RACCONTI ZIBALDONE

L’uovo di cristallo di Herbert George Wells

L’uovo di cristallo è un racconto, apparso in Italia in raccolte come Avventure nello Spazio e nel Tempo, che Herbert George Wells scrisse nel 1897, più o meno mentre facevano capolino sul “Pearson Magazine” le prime puntate de La Guerra dei Mondi, il romanzo di cui TESSERE ha appena pubblicato una nuova traduzione, unitamente a quella dell’adattamento radiofonico che Orson Welles mandò in onda esattamente 80 anni fa, con testi di Marco Ciardi e Enrico Menduni.

Narra della scoperta da parte di un antiquario di un uovo di cristallo attraverso il quale è possibile osservare un mondo alieno e i suoi abitanti. Insieme a un amico l’antiquario esplora da più angolazioni quei paesaggi extraterrestri, scoprendo che il pianeta a cui appartengono è Marte, popolato di curiosi esseri volanti e sul quale sono presenti molte altre uova simili a quella in suo possesso issate su alti pilastri. È attraverso di esse che i marziani spiano il comportamento degli abitanti della Terra per comprenderne usi e abitudini, comprese le meschine dinamiche familiari e economiche che avvengono nello svolgimento del racconto.

Senza anticipare il finale della storia, risulta evidente come questo piccolo “gioiello” precorra ed ampli l’approccio ai misteriosi stranieri contenuto nel più celebre libro.

Questa nuova traduzione di Filippo Luti, che ha curato anche quella della Guerra dei Mondi, accompagnata dalle immagini di Erika Grace Strada è un invito ai lettori di TESSERE ad avvicinarsi al libro e ai temi in esso trattati, in particolare al tanto attuale rapporto con il diverso e con la paura.

H. G. WELLS

L’uovo di cristallo

Traduzione di

Illustrazioni di ERICA GRACE STRADA

Qualche anno fa, nella zona di Seven Dials, si trovava un pittoresco negozio di rarità e oggetti da collezione riconoscibile dall’insegna giallo limone su cui era impressa la scritta “C. Cave, naturalista e antiquario”. Una discreta sfilza di bizzarri oggetti appariva in vetrina. C’erano corni ricavati da zanne d’elefante, una scacchiera a cui mancavano alcuni pezzi, bigiotteria esotica, armi da parata, una scatola colma di occhi di vetro, due teschi di tigre ed uno umano, alcune scimmie impagliate che le tarme avevano divorato, una delle quali impiegata per reggere una lanterna, ed ancora un armadietto vetusto, un’orrenda zampaccia appartenuta forse ad un bieco struzzo, dell’attrezzatura da pesca di pessima qualità ed un acquario vuoto e straordinariamente sporco. Per un breve periodo, ci fu in esposizione anche una sorta di pietra ovale, scolpita nel cristallo e finemente cesellata. Fu proprio quella a catturare l’attenzione di due figuri impalati dinanzi alla vetrina: uno era un prete smilzo ed allampanato, l’altro un ragazzo dalla pelle scura con in viso una barba color della pece, vestito sobriamente ma senza pretese. Il ragazzo olivastro borbottava animatamente, desideroso di impossessarsi col compare di quella pietra.

Il signor Cave rientrò nella bottega, con la barbetta ancora sporca di pane e burro della merenda. Notò i due uomini intuendo subito cosa stessero tramando. Lanciò loro di sbieco un’occhiata inquieta, poi richiuse piano la porta dietro di sé. Era un vecchio ometto, pallido e con gli occhi acquosi; aveva capelli grigiastri e indossava una giacchetta blu sgualcita, un vecchio berretto di cotone, e ghette basse. Continuò a scrutare gli avventori mentre questi discutevano fra loro. Il prete frugò a fondo nella sua tasca, fece qualche calcolo e sorrise compiaciuto. I due entrarono nel negozio e il signor Cave si sentì un po’ mancare.

Il sacerdote, senza tante cerimonie, chiese il prezzo della gemma ovale. Il signor Cave con la coda dell’occhio gettò uno sguardo al retrobottega, e disse che il prezzo era di cinque sterline. Il prete si lamentò sia con il negoziante che con l’amico di quanto alto fosse il prezzo ed incominciò una contrattazione. Il signor Cave si spostò un poco verso la porta dietro di sé, guardingo.

– Cinque sterline. – disse, col tono di chi spera di mettere la parola fine a una discussione. Nel frattempo, un grugno femminile fece capolino dietro il piccolo vetro della porta sul retro. – Ribadisco, cinque sterline! – fece Cave con una nota stridula nella voce.

