ZIBALDONE

Viaggio nel secolo dei media

Enrico Menduni, autore di uno degli scritti che accompagnano la pubblicazione del romanzo di Herbert George Wells "La Guerra dei Mondi" e della traduzione della trasmissione di Orson Welles da esso tratta nel volume "W W W W Wars of Worlds of Wells and Welles", ci ha gentilmente concesso il testo della Lectio magistralis tenuta il 13 novembre scorso a conclusione della propria carriera universitaria all’Università di Roma Tre, dal titolo "Televisione del XXI secolo. Continuità e fratture in una nuova – e digitale – cultura visuale".

Enrico Menduni, autore di uno degli scritti che accompagnano la pubblicazione del romanzo di Herbert George Wells La Guerra dei Mondi e della traduzione della trasmissione di Orson Welles da esso tratta nel volume W W W W Wars of Worlds of Wells and Welles, ci ha gentilmente concesso il testo della Lectio magistralis tenuta il 13 novembre scorso a conclusione della propria carriera universitaria all’Università di Roma Tre, dal titolo Televisione del XXI secolo. Continuità e fratture in una nuova – e digitale – cultura visuale. Anche di questo gli siamo grati.


1. Il secolo dei media

Il Novecento è stato indubbiamente il secolo dei media. Fino a non molto tempo fa il termine si usava accanto a “massa”: media di massa, come i partiti di massa, come la produzione industriale di massa, come la democrazia di massa. Difficile non cogliere il nesso tra questi diversi elementi con i media in una posizione di intermediazione, di interfaccia. Il titolo del romanzo breve di Leonardo Sciascia A ciascuno il suo(1966) cita “Unicuique suum”, motto dell’”Osservatore romano”. È sul retro di uno dei ritagli di stampa usati per comporre un’anonima lettera minatoria, e questo permette al prof. Laurana di risalire ai due preti del paese, gli unici lettori del giornale vaticano. A noi naturalmente viene in mente Gian Maria Volontè che per la prima volta lavora con Elio Petri nel film tratto dal libro (1967), accanto a una splendida Irene Papas. Ma che facevano i due preti con l’”Osservatore romano”? Si approvvigionavano di notizie e di concetti con cui poi svolgevano il loro ruolo di intermediazione presso i contadini siciliani.

La stampa (e più in generale il sistema dei media) diventa così un “quarto potere” accanto alle tre funzioni fondamentali dello Stato (legislativa, esecutiva, giudiziaria). Come è noto, ad Aristotele è seguito Montesquieu, al quale è seguito Matteo Salvini con una particolare interpretazione dell’eleggibilità delle varie funzioni pubbliche. Il “quarto potere” tuttavia ha un territorio vario, tra creatività, industria, commercio, libertà di espressione Confina con la politica da un lato, con lo spettacolo dall’altro. Tra informazione e intrattenimento non c’è un confine certo, e comunque molto permeabile. Molto prima di Berlusconi, ce l’ha insegnato Citizen Kane (minuto 34).

Sia i media di finzione, come il cinema, sia quelli che si ritengono informativi sono in realtà aspetti complementari di una narratività sociale che avvolge i fatti veri come quelli finzionali, che determina o suggerisce consapevolezza, senso della vita, scelte dei singoli e di grandi maggioranze di persone.  Per funzionare questa narratività sociale deve avere una espressa componente patemica. Deve emozionare, far vibrare le corde dell’animo, permettere alle persone di creare i propri sogni, o i sogni che credono propri. Da questo punto di vista la radio e la televisione hanno introdotto nel mix dei media novità irrinunciabili: intanto permettono di trasmettere a distanza, senza una compresenza fisica, e in diretta.  Con una vibrazione speciale che è diversa dal “senno del poi” dell’articolo di giornale e dalla laboriosa costruzione del racconto cinematografico. E che permettono un’interazione tra il medium e gli spettatori, e degli spettatori fra loro, mai vista prima, in tempo reale, dalle dediche radiofonico al televoto, al «sono incazzato nero» (Sidney Lumet, Network, 1976). Una interazione che può diventare consumo, comportamento, tendenza, azione dimostrativa, agire politico. Chiamalo, se vuoi, populismo.

