LA DATA

25 ottobre 1973

Il mondo dello sport lo ricorda come l’atleta che vinse la maratona correndo scalzo. Era il 1960, Giochi olimpici di Roma e lui è l’etiope Abebe Bikila, morto il 25 ottobre del 1973, ad Addis Abeba per una emorragia celebrale, a soli 41 anni.

Era nato il 7 agosto 1932 a Jato, a 130 chilometri dalla capitale etiope, con un destino scritto nelle stelle: lo stesso giorno in cui venne alla luce, dall’altra parte del mondo, a Los Angeles, si correva proprio la maratona delle decime Olimpiadi, vinta dal ventenne argentino Juan Carlos Zabala.

L’impresa leggendaria che lo rese un eroe nel suo Paese e nel cuore di milioni di tifosi porta la data del 10 settembre 1960. E pensare che tutto accadde quasi per caso, poiché Bikila (questo il nome di battesimo, Abebe è il cognome, anteposto secondo la regola etiope) faceva parte della nazionale olimpica in sostituzione del grande Wami Biratu, che si era infortunato pochi giorni prima della partenza, durante una partita di calcio. Le scarpe fornite dallo sponsor tecnico non erano quelle giuste e l’atleta, in accordo con il proprio allenatore, lo svedese Onni Niskanen, decise di correre scalzo. Percorse tutti i 42 km e 195 metri canonici della maratona a piedi nudi, tagliando il traguardo sotto l’Arco di Costantino in 2h15’16″2.

Ma mettersi al collo la prima medaglia d’oro olimpica africana, in un momento in cui, per un atleta di quel continente, anche solo partecipare ai Giochi olimpici sembrava un miracolo, non fu l’unico trionfo per Bikila. Fissò anche il record del mondo, che avrebbe migliorato di circa 3 minuti, nel 1964 ai Giochi di Tokio (primo atleta a vincere due medaglie d’oro di seguito nella maratona olimpica). Soprattutto, come ha scritto Fiorenzo Radogna, ieri sul “Corriere della Sera”, ricordandone i 45 anni dalla morte, colse il successo «da atleta delle ex colonie fasciste, di vincere nell’Urbe con la sua falcata inarrivabile, l’inconsapevole irriverenza della sua “calzatura naturista” e l’involontario messaggio di cui era latore. Verso un popolo italiano, ora più umile e consapevole, che aveva ancora negli occhi e nelle orecchie la disturbante retorica tronfia e razzista del Faccetta nera e del Posto al sole (rubato anche agli abissini)». Erano gli anni della decolonizzazione dell’Africa, un quarto di secolo dopo la guerra di conquista del regime fascista contro quell’Etiopia per cui Abebe Bikila gareggiò e vinse.

Figlio di un pastore degli altopiani, un lavoro da agente di polizia e guardia del corpo personale dell’imperatore Haile Selassie, aveva iniziato con l’atletica agonistica solo quattro anni prima delle Olimpiadi di Roma e, alla vigilia, erano pochissimi quelli che lo annoveravano tra i favoriti. Intervistato dopo la sua impresa, mentre, si racconta, gli venivano tolti dalle piante dei piedi sassolini, schegge di vetro e pezzetti di legno, ebbe a dire: «volevo che il mondo sapesse che il mio paese, l’Etiopia, ha sempre vinto con determinazione ed eroismo», malgrado la terribile povertà della sua gente e spesso nemmeno le scarpe per correre e camminare.

Dopo aver corso 15 maratone e averne vinte 12, nel 1969 il destino beffardo lo attendeva nei pressi di Addis Abeba, dove rimase vittima di un incidente automobilistico che lo lasciò paralizzato dal torace in giù. Pur avendo perso l’uso delle gambe, non volle abbandonare il mondo dello sport e si cimentò nel tennis da tavolo, nella slitta in Norvegia, nel tiro con l’arco, che lo portò alle Paralimpiadi di Heidelberg nel 1972.

Bikila e il suo “oro scalzo” sono diventati una leggenda e forse una delle immagini più belle dello sport, quando davvero diventa un atto di eroismo e il simbolo della volontà incrollabile, in grado di abbattere ogni ostacolo.