Il giovane bruno si era fino a quel punto limitato a scrutarlo in silenzio. Infine intervenne: – Via, cinque sterline vanno bene…

Il prete lo guardò, poi si volse di nuovo verso Cave, il quale era impallidito – Certo, è un bel po’… – mormorò tornando a rovistare in tasca con meno convinzione. Racimolò trenta scellini e si rivolse in cerca di sostegno al compagno. Il signor Cave tentò di recuperare un po’ di autocontrollo e cominciò a spiegare che quella pietra non era esattamente in vendita, ma solo in esposizione. I due sorpresi chiesero perché non li avesse avvertiti prima. Cave tentennò ma senza scostarsi da quanto aveva appena detto e ripeté che il cristallo in precedenza era già stato prenotato da un altro cliente. I due pensarono che si trattasse di una mossa per alzare il prezzo e fecero per andarsene. A quel punto la porta del retrobottega si spalancò.

Un donnone dall’aspetto rozzo e dalla corporatura imponente, corrucciata avanzò fiera nella stanza, sovrastando Cave: – Cinque sterline vanno più che bene e quel cristallo è in vendita. Cave, perché diamine stai rifiutando l’offerta di questi due signori?

Il negoziante, irritato, le lanciò un’occhiata acida da dietro le lenti e a denti stretti ribadì di essere lui il proprietario del negozio. Ma lei non volle sentire ragioni. I due visitatori assistettero al diverbio, sostenendo a turno le ragioni della signora. Cave cocciutamente continuò a ripetere che c’era già una prenotazione e, tremando agitato, rimase attaccato alla propria posizione. Il ragazzo scuro riuscì però a far breccia. Disse che forse era meglio attendere due giorni, per assicurarsi che l’altro cliente potesse avere modo di ritirare l’oggetto. – Nel caso non si presenti… – aggiunse il prete – rimarremo sulle cinque sterline? – La Signora cominciò a scusare il marito come si fa con un figliolo indisponente, affermando che alle volte il buonuomo si lasciava un po’ andare, e gli altri due uscirono poco dopo, lasciando i coniugi a litigare fra di loro.

La signora Cave fulminò con gli occhi il marito. Il poveretto continuò a balbettare che l’affare era ancora in sospeso, ripetendo che in realtà l’oggetto non valeva altro che dieci ghinee.

– E allora perché hai fatto quel prezzo? – brontolò lei.

– Dio Santo, sono io il proprietario del negozio! – strillò lui.

Quella sera, a cena, con i figliastri, un ragazzo e una ragazza, la questione venne riaperta. In famiglia non avevano una gran considerazione delle capacità imprenditoriali di Cave e quest’ultima decisione fu giudicata il culmine della follia.

– Io proprio non capisco… – mormorò il figliastro, un buzzurro di diciotto anni.

– Ma cinque sterline! – mugolò la ragazza, una ventiseienne molto decisa.

Cave rispose che erano dei miserabili e balbettando tentò di difendere la propria professionalità. Loro allora lo fecero alzare da tavola prima del previsto, e sull’orlo di una crisi di nervi andò per l’esasperazione a serrare il negozio per la notte. – Perché diavolo dovevo lasciarlo lì? Dannazione…! – Non sapeva come uscirne.

Dopo cena, i due figliastri se ne andarono e la matrona si ritirò nella sua stanza, con una bevanda calda al limone. Il capofamiglia andò a rintanarsi in bottega, adducendo a pretesto di dover preparare alcune decorazioni da acquario, ma in realtà per un altro motivo. Il giorno dopo la signora scoprì che la gemma era stata rimossa dalla vetrina e nascosta dietro alcuni libri di seconda mano su uno scaffale laterale. Lei la rimise in un angolo più esposto. Non voleva litigare, perché sentiva avvicinarsi un mal di testa formidabile. Il signor Cave non si dette per vinto. Trascorsero quel giorno in tensione tra loro. Il negoziante era più distratto e irritabile del solito. Nel pomeriggio, mentre la moglie faceva la pennichella, spostò nuovamente la gemma.

