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In sella alla vita per scoprire l’altro nella nostra traiettoria

Qualche giorno fa un promettente pilota di gare motociclistiche ha compiuto un atto che non ha precedenti anche in una disciplina tanto rischiosa: a oltre 200 chilometri all’ora ha affiancato un collega pinzando il freno della moto. Solo un puro caso e la perizia di questi acrobati del rischio hanno impedito la tragedia, ma non la radiazione del giovanotto (22 anni) da ogni competizione futura.

«A nessuno importa di me, di quello che sto soffrendo. Allora meglio dire addio e per sempre alle corse» è la replica affidata dal malcapitato alle penne dei cronisti.

L’episodio estremo induce a riflettere sul significato, sempre più frainteso in questi tempi, della parola coraggio che viene spesso citata per commentare i gesti estremi dei piloti a due o quattro ruote.

Forza morale che consente di affrontare difficoltà, sacrifici, pericoli suggeriscono i vocabolari della nostra amata lingua. Una definizione che comporta  non solo piena coscienza del pericolo, ma consapevolezza dell’altro nel proprio orizzonte.

Se infatti è vero che l’unica certezza che ognuno di noi può avere è la percezione del sé, dovremmo desumerne che gli altri fanno parte dell’incerto. Ma è da quell’incerto che proviene la felicità maggiore di cui l’uomo può fare esperienza, ossia l’amore, ed è dall’incontro con un altro che nasce la vita.

Dover realizzare che la madre è altro da sé è secondo gli psicologi il primo lutto da elaborare per l’infante.

In latino alius è “uno fra tanti”, alter è “l’altro tra i due”. Ed è questa matrice di rapporto duale l’ostacolo più difficile da affrontare nella nostra esistenza.

La strada stretta da percorrere è mettere se stesso nei panni dell’altro. Impresa non facile: come superare il rachitismo della nostra struttura egocentrica?

È vero che ognuno ha il diritto di cercare in proprio la chiave di una simile porta stretta.

Nella mia esperienza qualcosa è cambiato quando ero poco più d’un adolescente e qualcuno mi ha fatto capire che, nella gerarchia, prima dei doveri esistevano i bisogni.  Il dovere era rispettare i bisogni degli altri. L’utopia era rispettare il bisogno di tutti. Questo, credo, corrisponde al migliore estratto non meccanicistico del pensiero marxiano. Dai bisogni è stato naturale giungere al bisogno primario di giustizia e la sensazione dell’ingiustizia come qualcosa di fisico, che viene avvertita sulla nostra pelle come il caldo e il freddo.

Ecco allora il coraggio, inteso come il tentativo progressivo di prendere coscienza. Impresa non facile perché possediamo un’ altrettanto efficace capacità di non prendere coscienza. Siamo un genere, noi umani, che non sopporta troppe realtà. Piuttosto che affrontare la mia responsabilità, meglio dire addio per sempre alle corse, dice il giovanotto. Ma noi siamo davvero tanto diversi da lui da poterci ergere a giudici?

Come trasformarci allora in arbusti di coraggio?

Per  restare nella metafora motociclistica, è provare a intravedere la traiettoria di qualcuno, solo per intuire, anche in assenza di una vera comprensione. Forse in questa traiettoria si  identifica quell’unica cosa che un essere umano possa invidiare a un altro essere umano: il senso che la sua vita esprime.  Non fa alcuna differenza che quell’altro e io siamo due cose distinte, diverse.

Così può nascere il coraggio di vivere, scrutare l’orizzonte quando il naso lo tocca. E risalire su quella maledetta motocicletta dopo avere imparato a vedere con il cuore e la mente l’altra faccia della luna.

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