2. Dal testo scritto all’audiovisivo

Tutto questo non sarebbe potuto accadere senza un passaggio, che dura l’intero secolo, dai media scritti a quelli audiovisivi. Una “sfera pubblica” habermasiana diventa sempre più mediale e successivamente sempre più visiva.

La fotografia ha un’elevata riproducibilità tecnica e un potere testimoniale che non ha né il racconto scritto, né il disegno o la pittura. Se la foto è stata scattata è certa (relativamente certa, dovremmo dire, e limitatamente al periodo analogico) una congiunzione spazio-temporale tra il fotografo e il suo soggetto. C’è stato almeno un istante in cui l’uomo con la fotocamera e la persona fotografata sono stati contigui, vicini. Il fotografo è un testimone, un testimone privilegiato perché ha la possibilità di diffondere in forme evidenti e credibili, attraverso i suoi scatti, la sua testimonianza oculare. Questo fatto conferisce alla fotografia quella speciale vibrazione che sarà poi propria della diretta radiofonica e televisiva. La stampa, incorporando la fotografia nella sua narrazione, moltiplica la sua riproduzione e, contemporaneamente, rende più efficaci le proprie narrazioni. Un matrimonio di interesse: la fotografia era l’unico medium che non disponesse di un proprio apparato di mostrazione pubblica (come la sala cinematografica, come l’edicola che ti vende il quotidiano, come il salotto in cui troneggia il televisore), e adesso lo conquista.

Per tutti questi motivi la fotografia ha un ruolo centrale nel lento scivolamento, che ha occupato l’intero secolo, dal testo all’audiovisivo, determinando un nuovo sistema di fruizione, un nuovo “regime scopico”. Il suo ruolo è determinante per accentuare quella dimensione patemica di cui abbiamo parlato e che diventa sempre più un ingrediente necessario alla narratività sociale, alla credibilità delle narrazioni, all’adesione popolare ad esse. All’inizio del secolo XX il testo scritto è ancora l’unico linguaggio universale, l’unica possibilità di descrivere qualunque concetto (in particolare quelli astratti) attraverso la parola parlata o riprodotta nella scrittura e nella stampa gutemberghiana; l’immagine è un eventuale paratesto, un contorno, talvolta un ornamento. Gradualmente l’immagine diventa la principale forma di comunicazione: immagine fissa e immagine in movimento, in b/n e poi a colori, silenziosa e poi sonora. Lo scritto diventa a sua volta un paratesto: la fotonotizia, i sottotitoli, un sottopancia televisivo.

I concetti astratti diventano immagini; con buona pace di Platone il mondo delle idee non si distingue più, ma si confonde, con il mondo delle cose. Sarebbe contento Antistene che al posto della “cavallinità” (il concetto di cavallo) vedeva solo un cavallo concreto; almeno stando al blog di Diogene Laerzio.  Come si rappresenta per immagini la democrazia? Con un totale dell’emiciclo di Montecitorio? Con una mano che infila una scheda nell’urna? Con il video di un corteo? Dobbiamo scegliere una sola immagine, perché bisogna essere brevi, e dunque la rappresentazione prende una sola di queste icone (ciascuna esprime un diverso concetto di democrazia) e fatalmente riduce l’ampiezza, la portata del concetto. La teoria critica (Adorno) ha posto l’accento sull’aspetto persuasivo di tale operazione (si tratti della persuasione totalitaria o di quella pubblicitaria); io mi permetto di sottolineare che questa confusione tra cose e idee ha, abbastanza ironicamente, effetti diversi a seconda del medium in cui si determina. Nello spettacolo di finzione, e soprattutto nel cinema, questa confusione ha un carattere immaginifico, quasi onirico, ed è estremamente produttiva per l’immaginazione, le emozioni, il pensiero dello spettatore. Distribuisce al pubblico frammenti ipotetici di una realtà attentamente ricostruita, il cui valore metaforico dipende dalle percezioni dello spettatore, dal modo in cui ciascuno le combina con il proprio vissuto. Così come, leggendo un romanzo o sentendo la radio, il lettore/ascoltatore trasforma i concetti, le sensazioni, i fatti di cui legge o ascolta lo svolgimento, in un vissuto personale.