Il giorno dopo Cave doveva consegnare uno squalo a una scuola di medicina per una dissezione. La signora Cave tornò con la mente al cristallo, pensando anche a come spendere intelligentemente un guadagno di cinque sterline. Stava già pensando a un abito verde e a una gita a Richmond quando il campanello del portone del negozio la fece riemergere dalle sue elucubrazioni. Il cliente era un insegnante che voleva lamentarsi della mancata consegna di alcune rane chieste il giorno prima. La signora Cave non apprezzava che il marito trattasse quel genere di merce, e l’uomo, che si era presentato dapprima aggressivo, fece marcia indietro dopo un civile scambio di parole con la signora. L’attenzione della donna tornò alla vetrina e alle cinque sterline future. Purtroppo, la gemma era sparita dal suo posto.

Provò a cercarla nel punto in cui l’aveva spostata il marito il giorno prima, ma non c’era. Setacciò tutto il negozio.

Quando Cave tornò dalla consegna, a un quarto alle due del pomeriggio, trovò un po’ di scombussolamento nelle merci in bottega, e sua moglie che gattonava fra gli animali impagliati dietro il bancone. Al suono del campanello lei si alzò e lo aggredì, paonazza.

– Nascosto cosa? – balbettò lui.

– Il cristallo, imbecille!

Il Signor Cave controllò nella vetrina – Ma non era qui…? – mormorò – Oh cielo, ma dove è finito?

In quel momento, il figliastro rientrò nella bottega dalla porta interna, sfoderando una solida bestemmia. Era tornato dal lavoro di apprendista dal mobiliere in fondo alla strada, ed era alquanto contrariato per la mancanza di un pasto già in tavola.

Quando seppe della sparizione del cristallo ovale, la sua rabbia cambiò bersaglio dalla madre al patrigno.

Erano convinti che lui li stesse prendendo per i fondelli. Cave continuò a negare qualsiasi accusa, difendendosi con una scarica di confusi mugolii impauriti, e contrattaccò accusando consorte e figliastro di aver loro trafugato l’uovo per rivenderlo di contrabbando.

Nella bottega scoppiò una lunga nevrastenica e incontrollata discussione che ebbe come unico effetto quello di mandare la signora su tutte le furie e di far ritornare in ritardo il ragazzo al turno pomeridiano. Cave si rintanò nella bottega.

La sera la discussione fu riaperta dalla figliastra, con un approccio meno teatrale e più inquisitorio. La cena fu un angosciante processo culminato con Cave che scoppiò a berciare per poi andarsene via sbattendo la porta. La sua famiglia, parlando alle sue spalle, si mise ad ispezionare ogni angolino della casa, dal soffitto alla cantina, alla ricerca dell’oggetto.

Il giorno dopo i due clienti si ripresentarono. La signora li ricevette in lacrime. Di certo si capiva anche senza tanti dettagli quanto dovesse essere insopportabile per lei quel bruto di suo marito… ed intanto, sempre per colpa di quell’uomo inaffidabile, l’oggetto era svanito. Il prete e il ragazzo si scambiarono un ghigno. La signora gli descrisse appassionata tutte le vicissitudini della propria vita, fino a quando essi non decisero di andarsene. La signora chiese al prete l’indirizzo, nel caso potesse venir fuori qualche nuovo aggiornamento sull’affare. Ebbe prontamente quell’informazione, ma la signora ne perse rapidamente i dettagli fino a scordarsene del tutto.

Quella sera, sembrava che tutti i Cave fossero sfiniti dal nervosismo accumulato nei giorni precedenti e a cena Cave si celò dietro un muro di tetra apatia pur di difendersi da altre accuse. La tensione persistette, ma l’uovo non riapparve e gli acquirenti non si ripresentarono.

Adesso, per chiarire la faccenda, devo rivelare che Cave, nonostante l’incertezza, stava portando avanti una recita. Sapeva bene dove fosse il cristallo. Era nell’appartamento di Jacoby Wace, ricercatore e assistente lettore all’ospedale St. Catherine, a Westbourne street. Ora il cristallo si trovava nascosto sotto un panno di velluto nero, accanto ad un decantatore di whiskey americano. È stato proprio il signor Wace a rivelarmi i particolari nascosti della vicenda. Cave aveva nascosto l’uovo nel sacco dentro al quale aveva consegnato lo squalo, avendo la premura di avvertire il giovane ricercatore di recuperarlo. Wace all’inizio fu titubante. Il suo rapporto con Cave era particolare, si appassionava alle personalità peculiari o eccentriche; aveva invitato alcune volte il vecchio a fumare e bere a casa sua e si era reso confidente delle sue lamentele e dei suoi dubbi. Wace aveva incontrato anche la consorte, al negozio. Si era reso conto che il ruolo della donna in casa fosse simile a quello di un robusto aguzzino e aveva accettato di proteggere l’oggetto. Il signor Cave gli promise che avrebbe spiegato le ragioni di questa sua particolare attenzione per il cristallo subito dopo averlo recuperato, ma intanto disse anche di avervi visto dentro qualcosa. La stessa sera raggiunse Wace.

