È stata la parola del giorno delle scorse settimane, utilizzata, qualche volta in maniera impropria soprattutto nei tg, nei giorni del freddo che ha attanagliato il nord Italia: gelicidio.
Parente di stillicidio, ma non di omicidio, la parola è composta dal latino gelu (gelo) e –cidio derivato del verbo cadĕre (cadere), con il significato, scrive il vocabolario Treccani di «fenomeno meteorologico piuttosto raro per il quale l’acqua piovana, cadendo con temperatura inferiore a 0 °C (ma ancora liquida per soprafusione), si congela rapidamente a contatto degli oggetti colpiti, rivestendo tutto di ghiaccio liscio e limpido e arrecando gravissimi danni alla vegetazione».
Non è quindi il –cidio, derivato da caedĕre (uccidere, tagliare), usato come secondo elemento delle parole composte nelle quali significa uccisione: omicidio, appunto, infanticidio, genocidio, ecc.
È un termine scientifico, che esiste da sempre in meteorologia, ma che raramente è stato usato con questa frequenza. Anche perché, come succede per i neologismi e per le parole non usuali, è diventato virale grazie all’hashtag #gelicidio, con cui gli italiani che si sono trovati a combattere con marciapiedi, parabrezza e viottoli gelati, hanno documentato sui social gli effetti del freddo con dovizia di foto, accompagnate dall’immancabile cancelletto.
Nei giorni tra 9 e 11 dicembre, prima che lo scirocco mitigasse le temperature, la condivisione dei temibili effetti di questa coltre di ghiaccio su braccia, femori, piedi, mani, e qualunque altra parte del copro possa rischiare di rompersi in seguito a rovinose cadute, è stata il must dei social e il conseguente lancio nazional-popolare della parola.
Il fenomeno, in realtà, è piuttosto frequente in Europa centro-settentrionale, ma si verifica, benché più raramente, anche nella Pianura padana e in alcune valli dell’Italia centrale. Ogni zona ha un proprio termine dialettale per definirlo: nelle province di Lucca, Pistoia e Modena, viene chiamato bruscello o brucello, probabilmente derivato da broccia (pioggerella gelata); nei dintorni di Bologna si usa la parola bioccio, nel Parmense vetroghiaccio (dal termine dialettale vedergiàs); a Forlì il gelicidio si chiama vetrone. Nella zona di Brescia è la calabrosa, anche se questa parola descrive più esattamente «le lame di ghiaccio che si producono in caso di nebbia sopraffusa, cioè con temperatura inferiore a 0 °C, generalmente tra −2 °C e −8 °C».
Da non confondere, comunque, con la brina, la condensazione di acqua e umidità già depositata sulle superfici esterne quando arriva a 0 gradi. E nemmeno con la galaverna, le goccioline nell’aria che si solidificano al suolo sotto lo zero e formano un rivestimento biancastro.