* CRITICA LIBRI

La potenza della nostalgia

Elda Torres

L’ultimo libro di Elda Torres, Vecchi ragazzi, Manni editore, 2022, presenta tre temi principali: la storia, la scrittura, un evento di cronaca nera.

Ma i tre temi sono unificati dall’aspetto generale della complessità. La realtà è complessa e vivere non è facile. Non è facile mai. Complessa è la storia della protagonista, complessa è quella di tutti i personaggi, complesso è il caso poliziesco da risolvere e complesso è il modo di procedere dell’autrice perché quei temi sono affrontati a diversi livelli: psicologico, sociale, storico, politico, filosofico, letterario. Complessa è anche la ragnatela dei personaggi, che sono tantissimi e variegati, ma questo è ovvio perchè il libro è la storia di una vita, la vita di Gioia, e in una vita intera quante persone, ognuna diversa, tutti incrociamo? Quante lasciano un segno, in bene o in male, su di noi? Quanti amici? Teniamo conto che il libro è dedicato a tutti gli amici, anche quelli che non ci sono più. Quanti? Tanti, tante, inevitabilmente. Nessuna riduzione o semplificazione dunque, la realtà va osservata e indagata nella sua multiforme, ricchissima complessità.

E in virtù di tale complessità il romanzo di Elda Torres  si configura come una sorta di commedia umana, un grandioso e potente affresco, di vastissimo respiro, di un’umanità della quale tratto saliente è la fragilità, l’inoltrepassabile finitezza, l’essere sempre esposta alla mancanza, alle continue cadute, al limite, alla morte. Vi è appunto un mondo di personaggi esplorati tutti nel proprio disagio di esistere, nei problemi, nei lati oscuri, e nelle loro relazioni che sono in genere tormentate, difficili, fatte prevalentemente di instabilità, tradimenti e anche violenza, soprattutto verso le donne.

E’ significativo il titolo: Vecchi ragazzi. Si tratta di un evidente ossimoro: se sono vecchi non possono essere ragazzi e se sono ragazzi non possono essere vecchi. Sembra una contraddizione, che però si risolve pensando che i due termini hanno significati diversi. Vecchi ha significato anagrafico, sono vecchi perché hanno tanti anni, ragazzi ha  significato psicologico, sono ragazzi dentro, interiormente, spiritualmente. E il titolo non è Ragazzi vecchi, cioè persone che sono ragazzi anagraficamente ma vecchi psichicamente, ragazzi già vecchi, ma Vecchi ragazzi cioè persone che sono anagraficamente vecchi, ossia i protagonisti alla conclusione del libro, ma psichicamente ragazzi, vecchi ancora ragazzi, che cioè conservano la vitalità, la freschezza, la curiosità, la voglia di vivere dei ragazzi. Si può essere già vecchi spiritualmente pur essendo ragazzi anagraficamente e si può essere ragazzi spiritualmente pur essendo vecchi anagraficamente. Diciamo che l’ossimoro del titolo indica un’auspicabile totalità: quando siamo ragazzi è bene avere qualcosa della saggezza dei vecchi, quando siamo vecchi è bene avere qualcosa della vitalità dei ragazzi.

Ma veniamo al primo tema, quello della storia. Ecco la storia viene esplorata attraverso vicende che riguardano un intero secolo, quasi tutto il ‘900 e l’inizio del secondo millennio, ma muovendosi su due piani, quello della microstoria, la storia personale di una donna, Gioia appunto, con le persone che le sono collegate, e quello della macrostoria, la storia collettiva dei grandi avvenimenti di un’intera epoca.

Tuttavia i due movimenti procedono in una direzione che ha un verso opposto: mentre infatti la storia personale della protagonista, attraverso lacerazioni e sofferenze, evolve, è progressiva, la storia collettiva invece involve, è regressiva.

Per quanto riguarda il primo piano, quello della storia personale, il libro lo si potrebbe definire una fenomenologia dello spirito di Gioia, che, attraverso un percorso appunto evolutivo di esperienze dolorose e difficili, giunge infine a una conclusione soddisfatta, pacificata e creativa della propria vita.