Raccontò una curiosa storia. Il cristallo era stato scovato nella svendita fallimentare di un altro robivecchi, il quale, non avendo dimestichezza coi preziosi, gli aveva attribuito il prezzo di dieci scellini. Cave l’aveva a lungo conservato, intenzionato ad attribuirgli lo stesso valore, fin quando fece una strana scoperta.

In quel periodo la sua salute era pessima e gli si era affacciato in testa attraverso quell’esperienza che le sue condizioni fisiche fossero in declino, ed era particolarmente provato a causa delle scarse attenzioni e dei maltrattamenti ricevuti dalla moglie e dai figliocci. Sua moglie era infatti una donna vanesia, volubile, egocentrica, troppo affezionata alla bottiglia; la figliastra era un ufficiale da campo; il figliastro non mancava mai di dimostrargli quanto lo disprezzasse.

Gli affari non andavano e Cave cominciava a dubitare della propria sicurezza economica per il futuro. Era nato in una famiglia benestante, aveva ricevuto un’educazione dignitosa, ma il disagio sociale e nervoso lo avevano perseguitato da sempre, castrando le sue ambizioni. Sapendo di non poter trovare un appiglio sicuro alle proprie angosce, alle volte si limitava a sfogarsi alzandosi la notte e vagando per la casa, tra sospiri e pensieri vagabondi. Una notte di agosto andò addirittura in bottega.

Il posto era scuro, tranne che per una luce imprevista. Camminando col cuore in gola, scoprì che la luminosità innaturale scaturiva dall’uovo di cristallo, appoggiato su un angolo del bancone. Un raggio flebile che traspariva dalle persiane cadeva sull’oggetto, attraversandolo e rischiarandolo.

Il signor Cave capì che si trovava di fronte ad un’inspiegabile aberrazione ottica, secondo le leggi scientifiche che aveva studiato in gioventù. Certamente un cristallo poteva concentrare e focalizzare una luce che lo trafiggesse, ma lo stava facendo in un modo anomalo, come un contenitore che si riempie più che come una pietra intagliata. Si avvicinò, scrutando l’uovo con occhi spalancati, la curiosità giovanile che rifioriva dentro di sé come edera da una crepa nel muro. Osservò che la luce all’interno non era intensa, ma sembrava come diluita in un gas riflettente. Girandoci attorno, si accorse di aver tagliato via il raggio luminoso, ma la luce permase all’interno dell’oggetto. Stupito, lo prese fra le mani con cura e lo portò in un angolo più buio del negozio. Conservò la luminosità per almeno cinque minuti prima di spegnersi. Riesposto ad un raggio di luce albeggiante si riaccese.

Wace credette almeno fino a questo punto al racconto di Cave. Aveva appurato che l’oggetto, persino immerso nel buio o coperto da un telo, se illuminato appena da un fioco fascio di luce, si accendeva come una lampada piena di un qualche gas nobile. Eppure, quella luminosità non sembrava percettibile nello stesso modo a tutti; il signor Harbinger, membro dell’istituto Pasteur, dichiarò di essere incapace di scorgere la luce del cristallo. Anche Wace sembrava non avvertire la stessa intensità luminosa raccontata da Cave, e quest’ultimo affermava che l’oggetto brillava di più se lui si sentiva particolarmente sconsolato.

Cave fu mesmerizzato da quel fenomeno ottico e non lo rivelò dapprima ad anima viva. Divenne una sorta di gioia segreta, una luce angelica che disperdeva un poco la foschia della sua vita deprimente. Il suo stato di tensione mentale era talmente tormentato dalla meschinità dei familiari che temeva di perdere il piacere che quel prodigioso oggetto gli procurava.

Appurò che a mano a mano che la luce ambientale diventava intensa, l’oggetto non poteva contrastarla con la propria. Poteva osservare la sua luce lattiginosa solo a notte fonda, da solo.