Al contrario, nelle descrizioni del reale questa confusione tra mondo delle idee e mondo delle cose potrebbe produrre un impoverimento della realtà. A morire non sarebbe solo il congiuntivo, ma il ragionare per astrazioni. Il problema, come dicevo più sopra, è che il confine tra reale e finzionale non è così ben definito e già in ambito novecentesco è percorso nei due sensi da tutti i media. Il realismo non è la realtà, ma una sua rappresentazione fra le infinite possibili. Insomma di qua e di là dal confine vi è un’ampia terra di mezzo, o di nessuno, che potremmo definire l’area del verosimile.

Avrete già capito che una parte di queste descrizioni saranno enfatizzate dal secolo che stiamo vivendo, e che non si preannunzia affatto breve, ma lunghissimo. Ci tengo ad affermare che questi fenomeni erano già visibili nel Novecento ad occhi particolarmente attenti, in specie a quelli dei poeti, ma erano tenuti a bada dal carattere professionale degli apparati dei media. Ciascuno di questi media aveva un proprio modello di business, una propria tecnologia, un dispositivo di consegna dei contenuti ai propri pubblici, ed era agito da professionisti con propri statuti corporativi e loro deontologie. Un dilettante poteva scattare foto, girare piccoli film e persino montarli, ma a meno di circostanze eccezionali gli era precluso l’accesso ai grandi media che avevano una propria delivery, propri sistemi dedicati di mostrazione. Gli sarebbe stato fatalmente risposto che il suo filmato “non aveva qualità broadcast” ed era pertanto impossibile da trasmettersi in tv o proiettare nei cinema; perfino la dimensione della testimonianza oculare era limitata agli episodi più eclatanti e, caso mai accadessero, era un professionista (un giornalista, un programmista, un montatore) a prendere in consegna il materiale del dilettante e a formattarlo adeguatamente. Oppure l’FBI, come capitò ad Abraham Zapruder, il sarto di Dallas che colse, con la sua cinepresa 8 mm., l’assassinio di J.F. Kennedy (22 novembre 1963). Tutto è ben ricostruito in un piccolo film del 2013, Parkland, di Peter Landesmann.

Verso la fine del secolo le cose cominciano a cambiare. Il 3 marzo 1991 un tassista nero di Los Angeles, catturato dalla polizia dopo un lungo inseguimento, fu brutalmente percosso in strada da tre poliziotti. Un cineamatore che abitava lì vicino (George Holliday) filmò tutto dalla finestra con il videotape, il video fu trasmesso dalle tv, Spike Lee opportunamente lo montò all’inizio del suo Malcom X del 1992. Intanto il tribunale aveva mandato assolti gli agenti, e quello fu l’inizio della grande rivolta nera di Los Angeles (29 aprile-4 maggio 1992).

3. Fine di un secolo

L’11 settembre 2001 può considerarsi l’ultimo evento del Novecento, l’ultimo rappresentato prevalentemente da dispositivi analogici e da operatori professionali; la rappresentazione dei drammatici attentati risulta, ai nostri occhi contemporanei abituati a mille scatti e mille video, straordinariamente scarna.  La mostra Here is New York. A Democracy of Photographs, giunta in Europa con i Rencontres d’Arlesdel 2002, che aveva chiamato a raccolta tutte le immagini (professionali e amatoriali) dell’evento, ne raccolse solo2.744, di cui 1.500 furono esposte. I telefoni cellulari erano ancora privi di tele-fotocamera, i primi dovevano essere lanciati per i regali di Natale di quell’anno. Oggi qualunque sagra rionale di un paese sperduto avrebbe una rappresentazione più consistente.

Tre anni dopo, al mattino dell’11 marzo 2004, una catena di attentati sconvolse la stazione ferroviaria di Atocha nel centro di Madrid e varie altre. La Spagna e il mondo furono sommersi da migliaia di foto scattate dai telefoni cellulari dei passeggeri.  A tre giorni dalle elezioni politiche, quelle immagini e quei telefoni cellulari furono usati per il passaparola che convocò una grande manifestazione di piazza contro il governo Aznar – grande favorito nelle elezioni – che aveva incolpato degli attentati i baschi dell’ETA, piuttosto che i terroristi di Al Qaida. Aznar perse le elezioni.

