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Alberto Levi e i “salvati” della comunità ebraica barese

Si chiamava Alberto Levi. E a Bari, nel 1943, era rimasto solo, con la moglie e le due figlie. In che senso? Nel senso che erano gli unici ebrei italiani ancora in città, dopo il varo delle famigerate leggi razziali, promulgate dal regime di Mussolini nel 1938. E fu quindi anche il solo nucleo familiare che si ritrovò, dopo l’ 8 settembre 1943, nella Puglia liberata dagli alleati e da una parte delle forze armate e della popolazione. Levi entrerà così, all’inizio del 1944, nella Comunità israelitica temporanea di via Garruba 63, a Palazzo De Risi. Ma era, appunto, il solo barese. Gli altri avevano attraversato il fronte tra ottobre e dicembre 1943: oltre millecinquecento, di cui solo una settantina cittadini italiani.

La vicenda della comunità barese è un capitolo importante – anche se poco noto – di quegli anni. La storia di Alberto Levi e degli altri millecinquecento ebrei d’Europa giunti nel capoluogo pugliese testimonia l’intreccio tra quella comunità «temporanea», i cittadini pugliesi, le istituzioni appena uscite dal fascismo e gli eserciti alleati. A quella vicenda è dedicato il capitolo «La comunità ebraica di Bari (1944-1950)», scritto dallo storico Francesco Terzulli e contenuto nel volume Terra di frontiera. Profughi ed ex internati in Puglia. 1943-1954 (Irrsae Puglia-Ipsaic/Progedit, Bari 1988-2000), a cura di Vito Antonio Leuzzi e Giulio Esposito.

Occorre ricordare che nel Mezzogiorno d’Italia, al contrario che nel Centro Nord, le comunità ebraiche erano assai ridotte. Infatti, sotto il dominio spagnolo, si era giunti nel 1541 alla definitiva espulsione degli ebrei dal Regno di Napoli. Così pure in Puglia, nel corso dei secoli, tornarono in pochi. Tra questi la famiglia Levi. E ci rimase sempre, al contrario di molti altri che dopo l’adozione delle leggi razziali «avevano preferito – scrive Terzulli – rientrare nelle città d’origine del Centro-Nord, temendo che rimanere a Bari, dove gli ebrei erano pochissimi, fosse più pericoloso».
I Levi ebbero più fortuna: a Nord guerra e deportazioni finirono nella primavera del 1945; invece nell’autunno 1943 in Puglia, e man mano nelle altre regioni meridionali liberate, era ripresa la vita. Non a caso Vittorio Emanuele III, in fuga da Roma, era giunto proprio a Brindisi il 10 settembre. A Bari, Palazzo De Risi, ex sede d’un gruppo fascista, dal 1944 ospitò così la Comunità ebraica: 70 italiani, 795 jugoslavi, 158 polacchi, 104 austriaci, 80 cecoslovacchi, 38 tedeschi, 35 apolidi, una trentina tra rumeni, francesi, bulgari, ungheresi, russi, lettoni, inglesi, estoni. Tra gli italiani, molti nomi di rilievo. Tra questi, l’attore Arnoldo Foà, che fece lo speaker di Italia combatte, a Radio Bari; il futuro sottosegretario Mario Fano; l’ammiraglio Aldo Ascoli (ex comandante del Battaglione San Marco). Molti membri della comunità erano militari della Brigata Hatikvah Yehudit Lochemet (unità di combattimento ebraica) e della Brigata partigiana jugoslava d’Oltremare, fondata a Bari nell’autunno 1943. In via Garruba 63 trovarono sistemazione l’Ufficio palestinese, il Centro profughi, una mensa, un club.

I problemi? Tanti. Ad esempio, nel campo di Bari-Carbonara c’erano 650 profughi ebrei, nei dintorni altri 500, 200 a Taranto. Finché la capitale del Regno del Sud restò a Brindisi, i rapporti col Governo italiano erano in qualche modo possibili; ma l’11 febbraio 1944 corte e governo si trasferirono a Salerno e i contatti s’interruppero. Problemi che aumentarono via via che la Puglia si trasformava nel ponte percorso dagli ebrei diretti, clandestinamente o legalmente, verso Israele. A Bari dall’inizio del 1945 entrarono in funzione il Central Palestine Office, dedicato all’emigrazione, l’Education Board (col compito di organizzare scuole), un hachsharoth (colonia agricola destinata a preparare i giovani alla vita in Palestina), una scuola per pescatori (riservata agli ebrei polacchi), una scuola ebraica (destinata solo ai reduci dai lager).

Nel gennaio 1945 a Bari c’erano, in attesa, 1327 ebrei non-italiani. A marzo partì ufficialmente da Taranto, dopo tre giorni di visite mediche nel capoluogo, la prima nave con novecento ebrei diretti in Palestina. Da Bari, il 28 agosto 1945 partì invece la prima nave di clandestini salpata dall’Italia verso il futuro Stato di Israele: il peschereccio Sirius, ribattezzato Dàlin, al cui varo aveva partecipato il vescovo di Monopoli. E nel capoluogo pugliese iniziarono le proteste ebraiche contro il governo britannico, che ostacolava l’emigrazione verso il Medio Oriente. Il 17 aprile e il 22 luglio 1947 mille ebrei provenienti dal campo profughi di Palese inscenarono una manifestazione davanti al consolato britannico, a Bari; il 23 agosto insorsero contro il direttore neozelandese del campo; analoga protesta nel campo di Trani, il 6 ottobre. Comparve, su alcuni volantini e manifesti, anche la firma dell’Irgun Leumì d’Eretz Israel, organizzazione clandestina armata.

Non solo. Scrive Terzulli: «Il 10 aprile 1948 nelle acque del porto di Bari, i servizi segreti ebrei riescono a far saltare il motoveliero Lino, diretto a Beirut, con tutto il suo carico di 6.000 fucili e di munizioni acquistate dai palestinesi presso una fabbrica cecoclovacca». Il 6 giugno 1949 giunse in visita a Bari il console d’Israele. Alla fine del 1949 gli ebrei della comunità barese s’erano ridotti a sole 99 persone, di cui 15 italiani; gli altri erano emigrati. Poi la Comunità israelitica si dissolse. Rimase il cimitero ebraico: la cura – ricorda Terzulli – fu «affidata al signor Alberto Levi».