Giocavamo nel parco, spensierati bambini degli anni Cinquanta, e le mamme ci rimproveravano: «Guardati! Ti sei conciato come uno zingaro». Zingaro: sostantivo maschile singolare. Zingara: sostantivo femminile singolare. Zingaraccio/a: sostantivo con suffisso spregiativo. Zinghero: accezione popolare («so’ stati i zingheri»).
Nel parla come mangi della politica nostrana degli anni Duemila, sono davvero stati i zingheri: a rubare, a sporcare, a rapire innocenti bambini bianchi, a meritarsi il castigo della ruspa. Il primo indiziato, il primo accusato, il primo gridato dai titoli della cronaca nera è sempre lo zingaraccio. Ricordate Erika e Omar, i due soavi sedicenni che nel 2001 uccisero a coltellate la madre e il fratellino di lei? Prima di confessare, accusarono a colpo sicuro albanesi, zingari, extracomunitari: l’intero melting pot dei barbari invasori.
Zingari, altro che Rom! Questi termini arcani lasciamoli ai radical chic come l’ultraottantenne senatrice Liliana Segre, scampata da Auschwitz, che così racconta come in un sol giorno nel campo vennero liquidati tutti i Rom: «Il nostro spazio confinava con le baracche degli zingari, che sembravano continuare a vivere la loro vita, senza divise, in famiglia. Poi una mattina non c’era più nessuno, il vento trascinava stracci, resti di stoffa, piccoli oggetti di casa, cenere. E allora una prigioniera disse: li hanno bruciati tutti».
A Babij Jar, un profondo dirupo alla periferia di Kiev, i nazisti che nella seconda guerra mondiale avanzavano verso Mosca uccisero almeno centomila esseri umani: prima gli ebrei, poi i comunisti e i prigionieri di guerra russi, poi gli ucraini non collaborazionisti, infine intere famiglie Rom. Per loro – racconta lo scrittore Anatolij Kuznecov – spesso non si sprecavano pallottole: bastava un colpo di badile in testa o nel ventre, una bastonata ben assestata. Si formavano così montagne di morti e moribondi, un verminaio di corpi straziati. Interveniva infine la santa ruspa, che tutto cancellava, che tutto livellava, che tutto nascondeva sotto tonnellate di terra.
Vi dice niente la parola ruspa, in questa sventata, limacciosa, infelice estate italiana? La bandiera della ruspa sventola sulla spiaggia di Milano Marittima, tra improbabili ariani d’occidente, cavernicoli gonfi di birra che si agitano e urlano e bevono e sudano e si scambiano selfies con il potente di turno. Guardi quelle foto scattate al Papeete Beach e ti verrebbe di dirlo, a quel bamboccione di ministro, con la pancia sudata, la bottiglia in mano, il cappellino da scemo e la lingua di fuori: «Guardati, ti sei conciato come uno zinghero!»
Eppure, eppure. I nazisti di Babij Jar mostravano quella funerea, diabolica gravitas che li rendeva protagonisti di una immane tragedia storica. Guai a confondere il ministro sbruffone con i mostri e gli spettri del secolo che ci sta alle spalle. Qui e oggi va invece in scena una truce commedia all’italiana che parla di piccole e piccolissime persecuzioni quotidiane, di violenza esibita e praticata, di abusi da guitti, di volgare ignoranza e di paura trasfigurata in aggressività: un cane che abbaia e mostra i denti. Non vi basta? Non ci basta? Come avverte Philip Roth: «Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui».