IL NUMERO

11,7

Secondo Eurostat, l’Istituto statistico europeo, l’11,7% dei lavoratori italiani, nel 2016, era a rischio povertà, pur avendo un’occupazione. Circa 2.500.000 persone, su un totale di 22.241.000 occupati, che vivono appena sopra la soglia minima, oltre la quale si viene definiti poveri. Intendendo per soglia di “rischio di povertà” un reddito annuo inferiore al 60% del reddito medio nazionale (in Italia è circa 9.500 euro).

È quanto emerge dai dati pubblicati nei giorni scorsi da Eurostat, sulla povertà lavorativa nel Vecchio Continente  che tracciano un quadro preoccupante sui cosiddetti “working poor”. Peggio dell’Italia, solo Romania (18,9%9), Grecia (14,1%), Spagna (13,1%) e Lussemburgo (12%).

La percentuale italiana, largamente superiore alla media europea del 9,6%, è in crescita sul 2015 (quando si era fermata all’11,5%) e soprattutto sul 2010 (+2,2 punti percentuali). Secondo la CGIL, addirittura, 4.500.000 di occupati (tra chi ha un contratto a tempo determinato e chi ne ha uno di part-time ma involontario) sono da considerare nell’area del disagio. Il rischio, infatti, come dice lo stesso Istituto europeo di statistica, è influenzato anche dal tipo di rapporto di lavoro e, tra chi ha un part-time, il rischio di povertà raddoppia (19,9%, un lavoratore su 5). Situazione simile per chi lavora a tempo determinato (20,5%, contro al 16,2% dell’Europa): in questo caso il rischio di scivolare verso la povertà è tre volte superiore rispetto a chi ha un lavoro a tempo indeterminato (il 7,5%).