Non c’erano ancora i social; Myspace, l’antenato di Facebook, era stato inventato l’anno prima e fuori dagli Stati Uniti nessuno lo conosceva. FB era nato da venti giorni e Twitter non esisteva. Eppure in quel breve periodo di tre anni, 2001-2004, non soltanto si era enormemente ampliata la possibilità per le persone comuni di catturare immagini con uno strumento portatile di uso quotidiano, ma c’era anche la possibilità di una delivery, ossia di spedire quelle foto a possibili destinatari, anche multipli, e di usarle insieme ai messaggi di testo per convocare in 48 ore un imponente corteo a Madrid e capovolgere l’esito delle elezioni. Internet infatti stava ormai raggiungendo una dimensione ubiqua e mobile. I social networks non esistevano, ma questo è forse il primo evento social che appartiene al nostro ventunesimo secolo.

Cosa era successo? Negli ultimi due decenni del Novecento tutti i media si erano avvicinati alla digitalizzazione, che permetteva di realizzare significativi risparmi nella lavorazione e migliori risultati. Il cinema aveva adottato tecnologie digitali soprattutto nella post-produzione. La saga di Star Wars inizia nel 1977. Gradatamente il digitale invaderà la produzione, e infine la distribuzione. Anche la tv segue la strada del cinema, a rispettosa distanza: prima la postproduzione, poi la produzione, infine la distribuzione, che è sempre l’ultima perché quasi sempre richiede allo spettatore-fruitore-cliente di dotarsi di nuovi apparecchi e nuove abilità, e dunque va amministrata con tatto e gradualità. La fotografia digitale comincia negli anni Ottanta, ben prima di sbarcare sui cellulari presto diventati smartphone. La musica digitalizza la discografia e la sua distribuzione. Giornali e libri adottano tecnologie digitali “a freddo” per la stampa, che si svolge ormai anche in stabilimenti molto lontani dalla redazione grazie alla teletrasmissione.

Naturalmente in ciascuno di questi ambiti il passaggio al digitale è stato accompagnato da furiose discussioni, tra nostalgici dell’antica qualità e fautori dell’innovazione, anche a costo di tagliare i posti di lavoro e intere professioni. Qui però interessa notare piuttosto che la digitalizzazione aveva una conseguenza imprevista: nel Novecento ciascun medium aveva una propria tecnologia, accessibile solo agli addetti ai lavori del suo settore (tipografi, operatori cinematografici, fotografi professionali, produttori, programmisti, a seconda dei casi), e i transiti dall’uno all’altro medium erano complessi sia dal punto di vista espressivo-artistico che tecnico, e dunque attentamente sorvegliati. Adesso invece tutti i testi (il film, il giornale, il programma televisivo, il brano musicale etc.) sono fatti della stessa materia immateriale, sono tutti fatti di bit, e saltano con grande facilità da un medium all’altro, con continue modifiche, aggiornamenti, versioni. Qualunque computer – una macchina universale – può leggerli o, come si dice, “eseguirli”.

Contemporaneamente si sviluppa Internet nella sua versione civile. Ricordo bene una lezione nell’aula Della Porta di Madonna dei Monti, con quelle belle tele dipinte sul soffitto adesso finite chissà dove, nella quale – docente a contratto in appoggio al caro Ivano Cipriani – tenni la prima lezione su Internet. Era il 1995. Non sentendomi sicuro dell’argomento avevo chiesto di intervenire ad un ricercatore di matematica della Sapienza mio amico, Marco Isopi. Purtroppo nel tragitto verso l’università la sua vecchia Skoda si incendiò sulla Tangenziale e il soccorso matematico non arrivò mai: dovetti arrangiarmi da solo, non so con quanta efficacia.

Internet trasformava il computer nel terminale di una rete diffusa in tutto il mondo. Una rete velocissima, in tempo quasi reale, con un software gratuito. Tim Barners Lee, l’inventore del dabliu-dabliu-dabliu, lavorava al CERN di Ginevra, proprio accanto al tunnel dei neutrini (Maria Stella Gelmini, settembre 2011) e i risultati della sua ricerca sono stati aperti a tutta la comunità scientifica, come è proprio di una istituzione pubblica europea. Bill Gates, ma probabilmente anche Steve Jobs o Jeff Bezos, non ci avrebbero trattato così bene.