Non a caso fenomenologia dello spirito, perché il libro è costruito sapientemente, con grande capacità architettonica, ma poggiando su una impalcatura hegeliana, e non solo per il suo carattere di Bildungsroman, di romanzo di formazione, qual è il capolavoro di Hegel, ma anche per la sua divisione triadica, in tre parti, e il tre, si sa, è il numero di Hegel. Inoltre anche per lo stesso movimento con cui si parte dall’unione, per esempio di Giulia e il suo uomo Max, che poi per antitesi diventa separazione, e infine, con la sintesi, nuovamente unione ma a un livello più alto, arricchita dalle esperienze fatte e dalla vicenda stessa della separazione. Anche il titolo dell’ultimo paragrafo, con cui si conclude il libro, dalla separatezza all’unità, ha un inconfondibile sapore hegeliano. Così come hegeliano è il movimento circolare del romanzo, che torna alla fine ai temi dell’inizio. Per Hegel infatti il movimento dello spirito è circolare, si torna agli stessi punti ma ogni volta in modo arricchito da un’esperienza in più, quindi il ritorno è sempre cosa nuova in un movimento circolare ma ascensionale, dove i tanti circoli formano un movimento a spirale, che è lo stesso movimento spiraliforme che anima il libro di Elda Torres.

Per quanto riguarda il secondo piano, quello della storia collettiva, c’è invece un’involuzione. Il romanzo ha come protagonista principale la generazione degli anni ‘60 del ‘900 ma coinvolge nel complesso quattro generazioni, anche quella dei nonni, dei genitori e dei figli, e ognuna affonda le sue radici in quella precedente. Vanno però distinti tre periodi. Il primo lo si potrebbe definire della conservazione, o nella forma dittatoriale e autoritaria del fascismo o nella forma della democrazia conservatrice della fase precedente il sessantotto. Il secondo periodo è quello del  ciclone rivoluzionario, gli anni ‘60 e ‘70, il grande balzo della coscienza critica e la rivolta contro il padre, che ha il suo epicentro e il suo simbolo nel ‘68 ma degenera nell’eroina e nella violenza armata disperata e impotente degli anni di piombo. Il terzo periodo è quello della restaurazione di tipo individualistico, consumistico ed edonistico degli anni ‘80-’90, il cosiddetto riflusso, che ha invece il suo anno simbolo nel 1989 e apre quel periodo della globalizzazione neoliberale, ossia l’estensione del capitalismo al mondo intero, che non è ancora concluso e continua ad essere il mondo in cui viviamo, che non è un mondo pacificato e felice ma conflittuale e drammatico. La storia collettiva, dopo il grande tentativo di un salto in avanti del secondo periodo, ha dunque fatto, nel terzo, un passo indietro, restaurativo, con esito deludente ma aperto, ancora in cammino. Mentre infatti la storia dell’individuo finisce con la fine della sua vita, la storia collettiva gli sopravvive in un movimento potenzialmente senza fine nella quale ogni esito è provvisorio.

Il secondo grande tema del libro è la scrittura. Nel romanzo i personaggi principali scrivono quasi tutti. Scrive Gioia, scrive il marito Max, scrive il padre di Gioia, scrivono la madre e la sua amica Mara, in un primo tempo amata dal padre di Gioia e destinata a un tragico destino, e lo stesso commissario Saltalaquaglia medita forse di scrivere un romanzo sul caso dell’omicidio di Veronica da lui brillantemente risolto. La scrittura è un po’ il filo rosso che, sia pure a intermittenza, resta punto fermo al centro del variare turbinoso degli eventi. La scrittura conserva la vita. Le emozioni, i pensieri, i gesti, le azioni passate sono rimaste perché sono state scritte, come il manoscritto del padre attraverso il quale la protagonista può ricostruire, insieme alle foto, parte importante del suo passato. E certo anche scrivere non è facile, non lo è per Gioia, né per Max, non dev’esserlo stato nemmeno per il padre, ma la  scrittura libera, ha funzione catartica. Quando si scrive non si sbaglia quasi mai. Attraverso la scrittura Gioia si esprime, si realizza, crea, porta alla luce talenti e parti belle di sé.  E così arriverà a fare, dopo un rapporto di rivalità invidiosa e competitiva con lei proprio su questo aspetto, lo stesso Max.

Tuttavia nel libro di Elda Torres anche la scrittura si arricchisce di una complessità di significati. Per esempio Vecchi ragazzi è un romanzo che racconta di sé e riflette su se stesso, è quindi un metaromanzo.Gioia stessa, nel libro, parla del libro che vuole scrivere che poi non è altro che Vecchi ragazzi. Vi si trovano almeno due riferimenti che sono come definizioni date da Gioia, dall’interno del romanzo, del romanzo. Il primo è all’inizio, quando racconta di aver ripreso in mano il suo vecchio dattiloscritto e legge: Storia di Gioia. Parte prima: Gli anni bui della luce accecante…ogni capitolo si apriva con tre righe riassuntive sul modello del Decameron. E poco dopo lo definisce romanzo di formazione. Il secondo è verso la fine, quando  Gioia osserva: Pensavo da tempo a come impostare una narrazione sull’ultimo secolo della storia italica, non un saggio ma un genere ibrido dove ci fosse contaminazione tra narrativa, prosa riflessiva, dati storici e una qualche forma di saggistica. E quest’ultima, di Gioia, è probabilmente la migliore definizione che si possa dare di Vecchi ragazzi. Metanarrazione dunque, Gioia scrive, nel libro, questo libro.

