IL NUMERO

26.500 miliardi

A tanto ammonta, in dollari, la cifra “drenata” dai paesi ricchi a quelli del Sud del mondo negli ultimi decenni. Una cifra che equivale, all’incirca, al Pil degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale sommati insieme. È un altro numero che si desume dal libro di Jason Hickel, The Divide, pubblicato da Il Saggiatore, di cui “linkiesta“ ha anticipato un ampio estratto e da cui abbiamo tratto il numero 4,3 miliardi LINK .

Hickel smonta in particolare la teoria sostenuta nel volume La fine della povertà del 2005 dall’economista americano Jeffrey Sachs, ex direttore degli Obiettivi di sviluppo del millennio e consigliere speciale del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, apostolo degli aiuti allo sviluppo, per ben due volte inserito nella lista delle 100 persone più influenti del mondo stilata dalla rivista “Time”.

La tesi di Sachs è che casualità naturali legate alla geografia e al clima, facilmente risolvibili, siano la causa della povertà dei paesi del Sud, e non vi sia quindi alcuna responsabilità dei paesi occidentali. Pertanto, se i paesi ricchi aumentassero i loro aiuti ai paesi in via di sviluppo portandoli allo 0,7 per cento del Pil, la povertà nel mondo potrebbe essere sradicata in soli 20 anni. Questo consentirebbe ai paesi poveri di avere i soldi per pagare le tecnologie agricole essenziali, un’assistenza sanitaria di base, acqua potabile, istruzione primaria ed elettricità, e risalire quindi la scala dello sviluppo.

Jason Hickel evidenzia, sulla base dei dati pubblicati nel 2016 dalla Ong americana Global Financial Integrity e dal Centro di ricerca applicata della Norwegian School of Economics, che, calcolando tutte le risorse finanziarie trasferite ogni anno fra paesi ricchi e paesi poveri – non solo aiuti, investimenti esteri e flussi commerciali, come avevano fatto studi precedenti, ma anche altri tipi di trasferimenti, come remissioni del debito, rimesse degli emigranti e fughe di capitali – nel 2012 i paesi in via di sviluppo hanno ricevuto poco più di 2.000 miliardi di dollari, compresi tutti gli aiuti, investimenti e redditi dall’estero, ma ha seguito il percorso inverso una cifra che è più del doppio: 5.000 miliardi di dollari. In tasca all’occidente sono rimasti 3.000 miliardi di dollari: una somma 24 volte superiore agli stanziamenti annuali per gli aiuti (128 miliardi di dollari), vale a dire che per ogni dollaro di aiuti che ricevono, i paesi in via di sviluppo ne perdono 24 in deflussi netti. La cifra sale a 26.500 miliardi di dollari se si considerano tutti gli anni a partire dal 1980: all’incirca il Pil di Stati Uniti e dell’Europa occidentale sommati insieme.

Il deflusso deriva, secondo Hickel, dagli interessi sul debito (oltre 200 miliardi di dollari ogni anno, 4.200 dal 1980), dal reddito che gli stranieri incassano e riportano in patria dai loro investimenti nei paesi in via di sviluppo, dai profitti ottenuti dagli investimenti in azioni e obbligazioni del Sud del mondo, attraverso i loro fondi pensione, dai diritti di proprietà intellettuale sui brevetti, dalle fughe di capitali – fetta di gran lunga più grande – e da false fatturazioni commerciali: 875 miliardi di dollari ogni anno attraverso questo meccanismo fraudolento.

«Ma forse – scrive ancora l’economista – la perdita più significativa è quella che ha a che fare con lo sfruttamento che viene perpetrato attraverso gli scambi commerciali. Dall’inizio del colonialismo fino all’era della globalizzazione, l’obiettivo principale del Nord è sempre stato quello di ridurre forzatamente il costo del lavoro e delle merci acquistati dal Sud. In passato, le potenze coloniali erano in grado di dettare direttamente le condizioni alle loro colonie. Oggi, il commercio è tecnicamente “libero”, ma i paesi ricchi riescono comunque a imporre la loro volontà, perché hanno molto più potere contrattuale. Come se non bastasse, gli accordi commerciali spesso impediscono ai paesi poveri di proteggere i propri lavoratori adottando gli stessi sistemi di cui si servono i paesi ricchi. E dal momento che oggi le multinazionali possono battere a tappeto il pianeta alla ricerca della manodopera e dei beni più economici, i paesi poveri sono costretti a gareggiare fra loro spingendo verso il basso i costi. Il risultato di tutto ciò è che esiste un divario enorme fra il “valore reale” del lavoro e dei beni che i paesi poveri vendono e i prezzi che gli stessi ricevono per essi. È quello che gli economisti chiamano “scambio ineguale”. A metà degli anni novanta, quando l’epoca dell’aggiustamento strutturale era al suo apogeo, ogni anno il Sud perdeva per questo fenomeno fino a 266.000 miliardi di dollari (in dollari del 2015), un trasferimento nascosto dal valore pari a ventuno volte le dimensioni del budget che oggi viene destinato agli aiuti allo sviluppo, e che fa sembrare poca cosa il flusso degli investimenti diretti esteri».