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Trent’anni senza Sciascia

A trent’anni dalla morte di Leonardo Sciascia, scomparso il 20 novembre 1989, la rivista “Doppiozero” lo ricorda attraverso le immagini e le parole di uno dei suoi amici, il fotografo Ferdinando Scianna, nell’articolo C’era una volta Regalpetra, c’era una volta Leonardo Sciascia, di Nunzio La Fauci, che qui riproponiamo.

«Regalpetra, si capisce, non esiste: “ogni riferimento a fatti accaduti e a persone esistenti è puramente casuale”. Esistono in Sicilia tanti paesi che a Regalpetra somigliano; ma Regalpetra non esiste». L’antifrasi è smaccata. Tanto scoperta da non potere essere scambiata per ironia. C’è ironia talvolta, come figura del discorso, nelle pagine di Leonardo Sciascia ma dire che la sua penna fosse fondamentalmente ironica lo si potrebbe solo per ironia. Una dose supplementare ne domanderebbe sostenere che fu soprattutto caratterizzata da un tratto ironico la sua figura pubblica. L’una e l’altra, le si potrà trovare chiare, severe, risentite, sottili, eleganti, polemiche, inquietanti, sferzanti e così via. Ma, al fondo, ironiche no. Nemmeno umoristiche. C’era una fede, in Sciascia, non solo e banalmente nel rapporto tra realtà e parola, ma anche, di ritorno, tra parola e realtà che poneva al riparo la sua espressione dalla consapevolezza tragica della fallacia ineluttabile e della sconfortante inanità di tali rapporti.

Consapevolezza senza la quale non c’è ironia né umorismo. Che sia un luogo comune, quando si parla di Sciascia, tirare in ballo Luigi Pirandello? Un luogo comune autorizzato dallo stesso Sciascia.

Un luogo comune ineluttabile, del resto. All’ingrosso, si può infatti dire che tra i due ci fu un luogo in comune. Tanto ingombrante nella percezione dei più, da nascondere i molti luoghi, anche materiali, oltre che spirituali, le circostanze sociali e soprattutto il tempo, con la sua aria determinante, che Sciascia non condivideva, né avrebbe del resto potuto condividere con Pirandello. Formarsi in un modestissimo agio micro-borghese non era come farlo nell’agiatezza, per quanto periclitante, di una schiatta d’imprenditori, Caltanissetta non era Roma né Bonn, Giuseppe Granata non era Ernesto Monaci e così via: dati di fatto, morali e biografici, e fatti storici e culturali così ovviamente noti che continuarne il lungo elenco suonerebbe oltraggio alla cultura e all’intelligenza di chi legge.

E ammesso, come sopra s’è detto, che tra Pirandello e Sciascia ci sia stato almeno un luogo in comune, questo luogo non fu certamente Regalpetra, anche perché niente che somigli a una Regalpetra è riferibile a Pirandello. Invece, sotto la penna di Sciascia e per scoperta antifrasi, Regalpetra non solo esisteva, ma era proprio e apertamente la sua Racalmuto. Pubblicato il libro nel 1956, ci fu in proposito anche l’affettuosa testimonianza dei compaesani, felici, persino i ritratti in modo non proprio elogiativo, di riconoscersi nello scritto del loro giovane maestro. Una Racalmuto solo appena un po’ celata dietro l’omaggio a Nino Savarese e alla sua Petra (ci si tornerà), che era però luogo mitico, allegorico e integralmente letterario. Tale la Regalpetra, la Petra reale (come si può dire traendo profitto da un’accidentale omonimia) di Sciascia?

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