Con un vecchio panno di velluto per collezionisti di minerali, aveva preso a gustarsi anche nelle ore di sole giornaliero quell’esperienza mettendo il cristallo sopra al proprio capo come sotto a una cappa. Naturalmente continuò ad essere cauto, concedendosi visioni diurne solamente durante le dormitine pomeridiane della moglie, al sicuro nel suo negozietto sotto il bancone. Un giorno, rigirandoselo fra le mani, scorse come un’ombra al suo interno. Fu un’impressione subitanea, ma lui ebbe la sensazione decisa che in qualche modo, fra le nebbie luminose del cristallo, gli si fosse aperta per un attimo la visione di uno spazio aperto, di un paesaggio vero e proprio; girandolo di nuovo, e facendo sviare un attimo la luce, ritornò quella visione.

Sarebbe tedioso descrivere i movimenti precisi che Cave fece per scovare questa strana scoperta.

Per riassumere, Cave capì che osservando dentro il cristallo da un angolo di 137 gradi rispetto al punto d’ingresso della luce esterna, era possibile scorgere non semplice luce, ma un panorama. Non sembrava un sogno fumoso, ma una proiezione dettagliata e definita. Infatti, gli oggetti presenti in questa visione si muovevano, e le figure cambiavano a seconda anche della luminosità interagente con l’oggetto e del punto esatto di osservazione. Era come guardare dentro un caleidoscopio ovale, capace di trasmettere immagini diverse a seconda di dove si puntavano gli occhi.

Wace era convinto che i racconti di Cave fossero troppo dettagliati e precisi, oltre che fatti da una persona troppo seria, per essere allucinazioni o millanterie. Wace continuò a crederci anche quando si rivelò apparentemente incapace di scorgere la stessa visione. A quanto pare, Cave era davvero in qualche modo più in sintonia con l’oggetto rispetto a Wace, nonostante fossero entrambe persone di un certo acume.

Cave descrisse sempre di aver osservato una larga pianura, visualizzata come da un punto molto alto, forse in cima a un’altura, o magari a una costruzione. A occidente e oriente del paesaggio erano visibili delle cordigliere di colore rossastro, che Cave affermò aver avuto come l’impressione di aver già visto da qualche parte. Queste montagne si perdevano all’infinito verso l’orizzonte a nord e sud. Si rese conto che il suo “punto d’osservazione” doveva essere nella parte orientale di quella vallata, poiché il Sole sorgeva sempre “alle spalle” della sua inquadratura, e sollevandosi illuminava una profusione di forme scure svolazzanti che dapprima Cave ritenne uccelli. Poteva scorgere anche edifici, osservati sempre da un punto rialzato; lui continuava a vederli fino all’orizzonte come montagne. Vedeva anche degli alberi, dalle forme strane e dalle tonalità grigiastre e smeraldine, numerosi soprattutto attorno ad un canale. La prima osservazione del paesaggio fu piuttosto accidentale e confusionaria, e Cave, animato da una vorace curiosità, penò per riuscire a stabilire un corretto modo di visualizzarla.

Una settimana più tardi, dopo aver preso meglio il controllo dell’effetto ottico dell’oggetto comprendendone la funzione di “cannocchiale”, ebbe una visione più nitida che gli rivelò nuove cose. Si accorse di osservare il luogo da un’angolazione diversa, ma si trattava della stessa bizzarra località. Poteva scorgere la sagoma dell’edificio su cui si trovava il punto d’osservazione. Poteva vederne il tetto. Ed anche un terrazzamento vastissimo su cui spiccavano dei pali decorati con oggetti catarifrangenti. Cave non comprese il ruolo di quegli oggetti se non dopo. La terrazza sovrastava una sorta di fitto boschetto di vegetazione quasi edenica, oltre il quale c’era un’ampia radura in cui scorrazzavano dei grossi corpi che inizialmente gli ricordarono degli enormi scarabei. Oltre si alzava una enorme arcata di marmo roseo; oltre ancora, c’era un enorme bacino nella cui acqua limpida galleggiava uno strano rampicante rossastro. Il cielo era pieno di figure in movimento, impegnate in armoniose manovre; ancora più lontano, era visibile una sorta di meravigliosa città piena di decorazioni intarsiate e gemmate, con altri alberi simili a mangrovie. Improvvisamente, la visione fu interrotta quando qualcosa coprì completamente la vista di Cave: un paio di enormi e scuri occhioni che lo guardavano di rimando. Cave sobbalzò allontanando da sé l’uovo di cristallo. Quell’imprevisto spettrale lo aveva fatto rinsavire, facendolo precipitare di nuovo nella quotidianità polverosa ed ammuffita della sua bottega. Intanto la luce era svanita dal cristallo.

