CRITICA MOSTRE

Bianco de Waal

Nel cuore del Ghetto di Venezia, fino al 29 settembre, "psalm", un'installazione dell'artista e scrittore inglese, Edmund de Waal, dedicata al tema dell'esilio. La mostra è allestita negli spazi che il Museo Ebraico condivide con la Scola Canton, una delle sinagoghe più antiche della città

Il Ghetto ebraico di Venezia è una soglia, una metafora transitiva, plurale. Appartiene alla città, ma è caro a tradizioni diverse; è qui e altrove. Edmund de Waal, ceramista e scrittore inglese – noto in tutto il mondo per il bestseller Un’eredità di avorio e ambra, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 2010 per la traduzione di Carlo Prosperi – lo ha ben compreso, quando ha scelto questi luoghi per l’anteprima mondiale del suo progetto psalm, destinato ai più prestigiosi musei del mondo: «Sono un artista che scrive. – ha dichiarato – Gran parte del mio lavoro ruota attorno alla memoria, cercando di riportare a nuova vita storie speciali, storie di perdita ed esilio. Con questo spirito, ho lavorato a Berlino, a Vienna, ma mi sembra che qui ci sia molto di più da mettere in gioco». È così (dato che le storie stesse sono, per de Waal, cose concrete) che ha preso forma l’idea di un’installazione di arte contemporanea nel cuore del Ghetto, negli splendidi spazi che il MEV (Museo Ebraico di Venezia) condivide con una delle più belle ed antiche sinagoghe veneziane, la Scola Canton. È la prima volta che ciò accade, e l’esperimento è colmo di fascino: dall’8 maggio di quest’anno, e fino al prossimo 29 settembre, i lavori dell’artista – minimali, preziosi, in apparente contrasto con l’evidenza storica ed estetica degli ambienti in cui sono stati allestiti – raccontano una vicenda di struggente, pudica nostalgia. psalm, in ebraico tehillim: «Tutto mi parla, è un palinsesto di voci. – spiega de Waal – Penso ai Salmi come a canti di esilio dalla città, l’assenza eternamente presente di Gerusalemme. I Salmi – prosegue – sono canti che muovono dal singolare al plurale, dalla voce solitaria a quella comunitaria, dalla rabbia, la disperazione e il lamento, fino alla gioia».

Le opere di de Waal, altamente concettuali, portano echi con sé. Tracce di chi ha abitato questi edifici, lasciando appena un segno del proprio passaggio (un libro di preghiere consumato, un’iscrizione nel marmorino), o storie di grandi personaggi, come il poliedrico rabbino Leone da Modena o la poetessa Sara Copio Sullam: a quest’ultima, in particolare, l’artista dedica un’opera specifica, un tavolo con le parole del Salmo 137 Sui fiumi di Babilonia, scritte sopra e sotto l’engobbio (che è una tecnica di copertura e decorazione per la ceramica). Sono piccoli oggetti, le storie di de Waal. Una delle installazioni (detta appunto tehillim) è collocata proprio all’ingresso della sinagoga Canton: undici teche bianche, ed ognuna contiene una lamina molto sottile di porcellana dorata e un blocchetto di marmo bianco traslucido. Un contrasto evidente tra la venezianità del ricordo, la preziosa onda del tempo (così nascosta tra gli edifici del Ghetto da sorprendere ogni qualvolta la si scopra) e la fissità del materiale, il suo residuo. In qualche caso, l’artista mimetizza le proprie tracce, lasciando indizi sulle scale; in altri, si fa accompagnare dai versi di Rainer Maria Rilke, come se il Melchisedek del suo racconto ambientato nel Ghetto potesse ancora raggiungere il cielo, dalla casa più alta. Addirittura, nella sala della Sukkah (il riferimento è alla festa di Sukkot, la Festa delle capanne che commemora le peregrinazioni nel deserto del popolo d’Israele), de Waal realizza un’installazione fatta di piccoli recipienti di porcellana a cui sono appoggiate forme d’oro, quasi un «santuario di torri».

