IL NUMERO

15

È il numero di parole, firma compresa, con le quali Cesare Pavese si congedò dal mondo, quel giorno di 67 anni fa, come ha ricordato ieri Serena Bersani. Le scrisse sul frontespizio di un libro, come a voler ribadire in vita – ed in morte – di aver avuto un solo legame indissolubile: quello con le parole, con i pensieri incarnati nei suoi libri.

Una breve missiva in cui vengono presentate le sue irrevocabili dimissioni dal Mestiere di vivere, siglata sul frontespizio del suo Dialoghi con Leucó, fu trovata nella stanza numero 43 dell’Hotel Roma di Torino, insieme a 12 bustine di sonnifero vuote, ad alcuni fogli bruciati, alla compiutezza di un proposito meditato e rimandato piú volte, sino ad avere la necessaria “umiltà”, come lui stesso aveva scritto.

Un addio consumatosi nella città che sentiva piú vicina, Torino, in un albergo che portava in nome di un’altra città, sideralmente distante da lui, in tutti i sensi, Roma, nella Bella estate che macina ricordi e solitudini e fallimenti. Un distacco voluto, a due mesi dal premio Strega, a qualche giorno dell’ennesimo amore malriposto, con la concessione del proprio perdono urbi et orbi, il desiderio di essere da tutti perdonato, ed una sola richiesta, uguale a quella formulata da Majakovskij nella stessa circostanza, di non fare pettegolezzi. Del resto, non è bene far chiacchiere intorno ad un uomo riservato, che lascia un cortese cenno di saluto di sole quindici parole.