Questo era stato il resoconto di Cave. Un resoconto curiosamente lineare, coerente e dettagliato. La visione di tutti quegli straordinari oggetti e di quelle enigmatiche apparizioni lo aveva fatto possedere da un fervore di conoscenza quasi passionale. Non riusciva a concentrarsi sui suoi affari, pensando solo a quando si sarebbe potuto rimettere al buio, con gli occhi su quell’oggetto. Due settimane dopo quella visione, c’era stata l’episodio dei due clienti eccentrici e la “sparizione” del cristallo.

Finché Cave ne era rimasto in possesso, era stata la sua piccola meraviglia, il suo sogno personale da usare per lenire le ferite spirituali della vita quotidiana. Wace aveva un interesse più metodico e scientifico. Già interessato allo strano comportamento ottico dell’oggetto, divenne intenzionato a capire se il signor Cave si fosse fatto prendere troppo dall’immaginazione oppure no. Cave naturalmente non vedeva l’ora di poter godere di nuovo del suo oggetto in modo tranquillo, e fece frequenti visite tra le otto e le dieci, e alle volte anche durante il giorno, in assenza di Wace. Passava lì anche la domenica pomeriggio. Wace intanto prendeva appunti affidandosi alle descrizioni di Cave, riuscendo a rintracciare anche l’angolazione necessaria ad osservare dal cristallo quel panorama. Piazzando l’uovo all’interno di una camera scura con un piccolo foro per farci passare la luce e utilizzando un panno più sottile, riuscì a rendere la luminosità e le immagini più nitide; riuscirono a trasformare l’oggetto in un vero strumento d’osservazione.

Dopo queste spiegazioni, possiamo parlare di cosa davvero fu visto attraverso il cristallo. Le cose furono viste solo da Cave e annotate nella medesima tenebra dal solerte Wace. L’oggetto poteva essere stimolato con luce artificiale e, ruotandolo secondo angolature precedentemente calcolate, si alterava la visuale in base ad un metodo. Le osservazioni furono condotte tutte seguendo crismi scientifico-sperimentali.

Cave si concentrò progressivamente sulle creature volanti che aveva già avvistato la prima volta. Pensò inizialmente che fossero dei paffuti pipistrelli diurni, ma si ricredette subito. Ipotizzò allora che si trattase di putti, forse di cherubini. Erano vagamente tondeggianti e avevano degli occhi capaci di inquietarlo terribilmente. Possedevano delle larghe ali membranose, del colore delle scaglie luccicanti dei pesci portati fuori dall’acqua, e non erano arti allungati, ma delle “vele carnose” che fuoriuscivano come costole allungate dal corpo delle creature, ricordando vagamente le farfalle. Il corpo non sembrava imponente, ma era dotato di due gruppi di appendici prensili, simili ad autentici tentacoli, posti sotto l’apparente bocca. Il signor Wace arrivò a convincersi senza remore che quelle cose non fossero delle bestie, ma gli abitanti di quella cittadina magica che vedeva attraverso il cristallo. Le costruzioni misteriose non avevano vere porte, ma delle enormi finestre circolari, da cui le creature entravano e uscivano. Gli esseri zampettavano sui tentacoli, ripiegavano le proprie ali e s’introducevano nei pertugi. Altri esseri volanti giravano fra di loro, simili a grosse libellule, falene giganti e maggiolini volanti, e sugli spiazzi erbosi più vasti pascolavano degli scarabei verdastri di enormi dimensioni. Su stradine e terrazze erano visibili altri di quei “cherubini” tentacolari che zampettavano e basta senza librarsi, poiché sprovvisti delle ali degli altri.

Ho citato gli oggetti brillanti montati sui pali presenti sul terrazzo della costruzione prossima. Cave si rese conto che quei catarifrangenti erano oggetti assolutamente uguali all’uovo di cristallo. Si potevano scorgere installazioni del genere ovunque.

Occasionalmente i cherubini tentacolari si avvicinavano ad una delle gemme e, mettendosi comodi ad ali richiuse, si mettevano a guardare fissi dentro i cristalli per periodi anche di quindici minuti. L’uovo di cristallo che Cave e Wace stavano usando, evidentemente, era “cablato” con un altro uovo di cristallo montato su un palo particolarmente alto, e ogni tanto uno di quei molluschi volanti rispondeva allo sguardo indagatore del bottegaio.