Sulla rete Internet tutti i contenuti dei media circolano senza sosta; ma accanto ad essi viaggiano quelli che sono prodotti facilmente non più soltanto dai professionisti dei media, ma da chiunque. “Produrre” qui significa sempre più “copiare con modifiche” o anche senza modifiche, magari. I social organizzano lo scambio e la visibilità di questi contenuti e dei soggetti che li “postano”, rendendoli pubblici e universalmente accessibili.

La sfera pubblica habermasiana si duplica: c’è una sfera mediale e una social, che si intersecano e si sovrappongono. Una persona qualunque crea e posta sui social un video. Se incontra il favore dei suoi vari follower, e diventa “virale”, i media lo riprendono, e dai media qualcuno lo riposta, magari con modifiche e commenti, sulla sua pagina di un social.  Un continuo rimbalzo e rimpallo. Le possibilità di espressione e di comunicazione delle persone qualunque crescono in modo esponenziale. Accanto ai media presidiati dai professionisti, i social sono animati da persone che possono non avere una etica e una responsabilità adeguata, ma la diffusione planetaria e la numerosità dei protagonisti rendono assai difficile una disciplina, che non sia la censura propria dei regimi totalitari. In questa “terra di mezzo” si generano anche forme di intolleranza, replicazioni abusive, fake news, turbative a mezzo trolls (soggetti robottizzati).

4. Una grande discontinuità

Siamo partiti con un Novecento dei media di massa, che svolgevano una funzione di intermediazione tra le élites e le masse, come “L’Osservatore romano” nella Sicilia di Sciascia. Oggi dall’intermediazione dei media (che dalle masse si è concentrata sulle “nicchie”) si passa alla disintermediazione fondata sui social e su un bricolage interpretativo condotto quasi interamente su Internet. I potenti della terra, invece di farsi mediare da un giornalista o da un intervistatore, twittano senza posa le loro cangianti opinioni e raccontano le proprie eroiche gesta.

I media, si può dire, non sono più quelli di una volta. È avvenuto in questo nostro XXI secolo un grande salto nella produzione, diffusione, gestione della musica e degli audiovisivi che, ormai dematerializzati, viaggiano via etere, via satellite e via Internet per raggiungere una pluralità di dispositivi fissi e mobili (smart tv, computer e tablet, smartphone, ma anche outdoor e urban screen), intrattenendo con pubblici molteplici un ventaglio di rapporti, segnati da varie modalità di fruizione, da diversi gradi di attenzione e partecipazione, dalla ricerca di nuove forme di remunerazione.

Dematerializzazione vuol dire scomparsa dei magazzini fisici e dei sistemi di trasporto materiale: nessun topo rosicchia più gli scatoloni in magazzino, nessuna umidità rovina gli oggetti pronti per la vendita, non c’è più il costo del trasporto, dello stoccaggio dei materiali e l’umiliante resa delle copie invendute, che hanno resistito poco più di una settimana sugli scaffali prima di essere sostituite da altri contenuti più prestazionali. Non si rubano (quasi) più le copie materiali, ma si replicano abusivamente i file, mentre i topi virtuali non sono stati ancora inventati. I contenuti possono essere proposti alla fruizione per un tempo teoricamente illimitato, diminuendo la censura del mercato e ampliando la diversità culturale, con un effetto di “coda lunga”[1].

Tuttavia non ci sono più filiali italiane, con decine di dipendenti, bensì società meta-nazionali che stabiliscono la sede legale in Lussemburgo e i magazzini in Irlanda, sfruttando le legislazioni locali in Europa (veramente a macchia di leopardo, ma avrei voglia di citare animali meno nobili), nidificando in quelle più favorevoli. Società “over the top” che volano sui confini, grazie a reti di telecomunicazione che non hanno minimamente contribuito a creare, senza investimenti, senza costi di manutenzione, senza problemi fisici di cavi da posare o allacciamenti da mettere in opera, e che pure sono essenziali per la loro attività, con tassi di crescita a due cifre.