Inoltre non vi è solo la dimensione metanarrativa ma ancor più, di mise en abyme.  Il romanzo infatti contiene se stesso, il quale a sua volta contiene se stesso e così via all’infinito, facendo del libro un esempio di infinito non potenziale ma in atto che sta lì davanti agli occhi di noi lettori.

Vi è poi il terzo aspetto, l’elemento del crimine, il giallo contenuto nel romanzo, un vero e proprio thriller con tutti gli ingredienti del genere, l’omicidio anzi femminicidio, l’indagine, il commissario che abilmente svela il mistero e getta la luce che alla fine rischiara e spiega l’evento in tutti i dettagli. Il giallo è il punto in cui nel libro i due piani, storia individuale e collettiva, si incontrano. Veronica, la donna uccisa, da un lato si collega alla storia individuale perché è amica di Gioia, della quale rappresenta un po’ l’opposto e con la quale ha un problematico rapporto, e dall’altra si collega alla storia collettiva perchè Il romanzo non intende, con l’assassinio di Veronica, riportare semplicemente un fatto di cronaca, quanto interrogarsi sulle cause sociali e politiche che producono fatti come questi: la povertà, l’emarginazione, la solitudine, il maschilismo, una società che esalta valori individualistici e competitivi i quali facilmente possono tradursi in atti di violenza.

Ma, in un affresco così potente nel quale risalta l’angoscia e la difficoltà di esistere, a maggior ragione spicca il finale, quando, incamminandosi verso la conclusione della vita, è tempo di fare un bilancio. Ecco il bilancio che fa Gioia della propria vita fa pensare a quello che il grande psicologo Erickson chiama integrità dell’io, cioè integrazione, incorporazione, accettazione di tutti gli aspetti della nostra vita che hanno fatto di noi quello che siamo. Non perché siamo perfetti ma perché diventiamo capaci di accettarci nella nostra imperfezione. Quello di Gioia è insomma il bilancio di una vita appagata, capace di gettare uno sguardo sereno, umano, pieno di pietas, di comprensione, di affetto, di tenerezza, su se stessa, sugli altri, sugli avvenimenti, sulla vita stessa.

La luce è la caratteristica della fine del libro, e non è solo quella che illumina la soluzione del crimine ma è soprattutto la luce interiore che viene da una vita compiuta. Non a caso la protagonista si chiama Gioia. Il nome conta. Lei stessa afferma a questo proposito, parlando del suo dattiloscritto: la mia intenzione di allora era stata quella di giocare col termine gioia per raccontare al contrario una storia melanconica. E certamente la melanconia fa parte dell’esperienza di Gioia, che vive anche momenti di depressione, ma il punto d’arrivo è la gioia. Gioia non sta nella gioia all’inizio ma alla fine, dopo aver attraversato il travaglio della sua vita. Il libro comincia col dolore, per la morte del padre, ma il suo percorso è quello dal dolore alla gioia, ottenuto attraverso un lavoro interiore che medita sull’esperienza vissuta e attinge dal passato l’energia per un futuro vitale.

Difatti vi è nel romanzo anche un ruolo particolare svolto dal ricordo, consegnato alla memoria ma soprattutto, di nuovo, alla scrittura. Sono le carte scritte, ritrovate, che fanno ricordare e danno l’inizio a un movimento della mente per ripercorrere e accogliere il passato. La maggior parte del libro è fatta della lettura di scritti che rievocano il passato e ricordare è riportare al cuore. Il passato è accolto dal cuore, talvolta con angoscia ma sempre con affetto.

In questo senso io credo che l’ingrediente decisivo del romanzo di Elda Torres sia il sentimento della nostalgia. Mi pare, ma potrei sbagliarmi, che nel libro la parola non ci sia nemmeno, ma è quella che descrive meglio l’atmosfera invisibile che lo avvolge. Il romanzo è appunto un continuo dialogo tra passato e presente in cui la maturazione di Gioia avviene proprio attraverso il confronto e l’elaborazione incessante del proprio passato, una sorta di viaggio nella memoria alla ricerca del tempo perduto a partire dal presente e compiuto a ritroso con una cronologia inversa: per esempio nel libro non si parla prima del fascismo e poi degli anni sessanta ma viceversa. E cos’è che ci spinge così fortemente a tornare al passato, che lo rende così attrattivo come una calamita, che ci muove a ricercare le nostre radici, se non il sentimento che esprime per eccellenza il desiderio del ritorno, cioè la nostalgia?