L’altezza e il colore bianco: ecco le cifre connotanti dell’artista inglese. Alzarsi, quasi un segno di emancipazione, il desiderio di andar oltre ogni vincolo, ogni segregazione; il bianco, come il “bianco marmo” delle porcellane che i nazisti facevano lavorare ad Allach dai prigionieri di Dachau. «Il bianco è anche la mia storia» ha commentato de Waal, poi ha aggiunto – nel suo bel libro La strada bianca. Storia di una passione, anche questo tradotto da Carlo Prosperi per Bollati Boringhieri (2016) – «Il bianco è un modo di ricominciare daccapo». L’esilio, tuttavia, non fa tabula rasa dei ricordi, lascia segni del nostro passaggio (con una tendenza all’accumulazione da Wunderkammer), anche quando dialoga con il bianco del lutto orientale: file e file di piccoli manufatti, pile precarie di oggetti in porcellana di ridotte dimensioni, quasi i versi di un Salmo. I vasi di de Waal hanno perso in questa sede il loro valore funzionale, ma mantengono la presenza delle generazioni (come i netsuke degli Ephrussi, la famiglia dell’artista, collezione di piccole sculture giapponesi in legno o in avorio, miracolosamente giunti fino ad oggi, nonostante le persecuzioni razziali, la spoliazione dei beni e la guerra). Midòr Ledòr, appunto, “di generazione in generazione”: il segno della bellezza in quella lamina dorata, ma anche i poveri resti di chi non c’è più. Memorie tattili e visive, intuitivamente olfattive, molto più di quanto l’allestimento minimale, la forte essenza concettuale non rivelino di primo acchito: un dolore ripulito dai detriti, scintillante; una gioia – discreta, empatica – di essere qui e ora, a raccontare.

All’essenza dell’esilio – coniugato anche come denuncia – de Waal dedica, inoltre, la sezione di psalm ambientata fuori dal Ghetto, nell’Aula Magna dell’Ateneo Veneto. L’artista vi ambienta una vera e propria biblioteca dell’esilio: duemila libri scritti da autori costretti ad espatriare o perseguitati nel proprio Paese; da Ovidio a Dante, da Voltaire a Victor Hugo. È storia di ieri, ma è anche storia del nostro tempo: «È vicenda del ventesimo secolo, – ha commentato – è la storia di Walter Benjamin, di Osip Mandel’štam e Marina Cvetaeva; penso a Ai Qing in Cina, o a Czeslaw Milosz in Polonia, a Ismail Kadare in Albania».   Sulle pareti di questo spazio, de Waal ha vergato un elenco delle biblioteche del mondo che sono andate perdute: Ninive e Alessandria, fino alla recente distruzione di quelle di Sarajevo, Timbuctu, Aleppo e Mosul, senza contare le biblioteche rabbiniche di Lublino e Varsavia e, perché no, il fondo del bisnonno di de Waal. «Entra, siediti a leggere», invita l’artista. Nella sua interezza, dentro e fuori dal Ghetto, psalm ha un potere prodigioso, che andrà (si spera) ben oltre il tempo del suo allestimento a Venezia: la magia di far pensare e commuovere, lo spunto per riflessioni e testimonianze importanti. Infatti, durante il periodo di apertura della Biennale Arte, l’esposizione ospiterà un programma di eventi, performances, letture e concerti; la rassegna approfondirà, in particolare, i temi della traduzione in letteratura, dell’esilio, dell’emigrazione e dei confini, l’esperienza della diaspora. Tra i numerosi autori attesi, André Aciman, Philippe Sands e Ben Okri. Tuttavia, la forza di psalm sta soprattutto – ai margini di un altrove che è la vita di ciascuno e della collettività – nel suo essere tikkùn, ricostruzione del mondo; nel restituirlo in una forma più aperta, più libera e plurale, di quello che oggi si è costretti ad accettare. Come per il Melchisedek di rilkiana memoria, un viaggio in levare.