Le conseguenze di queste novità sui contenuti sono assai rilevanti: non cambia solo la delivery, cambia la costruzione del prodotto e il modo di consumarlo. La fruizione lineare di un’opera audiovisiva è ormai soltanto uno dei modi possibili. Il ruolo propositivo dei broadcaster (tradizionali aggregatori di contenuti propri e altrui) è rimesso in gioco da utenti, che sempre più compongono palinsesti propri, ma anche da altri gatekeeper(i detentori delle piattaforme) che propongono scelte diverse. Quello che fu la somma di due sistemi tradizionali, quello televisivo e quello cinematografico (con le loro gelosie, i corporativismi, i rapporti di cooperazione/competizione) è ormai una piramide a gradoni: la parte bassa e matura è costituita dalla Tv generalista in chiaro ormai digitalizzata (in Italia, il digitale terrestre), quella intermedia da forme di pay per view (via satellite o digitale terrestre), quella al top, ed emergente, dai servizi video on demand che si servono della banda larga e viaggiano in Internet.

Ovviamente ciò che viaggia su Internet ne segue le convenzioni e le culture. Il festival di Cannes dell’anno scorso ha annunciato il rifiuto di considerare in concorso le opere che non hanno avuto una circolazione ancorché ristretta nelle sale cinematografiche francesi. Intanto però la forma cinematografica è sotto pressione per l’irrompere della serialità, per la crescente visione non lineare e il moltiplicarsi delle forme di fruizione, fuori dalla sala cinematografica e anche dal divano del salotto televisivo. Docufiction, lifestyle, makeover, talent tendono a far parte di un unico brodo di cultura in cui i confini tra cinema, televisione e video si riconfigurano continuamente.

I formati, l’offerta e la promozione dei contenuti trasformano continuamente le forme della loro presenza, cooptando spettatori fidelizzati, nicchie di pubblico, fandom. Inoltre si fa un uso crescente di tag e di algoritmi, rivolgendosi direttamente al potenziale spettatore/cliente. Ogni comportamento degli utenti – potenziali clienti – sulla rete è tracciato, utilizzato per formare “cluster” che consentano poi di fornire proposte, raccomandazioni e pubblicità mirata. I dati di ogni singolo consumatore sono preziosi, anche quando non si sono concretati in atti d’acquisto, perché mettono a disposizione di chi li ha raccolti e archiviati informazioni che nessuna ricerca di mercato potrà fornire con la stessa accuratezza e quantità. Google e Amazon sono probabilmente gli Over-The-Top che meglio hanno amministrato e valorizzato questo capitale, considerando l’acquisizione dei dati la loro missione prevalente e il loro principale profitto, giungendo a veri e propri paradossi. Alla società che produce un oggetto o un contenuto che è venduto, o circola gratuitamente, su queste piattaforme, vengono fornite informazioni sugli utenti/clienti assai più sommarie e rozze rispetto a quelle che possono essere distillate dai loro comportamenti e che restano gelosa proprietà degli Over-The-Top.

5. Una sfida rivolta ai media del Novecento

I contenuti di nuova generazione sono concepiti all’origine come prodotti multipiattaforma; le imponenti library del Novecento (cinema, TV, documentari, video, musica) trovano nuove opportunità di diffusione e valorizzazione, purché siano adeguatamente formattate, sempre all’insegna della “coda lunga” che contraddistingue la distribuzione digitale e della segmentazione sempre più marcata di quello che fu il pubblico generalista.

Questo grande salto, non soltanto tecnologico ma sociale, sfida i media del Novecento e li costringe a rinnovarsi in un ambiente nuovo, di cui essi sono soltanto una parte. La televisione – nel senso tradizionale e convenzionale del termine – non è più lo strumento principale di informazione, intrattenimento, apprendimento, socializzazione. È così soltanto per la parte più anziana (e meno colta) della popolazione. Ne abbiamo una riprova nelle tipologie della pubblicità sulla tv generalista: medicinali per i più diversi acciacchi, adesivi per dentiere, apparecchi montascale. E anche nelle figure di molti personaggi televisivi: età avanzata, capelli tinti e volti innaturalmente distesi, uno strano amalgama di padronanza del mezzo, che sconfina nell’arroganza, e di consapevolezza del declino, che si manifesta persino in forme di saggezza. Si chiama ancora “neotelevisione” (il termine lo coniò proprio Umberto Eco, nel lontano 1983[2]), ma più di trent’anni dopo è una paleo-tv in piena regola.

