LA PAROLA

Ius soli

Chi nasce in Italia non è italiano. O almeno non sempre, non in tutti i casi. Negli ultimi mesi, nel nostro Paese, è tornato a fervere il dibattito sullo ius soli, in concomitanza con l’esame al Senato (poi rinviato a settembre) delle legge che modifichi l’ordinamento in materia, già approvata alla Camera nell’ottobre del 2015.

Lo ius soli (in latino, letteralmente “diritto del suolo”) è un’espressione giuridica con la quale si indica l’acquisizione della cittadinanza di un dato Paese per il solo fatto di esservi nati, a prescindere dalla nazionalità dei genitori.

Concettualmente, lo ius soli si contrappone allo ius sanguinis, che prevede, invece, la trasmissione della cittadinanza dai genitori alla prole (è questo il principio vigente attualmente in Italia).

Sono, ad oggi, oltre un milione i minori nati (o arrivati in Italia in tenera età) che non possiedono la cittadinanza italiana: ragazzi che hanno studiato qui, che parlano perfettamente la lingua italiana, che sentono lo stesso senso di appartenenza che sentono gli italiani. Sono dunque italiani a tutti gli effetti, ma non per lo Stato. Sono gli Italiani senza cittadinanza, come il nome dell’associazione, formata da “italiani senza cittadinanza”, appunto, che raccontano le loro storie e lavorano per far sì che anche in Italia si arrivi all’approvazione dello ius soli come principio regolatore della cittadinanza.

Perché chi nasce in Italia è italiano, è italiano chi studia e lavora in questo Paese, chi ha a cuore la cultura italiana e si sente orgoglioso di farne parte. Non è politica quella che si scorda di milioni di persone, colpevoli di non avere entrambi i genitori italiani. Non è politica quella vuole uno ius soli temperato (come previsto dalla legge in esame al Senato): con la cittadinanza non ci si brucia, al massimo lo si fa lavandosi la coscienza con una legge tiepida.

Ius soli. Soli, come si sentono questi ragazzi di fronte allo Stato.

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