Ecco l’incredibile resoconto. Se non banalizziamo tutto affermando che il povero negoziante si fosse inventato tutto per introdurre un po’ di divertimento nella sua grigia vita, dobbiamo considerare due concetti incredibili: esisteva un oggetto capace di coesistere sia nel nostro mondo che in un altro, come installazione fissa da una parte e come oggetto mobile nel nostro; oppure ci si è trovati di fronte ad un trasmettitore grafico capace di varcare la distanza fra due mondi, con un ricevitore da una parte fissato e dall’altra smontato e vagante, capace di permettere ad osservatori di entrambe le parti di guardare l’altra; non possiamo ancora capire come una simile trasmissione possa essere possibile, ma non dobbiamo escluderla, soprattutto alla luce degli straordinari progressi nelle comunicazioni effettuati negli ultimi anni. L’idea del signor Wace che ci si trovasse dinanzi ad una sorta di rete telefonica capace di trasmettere anche immagini ad una gittata siderale ci sembra essere l’interpretazione più plausibile.

Che posto era quello dall’altra parte? Wace provò a ragionare anche su questo. Dopo il tramonto, il cielo diveniva buio molto in fretta con un crepuscolo breve. Le stelle osservabili in quel cielo notturno non erano diverse dalle nostre. Cave riconobbe personalmente l’Orso, le Pleiadi, Aldebaran e Sirio: quel luogo era nel nostro stesso sistema solare e forse non lontanissimo dal nostro pianeta. Wace capì che il blu scuro di quel cielo straniero fosse assai maggiore di quello dei nostri più gelidi inverni, ed il Sole paresse più piccolo. E c’erano due lune appena abbozzate! Una di queste si muoveva molto velocemente, tanto da poter essere distinta in movimento nella sua traiettoria. Le lune non erano mai alte nel cielo, ma giravano velocemente all’orizzonte; si vedevano male perché non erano distanti. Benché Cave non disponesse all’epoca delle cognizioni necessarie a comprenderlo, tutto ciò ci rende chiaramente evidente ed in maniera assai dettagliata che quelle fossero le condizioni ambientali proprie del pianeta Marte.

Sembrerebbe di poter concludere che Cave fu il primo testimone di scene di vita quotidiana in un villaggio marziano. Quell’astro della sera che brillava così forte nel loro cielo era, evidentemente, la nostra Terra blu.

Per un po’ i cherubini non sembrarono rendersi conto delle osservazioni di Cave. Ogni tanto qualcuno di quegli esseri guardava nel cristallo e se ne andava via, come annoiato. Cave poté studiare il comportamento di quegli esseri in dettaglio, facendone delle descrizioni molto suggestive. Si trovava nella situazione identica di un ipotetico corrispettivo marziano intento, con un trasmettitore fissato sulla cima della Chiesa di St. Martin, a osservare la nostra Londra costretto a uno sforzo che richiede una faticosa preparazione e costringe comunque gli occhi stanchi a continue pause rigenerative. Cave non riuscì a stabilire se i marziani volanti fossero imparentati con quelli saltellanti per le stradine e le terrazze e se quest’ultimi a loro volta non tenessero ripiegate nel corpo tozzo le loro ali. Avvistò alcune volte delle creature simili a goffe scimmie bipedi, dalla pelle pallida e traslucida, che brucavano fra le piante e si allontanavano impaurite dai marziani saltellanti. A Cave capitò anche di vedere uno di questi ultimi catturarne uno di quelli con i tentacoli, ma sul più bello l’immagine svanì dinanzi ai propri occhi senza poter dire cosa effettivamente fosse successo. Un’altra volta vide avanzare una sorta di gigantesco insetto lungo il canale, rapido e diretto. Quando fu vicino, Cave si accorse che era una sorta di enorme meccanismo metallico luccicante. E poi sparì dalla sua vista.

Wace era interessato anche a contattare quegli esseri paragonabili a una piovra, e quando uno di loro guardò nel cristallo, Cave scattò via e prese a gesticolare insieme al suo compagno in modo da attirarne l’attenzione. Ma Cave rimase di stucco tornando ad osservarlo perché quello non era rimasto a salutare.

Le osservazioni proseguirono fino a novembre e Cave, percependo che i sospetti dei familiari sul cristallo fossero diradati, prese a riportarselo a casa di quando in quando per poter consolarsi in privato con l’unica vera distrazione nella sua vita grama.

A dicembre un contratto di Wace per una serie di lezioni dimostrative divenne impegnativo e dovettero sospendere gli studi sull’oggetto; per dieci o undici giorni il ricercatore non vide il negoziante. Voleva effettuare nuove osservazioni e in un momento di ozio, tornò nella zona di Seven Dials. Una volta lì notò che varie porte e serrande erano chiuse. Anche il negozio di Cave lo era.

