LA DATA

31 gennaio 1876

Quel giorno, dopo molti secoli di violenze, ruberie e razzismo, gli Stati Uniti ordinarono a tutti i Nativi Americani – quelli che a lungo sono stati chiamati gli Indiani perché in fondo fin dai tempi di Cristoforo Colombo si era pensato di aver scoperto le Indie – di trasferirsi nelle riserve. La denominazione ufficiale è Indian reservation ed in Canada, invece, Indian reserve.

Attualmente l’area geografica “concessa” alla 326 riserve è di 227.000 chilometri quadrati (56.200.000 acri), corrispondenti, approssimativamente, alle dimensioni del Laos, dell’Uganda, della Guyana o della Bielorussia e, per restare in territorio americano, a quelle dell’Idaho. Ma non sono uno Stato, sono frazioni di territorio sparpagliate, per lo più ad ovest del Mississippi; la più grande, quella della Nazione Navajo, è simile come dimensioni alla Virginia Occidentale.

L’Indian reservation è una denominazione legale che indica un’area di terra gestita da una tribù nativa americana federalmente riconosciuta come Nazione, sotto il controllo del Bureau of Indian Affairs (Agenzia degli Affari indiani).

Non tutte le 567 tribù riconosciute del paese hanno una riserva, mentre alcune ne hanno più di una, poche la condividono con altre.

I trattati di pace con cui, al tempo della ratifica della Costituzione statunitense, vennero assegnate le riserve, furono per lo più firmati sotto coercizione. Le tribù dovettero cedere grandi porzioni di terra agli Stati Uniti, “riservando” a sé piccole particelle.

Nel 2012 i Nativi americani erano circa 2,5 milioni e di essi solo 1 milione vivevano nelle riserve. Gli altri sono sparpagliati e spesso vivono in città più grandi come Phoenix e Los Angeles.

L’approvazione dell’Indian Removal Act (“Legge sulla deportazione degli Indiani”) nel 1830 segnò la sistematizzazione di una politica del governo federale statunitense volta a trasferire con la forza le popolazioni native lontano dalle aree popolate dagli Europei.

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