I giovani, i ricchi, i colti, si approvvigionano altrove con diverse forme di consumo da schermo che prelevano da un’offerta quanto mai abbondante, selettiva e segmentata, pagando se necessario per vedere ciò che li interessa e li appassiona. Hanno un’attività mediale sempre più attiva, relazionale e protagonistica, che si applica non solo alla scelta di una visione rispetto a molte altre, ma si sostanzia di un vero bricolage operativo, un fai-da-te post-mediale in cui si salta da un medium all’altro e da un dispositivo all’altro, commentando i contenuti e condividendoli con i propri amici, copiandoli, modificandoli, diffondendoli insieme alle foto che si scattano e ai video che si girano. E quando ricorrono alle forme più convenzionali di televisione possono farlo volentieri, e anche a lungo, ma non le attribuiscono più quella funzione centrale nella formazione delle opinioni, degli atteggiamenti e dei comportamenti, che le hanno invece riconosciuto le generazioni precedenti. Sono cresciuti con i videogiochi, i telefonini regalati dai genitori, il computer; non con Heidi, i Puffi e gli altri cartoni della TV commerciale.

Questo non significa che la TV è morta, come qualcuno sbrigativamente comincia a dire. I media difficilmente muoiono, più spesso vengono “spostati” dall’arrivo di altri media e altre pratiche sociali, che li costringono a cercarsi nuove funzioni e pubblici. La televisione ha spostato il cinema, il teatro, la radio, i giornali: ora è lei che deve spostarsi, e lo sta facendo in grande stile. Anche la radio è in piena ridefinizione dei ruoli, l’ha già fatto varie volte ai tempi del transistor e poi con le radio libere, è un suo ruolo ricorrente.

Difficile non collocare questi processi – almeno nei paesi occidentali – all’interno di un complessivo superamento della società di massa contraddistinta da specifiche istituzioni politiche, forme di produzione e di consumo: una società in cui la televisione aveva svolto rilevanti funzioni sociali diffondendo modelli di comportamento e di partecipazione.

C’è stato un lungo periodo, in Italia, in cui la radio e la televisione erano considerate una forma di sottocultura, o addirittura di persuasione occulta. Il fondamentale testo di Marshall McLuhan, Understanding Media(1964), fu tradotto in Italia come Gli strumenti del comunicare (1967) perché il pubblico non avrebbe ben capito che cosa erano questi media.

Poi anche in Italia, finalmente, si sono sviluppati gli studi sulla televisione e, in misura minore, sulla radio; negli anni Ottanta e Novanta, in significativa coincidenza con l’espansione delle radio libere e delle televisioni commerciali, l’avvento dei corsi universitari Damse in Scienze della comunicazione ha portato i media audiovisivi nelle aule delle università, purtroppo senza un efficace raccordo con gli studi di economia. Adesso il pericolo non è più quello di ignorare i media, ma non considerarli nel loro significato e ruolo attuale, facendo prevalere un pur dignitoso disegno storico in cui, come in tutte le storie insegnate a scuola, la parte più recente si traccia rapidamente, e non solo perché siamo in ritardo sul programma ma perché il rapporto con la contemporaneità è più difficile: Platone o Leonardo da Vinci non ti querelano e non ti mettono in qualche black list.

Studiare quanto sta accadendo è avvincente ed è un lavoro socialmente utile. Le nuove generazioni degli studiosi sono chiamate a farlo e già lo stanno facendo: l’analisi delle forme espressive, dei modi di produzione e di fruizione, l’internalizzazione degli studi sono molto più avanti di appena dieci anni fa. Devono proseguire. Le difficoltà e le aporie dell’attuale situazione italiana lo richiedono, perché nulla è ormai come prima. Chi vi parla, come altri colleghi anziani, continuerà a studiare e a scrivere, ma il domani è vostro, prendetelo nelle vostre mani. È questo l’augurio che vi faccio salutandovi e abbracciandovi tutti.

[1]Anderson, C. The Long Tail: Why The Future of Business Is Selling Less of More, Hyperion, 2004.

[2]Eco, U. “TV: la trasparenza perduta”, Sette anni di desiderio,Bompiani, 1983.

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