CRITICA LIBRI

Un inedito di Hobbes per riscoprire il filosofo

La rilettura di Thomas Hobbes, alla luce dei brani inediti in Italia pubblicati nel saggio di Daniela Coli Hobbes, Roma e Machiavelli nell’Inghilterra degli Stuart, (Firenze, Le Lettere, 2009) e l'affiancamento del suo pensiero a quello di Machiavelli, consentono di tirare fuori il filosofo inglese dal giochetto ad accaparrarselo (o a tacitarlo per sempre) tentato anni addietro.
Thomas Hobbes

La rilettura di Thomas Hobbes, alla luce dei brani inediti in Italia pubblicati nel saggio di Daniela Coli Hobbes, Roma e Machiavelli nell’Inghilterra degli Stuart, (Firenze, Le Lettere, 2009) e l’affiancamento del suo pensiero a quello di Machiavelli, consentono di tirare fuori il filosofo inglese dal giochetto ad accaparrarselo (o a tacitarlo per sempre) tentato anni addietro.

Tre brani ancora inediti in Italia di quello che a buon diritto è considerato uno dei più acuti “fondatori” della politica modernamente intesa – il filosofo inglese Thomas Hobbes – sono da poco disponibili al lettore nel volume Hobbes, Roma e Machiavelli nell’Inghilterra degli Stuart, pubblicato nel 2009 presso la casa editrice Le Lettere dalla ricercatrice e docente fiorentina Daniela Coli che conta nel suo curriculum diversi lavori nel settore della storia della filosofia.

Si tratta dei Three Discourses, tre pezzi brevi indicati come I Discorsi su Roma, che la studiosa mette a confronto nella sua analisi con il Leviathan, il Behemoth sullo sfondo dei conflitti religiosi e politici dell’Inghilterra degli Stuart, ed affiancando questa nuova lettura di Hobbes con un raffronto con il pensiero di Nicolò Machiavelli, l’altro pilastro della politica.

Thomas Hobbes è stato negli anni passati al centro di grandi attenzioni filosofico-politiche, mirate forse anche sì a comprendere meglio il pensiero del grande filosofo – a pieno diritto ascritto nella lista di quanti contribuirono alla rivoluzione scientifica seicentesco da cui deriva l’impianto base della scienza così com’è ancora intesa – ma certamente tese anche a “trascinare” la sua autorevolezza da una parte o dall’altra degli schieramenti politici o, di contro, ad annullarne il peso.

Il libro della Coli ha il merito di riportare l’attenzione verso Hobbes nell’alveo della storia delle idee, ricontestualizzando l’elaborazione del suo pensiero in quell’epoca storica – è vero remota, ma affatto “estranea” all’ambito nel quale ancora ci muoviamo – il seicento europeo, che ospitò tragici conflitti religiosi, il più massacrante dei quali, la Guerra dei Trent’anni, sta nell’anima europea come l’originale “War to end all wars”, la guerra fine di tutte le guerre, periodicamente riproposta e mai davvero conquistata.

Ed ha anche il merito di riproporre l’affiancamento della sua figura a quella di Machiavelli, un binomio che ha spinto altri autori ad etichettarli come i “politologi maledetti” ma stavolta evidenziando più le somiglianze che le differenze.

Lo fa partendo proprio dai viaggi che Hobbes, in compagnia del suo protettore Cavendish, ha effettuato in Italia nei primi decenni del 600’, per la precisione nel biennio 1614-1615, in quella stessa Italia su cui era incentrata l’attenzione del pensatore fiorentino. La produzione filosofica dei due autori fu influenzata dalla memoria dell’Impero Romano e dallo stato in cui si trovava Roma nella loro epoca: capitale decadente e suo malgrado barocca, retta da una sorta di teocrazia imperfetta dotata di raffinati metodi di controllo della popolazione umile e avvezza tanto a rituali raffinati quanto a brutali cortigianerie.

Benché li accomunasse la polemica anticattolica, Machiavelli era interessato al recupero di quelle virtù avventurose della Roma dei condottieri e degli Imperatori, atte ad una rigenerazione della vita politica dell’epoca, mentre Hobbes era un aspro critico del potere Cattolico, visto come uno spettro immeritevole dell’antico potere romano, ed intenzionato a trovare nuove forme di potere che andassero al di là dei valori politici classici.

Entrambi, però non solo partivano dalla fascinazione per i grandi miti dell’antichità, ma sostenevano uno scardinamento di vecchie maglie ideologiche legate alla mentalità medievale, quali l’immutabilità del potere e l’intoccabilità dell’autorità papale ed ecclesiastica; nonché la necessità di uno studio della realtà animato da un razionalismo diverso da quello della tradizione scolastico-medievale.

Hobbes, che è anche traduttore di Tucidide e commentatore di Tacito, nonché azionista della Virginia Company, schierandosi contro i presbiteriani – che contano la maggioranza in Parlamento e caldeggiano la guerra contro gli Asburgo e i Borboni avvalendosi dell’alleanza con l’Olanda – auspica il dialogo con il papato, posizione che condividono Giacomo I e Carlo I. Per questa via, nel momento in cui il progetto degli Stuart viene vanificato dalla guerra dei Trent’anni e dalla guerra civile inglese, giunge a sostenere nel Leviathan il primato della legge naturale, per mezzo della quale poter legittimare teoricamente la sovranità e dare allo stato britannico il pilastro della religione anglicana.

Dal confronto tra i due teorici della politica emerge secondo l’autrice un Hobbes la cui “ragion di Stato” sembra andare oltre la concezione utilitaristica di Machiavelli e di costituire un esorcismo definitivo al caos politico giunto al culmine nelle guerre civili inglesi e nella Guerra dei Trent’anni, attraverso la definizione di un Contratto Sociale apparentemente brutale, ma teso alla salvaguardia degli uomini “da loro stessi”, ovvero dal lato peggiore della propria natura.

Una filosofia politica a cui Hobbes giunge gradatamente, con un percorso di maturazione alla fine del quale prevale lo scetticismo, segno di sensibilità umaniste e prettamente moderne, anche se non propriamente liberali.

Daniela Coli, Hobbes, Roma e Macchiavelli nell’Inghilterra degli Stuart, Firenze, Le Lettere, 2009, pp. 270

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