ATTUALITÀ IL PERSONAGGIO

Da destra a sinistra, Amos!

Come fu che l’adolescente Amos Klausner, figlio d’immigrati della Diaspora europea, divenne il grande Amos Oz, lo scrittore celebre in tutto il mondo: storie di kibbutz e d’impegno civile di un sionista critico, in un paese in continua trasformazione

C’era stata quella telefonata ad un paio di amici italiani, tanto per sfogarsi, quando il bel libro di Dorit Rabinyan, Borderlife, dedicato alla storia d’amore tra un’israeliana e un palestinese, uscito in Israele nel 2014, aveva suscitato tante polemiche ed era stato vietato nelle scuole: Amos non sopportava i fondamentalismi, da qualunque lato della barricata venissero. Per curarli, diceva, ci vuole senso dell’ironia e realismo. Non parlava mai dello Stato, ma delle persone che ci vivevano, che lo costruivano, con i loro amori, le ambizioni, i sogni. La pace con i palestinesi, per lui, significava fine dell’occupazione, e due Nazioni: «Un divorzio ragionevole», e sorrideva all’idea. Sorrideva sempre, Amos Oz.

Anche nell’ultimo periodo, quando si era trasferito da Arad, il suo eremo nel deserto del Negev, a Tel Aviv (per star più vicino ai nipoti, si scusava con se stesso), ci si divertiva spesso con i suoi racconti di kibbutznik appassionato, sionista e poco portato per i lavori manuali: «Un asso con i pomodori, però» sosteneva. Si rideva di gusto, pensando a quel giovane un po’ spaesato, che voleva fare il pioniere, ma si chiudeva la notte in sala di lettura, dove nessuno si sarebbe mai sognato di avventurarsi a quell’ora: «Accendevo le luci, chiudevo a chiave la porta, e scrivevo piccoli poemi romantici, poesie d’amore».

Questa non è un’intervista impossibile, perché le domande sono state fatte tutte prima e le risposte, quelle, valgono per sempre. Parlare di Amos Oz, piuttosto, è come specchiarsi in un futuro che si ha molto desiderato, in un mondo saldo e pulito che consentiva la chiarezza, pur nella contraddizione; la bellezza del pluralismo, nella dialettica. «Preferirei finire in prigione, piuttosto che combattere per un’estensione dei nostri confini. – ribadiva, mentre la luce pomeridiana filtrava dalle persiane socchiuse in cucina e il caffè gorgogliava sul fornello – Se qualcuno tenta di ammazzarmi, ovvio, combatterò. Combatterò se qualcuno tenta di ridurmi in schiavitù. Però, queste sono le uniche ragioni per cui sarei pronto a morire, nient’altro». Se si eccepiva che, nel 1967, intellettualmente e moralmente, aveva pur imbracciato il mitra, rispondeva cristallino: «Certo, in quel momento sapevo benissimo cosa stessi facendo, per le strade di Gerusalemme, con addosso l’uniforme dell’esercito israeliano. Lì c’era una minaccia concreta nei confronti della mia vita e di quella dei miei familiari».

I piani temporali si sovrappongono: il racconto di Amos Klausner, adolescente in fuga da Gerusalemme dopo il suicidio della madre, rifugiatosi nel kibbutz di Hulda contro il parere del padre (un intellettuale di destra, originario dei territori dell’ex impero zarista); Amos che si cambia il cognome in Oz, che in ebraico vuol dire forza. Ancora, Amos bambino, nella minuscola casa seminterrata in cui abita con i genitori, che appena impara a scrivere – cinque anni, forse sei – si prepara un foglio su cui traccia la parola “scrittore” e l’appende alla porta della sua cameretta. Amos appassionato, decenni dopo, sul palco di un dibattito pubblico a Tel Aviv, mentre afferma con forza la sua disposizione al dialogo: «Sono stato il primo – confidava con orgoglio e un po’ di amarezza , e il ricordo torna alla camicia chiara, portata fuori dei pantaloni, con la nonchalance del sabra, del nativo israeliano, e a quell’ebraico scandito che persino gli olim hadashim, i nuovi arrivati in Israele, riuscivano a capire – il primo a dichiarare pubblicamente, nel ’67, subito dopo la guerra dei sei giorni, che occorreva ritirarsi alla svelta dai territori che erano stati appena occupati …». A chi gli chiedeva se fosse ancora sionista, visto che non gli avevano dato retta, rispondeva senza indecisioni: «Sono ancora un sionista, sono ancora un socialdemocratico. Con l’età sono scomparsi solo i punti esclamativi: adesso mi definirei un sionista un po’ scettico, e un socialdemocratico in evoluzione …».

