ATTUALITÀ MEMORIE STORIE

Quei giudici monarchici che non volevano proclamare la Repubblica

Tutti sanno che il 2 giugno è festa nazionale, perché al referendum di quel giorno del 1946 vinse la Repubblica (54,3%) contro la monarchia (45,7%), complice per un ventennio del fascismo che aveva portato alla dittatura, alla discriminazione razziale, alla guerra, alla distruzione del Paese.

Ma in pochi – e non certo i più giovani – sanno o ricordano che nei giorni successivi al referendum si consumarono maneggi inauditi e anche un po’ grotteschi tra il Quirinale (dove risiedeva ancora Umberto II), Montecitorio e Cassazione. Maneggi per non riconoscere che la monarchia aveva perso e che se ne doveva andare anche il così detto “re di maggio” – fu sovrano per meno di un mese – come aveva già fatto suo padre Vittorio Emanuele III, che aveva abdicato nell’estremo e vano tentativo di salvare casa Savoia dall’ignominia.

Sono, dunque, le 18 in punto del 10 giugno ’46 – cito da un dispaccio della agenzia Ansa – e nella storica Sala della Lupa della Camera (lo stesso ambiente in cui si erano riuniti gli Aventiniani all’indomani dell’assassinio, per mano fascista ,del deputato socialista Giacomo Matteotti,10 giugno 1924) entrano in pompa magna i magistrati della Suprema Corte di Cassazione a sezioni riunite, per procedere alla proclamazione ufficiale, che tutti ritengono scontata, della nascita della Repubblica.

Di fronte al primo presidente della Corte Giuseppe Pagano, al procuratore generale Massimo Pilotti, a sei presidenti di sezione e a dodici consiglieri, sono presenti molte personalità che otto giorni prima erano state elette alla Costituente. Tra costoro anche due futuri presidenti della Repubblica e una futura presidente della Camera: Giuseppe Saragat (che dapprima presiederà la Costituente e a cui, dopo la scissione socialdemocratica, succederà il comunista Umberto Terracini), Sandro Pertini (che, prima di salire al Quirinale, sarà presidente della Camera) e Nilde Iotti, che sul sarà confermata sul più alto seggio di Montecitorio per tredici anni.

Sotto i fari del “Nuovo Giornale Luce” (il “nuovo” serviva a marcare la distanza politica dal vecchio cinegiornale creato da Mussolini), solenni sono l’esame e la lettura dei verbali trasmessi dagli uffici circoscrizionali. Complicate e a tratti confuse le somme tirate da due computisti al lavoro su calcolatrici a manovella: il ragionier Fracassi, incaricato di sommare i voti per la monarchia nelle 31 circoscrizioni, man mano che Pagano ne dà lettura, e il ragionier Ciccarelli, che fa lo stesso per i voti repubblicani. Fatti i conti, tutti si aspettano non solo l’annuncio ufficiale dei risultati, ma anche e soprattutto la proclamazione ufficiale della Repubblica. E invece no: il primo presidente Pagano, in perfetta intesa con il procuratore generale Pilotti (tutti e due monarchici doc), si limita a “proclamare” i risultati “provvisori” (per la Repubblica 12 milioni e 672mila voti, per la monarchia 10 milioni e 668mila) rinviando «ad altra adunanza il giudizio definitivo su contestazioni, proteste e reclami».

Accade così che, mentre il governo ha già ufficialmente preso atto della vittoria della Repubblica e persino stabilito per decreto la festività del 2 giugno, Umberto II coglie a pretesto la manifesta riserva della Cassazione per sostenere che l’esito del referendum restava incerto e, quindi, per rifiutarsi di lasciare il Paese per il Portogallo, secondo gl’impegni presi con il governo presieduto da Alcide De Gasperi. Si determina insomma una situazione di estrema tensione e pericolosità: Consiglio dei ministri riunito in permanenza, dimostrazioni nelle piazze (a Roma uno scontro con 30 feriti), passi sempre più energici di De Gasperi sul “re di maggio” perché riconosca la sconfitta e ne tragga le inevitabili, persino tardive conseguenze.

Ma Umberto resiste ribadendo la sua «decisa volontà di aspettare il responso (…) quale risulterà dagli accertamenti e dal giudizio definitivo della Corte di Cassazione». Il governo di unità antifascista conferma, allora, la piena validità non solo dei risultati del referendum, ma soprattutto delle conseguenze istituzionali e annuncia che le funzioni di capo del nuovo Stato repubblicano passano automaticamente dall’oramai ex re al presidente del Consiglio, in attesa che la Costituente elegga il capo provvisorio dello Stato, come avverrà il 28 giugno con l’elezione alla suprema carica di Enrico De Nicola.

L’avvocato De Nicola è un duplice simbolo: era stato lui l’ultimo presidente della Camera prima del fascismo; ed è anche un segno di pacificazione, dal momento che tutti conoscono (e rispettano) i suoi mai rinnegati sentimenti monarchici.

Il conflitto tra governo e “monarca” sconfitto è oramai aperto e si teme che possa precipitare da un momento all’altro con devastanti conseguenze. Ma la determinazione del governo, e più ancora l’aria che spira nel Paese, inducono finalmente Umberto, il pomeriggio del 13, a rassegnarsi e ad abbandonare Roma su un aereo militare alla volta della Spagna. Da lì raggiungerà più tardi il Portogallo. Prima di andarsene, però, un ultimo proclama che viene giudicato irresponsabile per i potenziali effetti su animi assai esacerbati: «Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della magistratura – osa sostenere Umberto –, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario assumendo con atto unilaterale e arbitrari poteri che non gli spettano (l’assunzione provvisoria della più alta responsabilità istituzionale da parte di De Gasperi, ndr) e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire violenza…». Subisce, insomma.

Ma il presidente Pagano e il procuratore Pilotti non subiscono: riconvocano la riunione della Cassazione, sempre nella Sala della Lupa, correggono di qualche decina di migliaia di voti i risultati, ma ancora una volta non proclamano la nascita della Repubblica. Che, paradossalmente, è comunque già una realtà operante.

Né la storia di quella stagione finisce qui. All’inaugurazione dell’anno giudiziario del 1947 il procuratore generale – ancora lui, Pilotti – apre la cerimonia guardandosi bene dal rivolgere un formale saluto al capo dello Stato De Nicola che gli siede davanti, né ricordando il referendum istituzionale dell’anno prima. Un affronto bello e buono. Ma la Repubblica democratica, «fondata sul lavoro», è oramai viva e vegeta. Come Massimo Pilotti che, sin quasi alla fine degli anni Cinquanta, siglerà il suo carrierone conquistando, e mantenendo per sei anni, la carica di primo presidente della Corte di Giustizia della Comunità Europe…