Tuttavia è necessario distinguere due tipi di nostalgia, che definirei passiva e attiva, e capire di quale nostalgia si tratta nel caso del libro di Elda Torres.

La prima è la nostalgia passiva, ossia la nostalgia come compiacimento del dolore, che cioè trasforma il dolore in piacere. Il piacere di chiudersi nel passato, che consente di difendersi dall’angoscia del presente e di non agire per cambiarlo. È la nostalgia che consiste in un crogiolarsi nel dolore. Questa nostalgia imprigiona nella idealizzazione di un passato paralizzante. Il ritorno indietro è per restare indietro, in un movimento solo regressivo.

Ma c’è anche una nostalgia attiva. La nostalgia è il dolore che si prova perché si desidera tornare al nido. La parola viene infatti da algos, dolore, e nostos, ritorno. Ma la parola greca nostos è imparentata con l’inglese, e tedesco, nest, nido. La nostalgia è il dolore che si prova perché si desidera tornare al nido, è il sentimento della mancanza del nido.

E il nido è la casa dell’infanzia, è il suo incanto, sede della vita felice, rappresentata, nel romanzo di Elda Torres, dalla casa di campagna dei nonni. E’ la casa di campagna dei nonni il luogo della gioia. I nonni, col loro influsso benefico. La nonna che insegna a Gioia a lavorare a maglia, e il nonno, che le trasmette il segreto semplice della felicità: se desideri che dalla terra nasca qualcosa bisogna impegnarsi perchè succeda, occorre pazienza, avere cura, accompagnare fino alla raccolta. Dopo puoi anche regalarne una parte. Farai un’opera buona. Dai nonni viene il messaggio che la vita richiede il nostro lavoro, bisogna coltivare il terreno della propria anima, i propri talenti, averne cura con pazienza, così raccoglieremo dei frutti che potremo regalare in parte anche agli altri. Ci vogliono amore e generosità, insomma, per le cose che si fanno, per noi stessi, per gli altri, per la vita.

E allora la nostalgia attiva consiste nel fatto che alla luce di questa immagine, del nido felice, si può riconoscere la nostra infelicità e l’infelicità del mondo, si può criticare il presente ed agire per cambiarlo. Questa specie di nostalgia, a differenza dell’altra, tiene fermo il dolore, non lo trasforma in piacere. Ed è attiva: l’immagine del nido spinge ad agire per cambiare. Nella nostalgia c’è il dolore ma il dolore è il motore di ogni grande azione e di ogni cambiamento. Se non si soffre perché cambiare? In questa nostalgia il ritorno indietro al passato non è per restare indietro ma per darsi la spinta allo scopo di andare più avanti, con un movimento che chiamerei regressivo progressivo.

Il primo tipo di nostalgia porta alla passività, il secondo all’attività. E la prima nostalgia non è nemmeno vera nostalgia (nella quale c’è l’algos, il dolore) perché è piacere mascherato da dolore. È una falsa nostalgia. È un alibi per non affrontare il rischio di vivere. È paura mascherata da nostalgia. Il secondo tipo di nostalgia invece è coraggio, il coraggio di agire per cambiare la vita e renderla più simile alla vita felice, a una vita viva. La nostalgia passiva chiude, quella attiva apre.

Ora nel libro di Elda Torres non c’è per nulla la prima specie di nostalgia, la nostalgia passiva, ma c’è la seconda, la nostalgia attiva, anzi non solo c’è ma è a mio parere la grande protagonista del libro. Alla fine si realizza il nostos, il ritorno, si torna ad Itaca, cioè alla casa di campagna dei nonni, cioè alla vita felice, con un senso di gratitudine per tutto quello che si è vissuto, la quale consente di accogliere in eredità l’insegnamento della nostra vita passata. Massimo Recalcati chiama infatti nostalgia gratitudine qualcosa di simile a quella che io chiamo nostalgia attiva. La seconda nostalgia, la nostalgia attiva o nostalgia gratitudine, è il fantasma invisibile che si aggira nel libro di Elda Torres ed è la forza che permette a Gioia, alla fine, di raggiungere il nido di una vita ben riuscita.