Un po’ pessimista? «L’aspetto interessante del pessimismo risiede nel fatto che, in fondo, è l’unico sistema per essere spesso piacevolmente sorpresi dall’esistenza». Il ragazzino che entrò a far parte del kibbutz Hulda nel 1955 è ancora lì, sotto sotto. Non si può non esserne certi: l’uomo Oz ne condivide la sicurezza che bisogna sempre provare a fare del proprio meglio, senza rinunciare alle idee. «Dobbiamo farlo», e l’eco se lo porta via la notte di Arad, il deserto, con la memoria di quando Amos se ne usciva nel silenzio di una solitudine che lui stesso definiva assoluta. Di laggiù, lo sguardo si faceva lucido, oggettivo. Come i gatti nel buio, scherzava con la figlia Fania: «Non vi pare che la società israeliana abbia un che di felliniano? – diceva – la gente urla e s’insulta ma, in realtà, dietro le discordanze, esiste un’intimità particolare, sotterranea che lega tutti. Molti israeliani non sono ebrei; ci sono israeliani arabi. Molti ebrei non sono israeliani. È la nostra identità specifica, incrociata, mescolata. Ciò che realmente cementa questo Paese è la polemica. La sua voglia e la sua capacità di discutere. Ascolta – lo raccontava divertito – non è una barzelletta, e rende bene l’idea. Un autista conduce il Premier da casa all’ufficio; a un certo punto, in macchina, si gira e gli dice: “Devi esserti fumato il cervello. Come hai potuto dire quello che hai detto?” Proprio così …». Ovunque «gente che chiacchera». Da Hulda in poi: «Io cercavo una vita dedicata al fare e non al parlare. Volevo guidare trattori, sorvegliare il villaggio di notte e vivere a cavallo, come un sionista nel selvaggio West … e invece, anche lì come a casa: chiacchieroni formidabili. Solo che a casa mia si disputava di Spinoza o di Hegel, e lì di Bakunin, di Trotskij e di Stalin. Lo facevano mungendo le vacche e inscatolando i pomodori. “Da destra a sinistra Amos, stringi da destra a sinistra!” Niente da fare, un pianto. – lo diceva con un candore disarmante – Allora, dato che la gente di Hulda era piuttosto pragmatica e avevano bisogno d’insegnanti per le loro scuole medie, mi spedirono per due anni alla Hebrew University di Gerusalemme. Non gli interessava la laurea, quanto le conoscenze».

Fu così che Klausner divenne Oz, quello che conosciamo. Il romanziere di successo, l’attivista politico, il pacifista Oz. Se gli si chiedeva perché, in Una pantera in cantina, sosteneva di essere stato chiamato traditore molte volte, esprimeva un pensiero decisivo (come sempre, la risposta precedeva la domanda, la soverchiava). Lo diceva con semplicità, magari passeggiando nel deserto tra il primo e il secondo caffè della giornata: «Traditore è chiunque cambi, agli occhi di chi non cambia mai, di chi non è capace di cambiare. Sì, sono stato definito così molte volte nella vita, e continuo ad esserlo, perché ho scoperto che mi è impossibile essere fedele ad una sola ideologia, completamente fedele. Per curiosità, credo, spesso esco dal mio angolo per capire com’è la nostra frazione di mondo vista dall’altra parte, e vista attraverso gli occhi di chi abbiamo di fronte …». Tutto questo, senza divenire eccessivamente sentimentale; ironico, talvolta caustico, ma con leggerezza: l’ombra di Oz attraversa la vita, richiama alla coerenza. Te la trovi incollata addosso come una maglietta, come un profumo. È un modo personale, sempre, di esserci, di mettere le cose (e soprattutto le parole) al loro posto. Lui diceva che era come costruire tutta la catena delle Alpi con i cubetti del Lego.

Tornano le domande, a cavallo degli anni. Lui, ebreo senza dogmi, un’identità legata alla parola, un sogno di appartenenza globale. Lui, il maestro, l’umorista, il politico. Lui piccolo o adulto; anziano, mai: appena qualche ruga in più sulla fronte, quando alzava la voce sostenendo che era Gaza, e non la sovranità su Gerusalemme, il grande problema irrisolto di Israele. Difficile, adesso che non c’è più, definirlo un ricordo; la nostalgia è più fisica. Per le interviste, purtroppo, non c’è rimasto tempo.