Esattamente quaranta anni fa, Reinhold Messner e Peter Habeler segnano una tappa fondamentale nella storia della montagna raggiungendo per la prima volta la vetta dell’Everest, senza l’utilizzo di ossigeno supplementare. L’impresa è ritenuta talmente ardua, per non dire impossibile, che nel sospettoso e talvolta livido mondo dell’alpinismo, dove non sono mai mancati i veleni di bassa quota, i due vengono subito accusati di aver utilizzato di nascosto delle mini-bombole. Due anni dopo, lo stesso Reinhold Messner, forse per fugare i sospetti, più probabilmente per portare a compimento una sua personalissima sfida, parte di nuovo per scalare le nuvole, sempre senza l’ausilio dell’ossigeno ma questa volta in solitaria, e raggiunge ancora una volta la vetta della montagna incantata.
Con i suoi 8.848 metri di altitudine, quest’ultima deve il nome comunemente usato oggi al britannico Andrew Waugh, governatore generale dell’India, che nel 1865 la battezza così in onore di Sir George Everest, responsabile dei geografi al servizio della corona britannica nel subcontinente; i cinesi invece la chiamano Zhumulangma, mentre il governo nepalese la rinomina ufficialmente, negli anni Sessanta, con l’appellativo di Sagaramāthā, dio del cielo: dove si dimostra come la storia e le divisioni della geografia umana si arrampichino faticosamente, o almeno tentino di farlo, fin lassù.
Tre sono le pareti che si offrono allo scalatore sui fianchi della piramide bianca: la parete nord (cinese), che si affaccia sul ghiacciaio Rongbuk; la parete est (sempre cinese), che si affaccia sul ghiacciaio Kangshung; la parete sud-ovest (nepalese), che si affaccia sul ghiacciaio Khumbu.
I primi tentativi di scalare la celebre vetta risalgono agli anni Venti del secolo scorso: durante una spedizione britannica del 1924, gli alpinisti George Mallory e Andrew Irvine scomparvero: il cadavere del primo fu ritrovato 75 anni dopo, il secondo è ancora disperso e soltanto il ritrovamento della macchina fotografica che probabilmente portava con sé potrebbe appurare se i due siano caduti dopo aver raggiunto la cima o, più probabilmente, a seguito della rinuncia al tentativo.
La prima, accertata, conquista della vetta avviene solo il 29 maggio 1953, ad opera del neozelandese Edmund Hillary, in compagnia dello sherpa Tenzing Norgay; da allora le spedizioni si moltiplicano ed il guinness si allunga: nel 1973 parte la prima spedizione italiana, con un contingente di 55 militari e 8 civili destinato a lasciare sulle cime i resti di un elicottero schiantatosi per le avverse condizioni meteo; il 16 maggio 1975 la giapponese Junko Tabei è la prima donna a raggiungere la cima; nel 1980 i polacchi Krzysztof Wielicki e Leszek Cichy compiono la prima ascensione invernale; non mancano poi i record di velocità, alpinista più anziano o più giovane, limite di permanenza in vetta, numero di ascensioni (quest’ultime naturalmente detenute dagli indispensabili sherpa nepalesi), fino al trasporto della fiaccola olimpica di Pechino ad opera di un gruppo di alpinisti cinesi.
Proprio contro quest’ultima mossa evidentemente propagandistica si scaglia lo stesso Messner in un articolo del 2007, paventando la trasformazione del percorso da Kathmandu ai vari campi-base in una sorta di autostrada della montagna che spiana definitivamente la strada al business miliardario delle spedizioni commerciali. Come quella disastrosa del 1996, guidata dal titolare della Adventure Consultants Rob Hall (che vi perse la vita) e raccontata nel libro-testimonianza di Jon Krakauer Aria sottile, poi trasformato in un fortunato film sulla grande montagna, diretto e co-prodotto nel 2015 dall’islandese Baltasar Kormàkaur. Un’autostrada lungo la quale restano fatalmente disseminati i rifiuti delle varie spedizioni che, ad oggi, hanno già portato sulla vetta, o nelle sue vicinanze, più di 5.000 persone. A lanciare l’allarme in questo senso è stato lo stesso governo nepalese, che nel 2013 ha annunciato l’applicazione di misure di estremo rigore contro chi non rispetta l’obbligo di portare a valle almeno otto chilogrammi di rifiuti, compresi quelli organici, e provvedimenti quali permessi più cari, numero limitato di spedizioni, obbligo di corsi o precedente esperienza su altri 8.000 per l’accesso degli escursionisti alla montagna più alta del mondo.
Accanto alle tende strappate, alle lattine, ai contenitori e al materiale plastico, variopinto e variamente griffato che ogni gruppo porta con sé lasciandolo spesso sui sentieri, le deiezioni umane si avviano ad essere il problema maggiore in quanto restano intatte nel ghiaccio per tutto l’inverno, per poi venire allo scoperto nella stagione dell’arrampicata, quando si sciolgono i ghiacciai, ponendo a rischio la salute delle persone e degli animali che bevono l’acqua dei fiumi alimentati dalla fusione degli stessi. Quando poi i fianchi di Chomolungma (la Madre dell’universo, come i tibetani chiamano la loro montagna) si scuotono violentemente, come è accaduto con il terremoto del 25 aprile del 2015 che ha distrutto il campo-base su versante nepalese, non c’è, come si sa, provvedimento o corda o rampone che tenga.