vita e della morte? Del resto, lo disse tanti anni fa anche quel presidente americano: «il mondo, cari miei, è un luogo pericoloso».

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