CRITICA FILM

Il valore della libertà di stampa nell’era Trump

La prima scena è la guerra. Il Vietnam e una drammatica imboscata in cui perdono la vita decine di soldati americani. In mezzo l’osservatore ingaggiato dal segretario alla difesa Mc Namara, che nel 1967 aveva commissionato uno studio confidenziale (sconosciuto anche al presidente Johnson) sulla guerra del Vietnam, realizzato in collaborazione con la Rand Corporation, società specializzata nell’analisi delle politiche pubbliche. Lui, l’esperto analista Daniel Ellesberg è l’uomo che passò anni, insieme al ricercatore Antony Russo, a trafugare dagli uffici della Rand Corporation le 7 mila pagine dello studio US-VietnamRelations, 1945-1967: History of US Decision Making Process on Vietnam Policy e che, nel 1971, le consegnò al “New York Times” e al “The Washington Post”. I celeberrimi Pentagon Papers che svelarono agli americani la gigantesca menzogna sostenuta sul Vietnam dal Governo, che continuava ad inviare soldati a morire come mosche malgrado sapesse che quella guerra non poteva essere vinta.

Comincia così l’ultimo film di Steven Spielberg The Post: un racconto sul filo della storia, del primo grande scoop giornalistico che inchiodò Richard Nixon e altri tre presidenti prima di lui alle proprie responsabilità sulla guerra più disastrosa sostenuta dagli Stati Uniti, fino ad oggi. Tecnicamente può essere definito un “prequel” del capolavoro di Alan J. Pakula All the President’s men, perché l’ultima scena è proprio quella della guardia giurata che scopre e denuncia l’effrazione nella sede del Partito Democratico, nel complesso residenziale Watergate, dando inizio a quello che è passato alla storia come “lo scandalo Watergate” che metterà la pietra tombale sulla presidenza Nixon.

Il film celebra la libertà di stampa, il coraggio, la ribellione, l’etica e lo fa proprio nell’America di Trump, dove essere liberi di parlare e di scrivere, coraggiosi e ribelli non è proprio la caratteristica del buon americano secondo The Donald. E lo fa con due mattatori quali Maryl Streep in stato di grazia nei panni di Katharine Graham, editrice del “Post”, e Tom Hanks, Ben Bradlee, il direttore deciso a farsi valere e a fare del suo giornale una testata nazionale tale da reggere il confronto con il “nemico” e più prestigioso “New York Times”.

La storia è nota e si sa come va a finire, non c’è vera suspense in questo thriller giornalistico, dove, come ha detto lo stesso Spielberg, «ci sono inseguimenti, ma con i giornalisti». In alcuni momenti è lento e il doppiaggio italiano non rende del tutto giustizia agli attori protagonisti. Tuttavia inchioda lo spettatore alla poltrona, osservatore della caotica vita di redazione, dell’ansia da “buco”, lo scoop del giornale avversario, del rumore delle rotative, dei piombi che sapientemente compongono titoli e pezzi, mentre i giornali escono caldi caldi e impacchettati, pronti per la distribuzione sui camion con il nome della testata sulla fiancata.

Dall’altra parte la vita da salotto di Katharine Graham, cui Meryl Streep presta l’espressione e le movenze da dama dell’alta società, attenta a non scontentare nessuno degli amici, tra cui lo stesso Mc Namara, e che lascia galleggiare il giornale appena un centimetro fuori dall’acqua. Niente a che vedere con la battagliera Karen Silkwood dell’omonimo film o con la terribile Miranda Priestly de Il diavolo veste Prada. Piuttosto una signora lenta e indecisa, elegante e sofisticata lontana dalla redazione e dalle rotative in cui metterà piede solo alla fine del film, quando la “cittadina Kate” prende la decisione di sfidare Nixon e la Corte Suprema, ignorando ogni invito alla cautela da parte di legali e del consiglio di amministrazione che l’hanno fino a lì tollerata solo perché è la proprietaria del “Post”, subentrata a capo dell’azienda alla morte del marito. Sa che rischia di affossare il giornale appena quotato in borsa e perdere tutto, eppure si sveglia proprio un minuto prima che sia troppo tardi per far partire le rotative e sceglie la verità. La grande assente dal film di Pakula, tutto al maschile, rivendica anche un nuovo ruolo della donna, non più solo “angelo del focolare e del salotto”, e Maryl Streep riesce a interpretare questo cambiamento nel suo personaggio che cresce, acquista coscienza e sicurezza, con la semplice espressività del viso, la postura e la gestualità delle mani. Non è da tutti.

Accanto a lei un Tom Hanks imbolsito e invecchiato, più comandante “Sully” e meno Forrest Gump, con l’aria rassegnata di chi sa che oltre certi limiti il giornale non potrà andare, che conosce le regole di ingaggio e guarda con una certa tenerezza il suo “principale”. Ma che diventa improvvisamente vitale e fiero, pronto ad andare alla guerra fino in fondo, anche se a rischiare tutto non è lui, ma la Graham, come gli fa notare la moglie.

Il finale con la Corte Suprema che assolve il “N.Y. Times” e il “Post”, deliberando a favore della libertà di stampa, la scena di Nixon visto di spalle dalla finestra dello studio ovale che tuona contro il “Post” e la razza dei giornalisti, mentre scorrono le scene del Watergate, merita da solo tutto il film.

In tempi di giornalismo digitale e fake news, di notizie non filtrate, di citizen journalism, di uffici stampa fantasma, Spielberg ha il merito di celebrare il mestiere del giornalista e il suo compito, quello di far conoscere la verità, di sfidare chi vuole mettere il bavaglio alla libertà di parola, il guardiano che resiste al potere, il gioco di squadra e “il sacro fuoco” che brilla, in questo caso negli occhi di Tom Hanks, quando capisce di avere per le mani la notizia del secolo e di poterla pubblicare.