Andò a bussare e gli aprì il figliastro vestito di nero. Chiamò la signora e Wace notò che era intabarrata in un solenne e austero completo da vedova. Fu informato che Cave era morto ed era già stato sepolto. La signora era in lacrime, la voce spezzata. Era appena tornata da Highgate. Lei era tutta concentrata sull’organizzazione della cerimonia, ma illustrò comunque a Wace i particolari del decesso di Cave. Era stato trovato morto nel negozio una mattina, il giorno dopo l’ultima visita a Wace e il cristallo era stato strappato alle sue mani fredde e rattrappite. Il volto senza vita era però sorridente, raccontò la signora, e il panno nero dei minerali giaceva ai suoi piedi. Era già morto da ore quando lo avevano trovato.

Wace fu profondamente amareggiato, e si autoaccusò di essere stato un insensibile e uno sciocco a non aver prestato attenzione alla salute in deterioramento del vecchio negoziante. Ma pensava anche al cristallo. Tentò di spostare la discussione sull’oggetto, appigliandosi alla sensibilità della donna. Apprese che era stato venduto.

La signora, come primo impulso dopo aver portato su il marito morto nella camera da letto, aveva scritto all’eccentrico prete che aveva offerto cinque sterline, informandolo del ritrovamento; dopo una ricerca con l’aiuto della figlia, si accorsero di aver davvero perso l’indirizzo. Visto che non avevano i mezzi per garantire un funerale appropriato a un commerciante di Seven Dials come Cave, avevano chiesto aiuto a un collega amichevole a Great Portland Street.

Si era accollato parte delle spese con uno scambio di merci. In questo lotto era rientrato l’uovo di cristallo. Wace espresse le sue condoglianze, un po’ legnose, alla vedova e poi corse a Great Portland Street. E lì seppe che l’oggetto era stavo venduto a uno spilungone vestito di grigio. E qui le informazioni finiscono. Il negoziante di Great Portland Street non sapeva chi fosse l’acquirente, e non aveva fatto troppo caso ai dettagli del suo aspetto. Non aveva visto neanche in che direzione fosse andato dopo aver lasciato il negozio. Wace rimase per un po’ lì mettendo alla prova la pazienza dell’uomo con le sue domande. Poi, sconfortato, se ne era tornato a casa sua, dove i fogli degli appunti lo aspettavano, uniche testimonianze di quell’incredibile verità svanita con lo stesso Cave.

Non accettò la perdita. Chiamò una seconda volta il bottegaio di Great Portland Street senza risultati e pagò alcune inserzioni su giornali che capitavano nel giro dei commercianti. Scrisse al “Daily Chronicle” e a “Nature”, ma entrambe le testate, sospettando una sorta di burla, gli suggerirono di riconsiderare l’idea di pubblicare una simile inserzione, per non mettere in pericolo la proprial reputazione universitaria. Il lavoro intanto premeva. Dopo un mese, a parte qualche messaggio a vari robivecchi, smise di cercare l’uovo di cristallo, e fino ad oggi nessuno lo ha ritrovato. Ogni tanto, Wace mi ha raccontato, prova a riprendere la ricerca, invano.

Se sarà mai ritrovato, rimane anch’esso materia di speculazione come tutto il resto. Se il nuovo ipotetico proprietario fosse un vero collezionista, Wace avrebbe potuto rintracciarlo. Scoprì che i due bizzarri clienti della bottega di Cave erano niente popò di meno che il reverendo James Parker e il principe Bosso-Kini di Java. Anche loro mi hanno raccontato alcuni particolari. Il principe era stato mosso dalla curiosità. La riluttanza di Cave a vendere l’uovo lo aveva spronato. Magari l’acquirente finale del cristallo è un semplice curioso, non un collezionista, che ora, magari in una casa non troppo lontana da dove sto io, lo usa come soprammobile, senza sospettare la sua vera natura. Questo mi ha motivato a raccontare la vicenda sotto la forma di un raccontino utilizzabile sulla stampa di massa, in modo da poter raggiungere questo sconosciuto con una certa probabilità.

Io credo alle supposizioni di Wace. Io credo che l’uovo di Cave e un’altra installazione su Marte siano collegati in qualche modo, e possiamo credere che il cristallo trovato da noi sia stato spedito da quel pianeta, per agire come una sentinella remota. Non è da escludere che i proprietari abbiano spedito altri cristalli d’osservazione in giro per il mondo. Ma per quale motivo?