CRITICA LIBRI

E se invece a piazzale Loreto…

NICOLA FANO

Quando sta per morire davvero, Mussolini (o il suo sosia?) capisce finalmente di essere triste, solitario y final (come avrebbe detto Osvaldo Soriano), ma gli sfugge l’inutilità dannosa della sua avventura umana e sociale; gli sfugge vastità del ridicolo cui egli ha esposto il suo popolo e la sua storia. Questo è l’apologo del nuovo romanzo del nostro Marco Ferrari, Un tango per il duce(Voland, 290 pagine, 16 euro). Vi si immagina che a Dongo non sia stato davvero preso Mussolini accanto alla disgraziata Claretta Petacci, ma che a pagare per un ventennio di tragiche follie sia stato uno dei sosia del duce. E che Mussolini sia scappato in Argentina, come tanti altri gerarchi o ufficiali nazisti. Forse come pure Hitler e Eva Braun.

E così Marco Ferrari ce lo racconta in un paesino remoto sopra alla Patagonia, Romagna Argentina, tutto preso a ordire ridicole rivincite per rimettere in sesto il sole del fascismo sui colli di Roma. Ma la sua avventura – tipicamente fascista anche qui in Argentina – è grottesca, ridicola: l’accolita di emigranti italiani che lo attornia è una caricatura dell’italica gente del Ventennio. E non da meno sono gli agenti segreti argentini o l’apparato nazista che attornia Eva Braun a Buenos Aires dove il duce redivivo, più penoso che mai, cerca l’appoggio del vecchio Peron per innescare una rivoluzione planetaria che lo riporti in Italia. Le rutilanti storie, fatti di scazzottate, equivoci e altre miserie umane e sociali, portano quel che resta del duce a essere salvato da una bizzarra comunità di ebrei di Buenos Aires i quali si permettono il lusso di fargli pure una lezione morale, fingendo di non riconoscere né il capo del fascismo né l’autore delle celebri leggi razziste del 1938; ma aiutandolo, appunto: perché la solidarietà è un bene superiore. Che Mussolini non ha mai conosciuto né praticato.

Ecco, al netto della mirabile cialtroneria delle pretese e delle contese di questo ducetto e dei suoi accoliti (l’ultima sua donna, ovviamente, è un’ebrea argentina), al fondo delle pagine di questo romanzo c’è anche l’Italia d’oggi, la miseria umana e morale di queste macchiette di governanti che ci sono toccati e che minacciano istituzioni e cose più grandi di loro agitando il dito davanti al naso senza neanche sapere di che cosa stanno parlando. Proprio come questa parodia di tiranno che, dal fondo del mondo, minaccia i grandi della terra di rovesciare tutto e poi si strappa i pantaloni quando cerca di scappare come in una comica di Stanlio e Ollio.

Perché, in realtà, Un tango per il duce è un romanzo amaro; comico ma amaro. Triste quasi: all’inizio ho citato Triste, solitario y final, il capolavoro di Osvaldo Soriano al quale, con ogni probabilità, Marco Ferrari si è ispirato. Se qualcuno ricorda La resa del leone o Mai più pene né oblio del romanziere argentino ne troverà eco qui. Come Soriano descriveva mondi piccoli che non sapevano mettere in ordine gli effetti della loro miseria, così qui la macchietta del Mussolini sopravvissuto e del suo “popolo” fuori dalla realtà sembrano solo ingranaggi impazziti nel motore della storia. In un certo senso, raccontandolo a posteriori, Marco Ferrari condanna Mussolini alla sua ridicola inadeguatezza rispetto alla complessità della storia: una ridicolaggine, tuttavia, che è costata vita e sogni e diritti a milioni e milioni di italiani. Per questo si ride amaro nel precipizio di accidenti che capitano a quest’ombra: ogni volta par di vedere dietro alle sue disavventure i velluti di Palazzo Venezia e il legno dei manganelli insieme. Una farsa tragica, insomma, come la storia che i nostri padri hanno vissuto e i che i loro nipoti, oggi, fanno finta di aver dimenticato.

E dunque, sì, anche un romanzo del genere, che scherza con i santi, è utile oggi come oggi. A sottolineare come abbiamo fatto ridere la storia: e come la stiamo facendo ridere di nuovo, ora.

Tags