CONVEGNI CRITICA

La speranza di Prometeo rivelata da Luigi Nono

È in una scatola bianca l’installazione pittorica Is this all we can do? dell’artista romeno Nicola Golea, allo Studio Giudecca 860: da un lato, una moltitudine di volti fissano il visitatore, gli occhi sbarrati, un urlo muto. Dall’altro, figure nude e smarrite emergono da uno sfondo oscuro, senza altra bellezza che quella derivante dall’affermazione di sé, nonostante il sopruso, l’umiliazione. Is this all we can do? è la frase finale della composizione floresta é jovem e cheja de vida di Luigi Nono, composta tra il 1965 e il 1966 ed eseguita in prima assoluta al Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia, sempre nel 1966. L’opera, dedicata al Fronte Nazionale di Liberazione del Vietnam, venne concepita assieme allo scrittore Giovanni Pirelli come ipotesi di un nuovo teatro musicale basato su testi documentari – lettere, dichiarazioni, discorsi –  che dovevano riflettere l’esperienza soggettiva, spesso faticosa, della partecipazione alla lotta politica. I testi, composti su nastri magnetici, sono frammenti dall’appello del comitato americano per la cessazione della guerra in Vietnam e dall'”Escalation” teorizzata da Herman Kahn, esperto militare del ministero della difesa americano. L’invocazione che dà il titolo all’opera di Golea è di uno studente di Berkeley, anonimo protagonista del primo movimento studentesco statunitense degli anni Sessanta.

Se esiste un senso, forte, nella seconda edizione del Festival Luigi Nono che si è appena concluso a Venezia, nell’isola della Giudecca; se esiste un valore nella kermesse che quest’anno è stata principalmente dedicata al rapporto tra il compositore e l’onda del ’68, è più che mai  in quella installazione di disarmante sincerità. Non conta (o meglio, conta, più di un’ideologica  celebrazione) la denuncia del disagio, della disaffezione; ben di più importano  l’assunzione di responsabilità precise, l’intenzione, altrettanto sincera, di trasformare concretamente l’esistente. Il Festival ha operato – ed è stato uno dei suoi pregi maggiori – non solo per esercitare il ricordo, ma per proporre ipotesi utili al nostro contemporaneo. Introducendo la manifestazione, nella Sala delle Colonne dell’ex convento dei Santi Cosma e Damiano, sede dell’Archivio Luigi Nono, Massimo Cacciari ha ribadito la necessità di non trasformare il ’68 in una formula stereotipata: «Il ’68 di Nono non è protesta, non è semplicemente denuncia; è qualcosa d’infinitamente più complesso e drammatico. Significa l’ostinata ricerca di una politica culturale capace di far comprendere le esperienze artistiche dell’avanguardia a tutti i militanti della sinistra, alla classe operaia. Significa il lavoro perché tra movimento operaio e movimento studentesco si potesse realizzare un’unità di linguaggi e d’intenti. Significa il dramma del progressivo distacco dal PCI di quei compagni a cui forse era più legato, e di cui continuava a condividere molte idee: il gruppo del Manifesto e Rossana Rossanda in particolare». Per Cacciari, quella di Nono era una posizione di militante comunista sui generis, sfaccettata e spesso controcorrente: «Gigi ha vissuto quel periodo senza ideologismi né settarismi, come un grande esperimento politico e culturale, – ha commentato – così come ha sempre vissuto la propria stessa esperienza artistica, una prova da affrontare con passione e lucidità insieme, con responsabilità, disincanto ed entusiasmo».

Is this all we can do?: i volti di Nicola Golea ricordano che la domanda più importante riguarda la libertà umana, ora più che mai. Il tema della rivoluzione ideale – Nono sosteneva che rivoluzionario è chi agisce sullo stato delle cose all’interno del proprio ambito di ricerca, non chi parla di rivoluzione –,   scivola nell’attualità, oggi che nuove forme di sudditanza compaiono nel quotidiano e altre, di schiavitù e sopraffazione, feroci e arcaiche, riprendono vigore. «Un conto è realizzare opere politiche, in musica ad esempio, – è intervenuto nel dibattito Nicola Sani, compositore, già sovrintendente del Teatro Comunale di Bologna, oggi direttore artistico dell’Accademia Chigiana di Siena, fra i vari incarichi anche consigliere d’amministrazione della Fondazione Archivio Luigi Nono – altro è comporre musica in maniera politica, esprimendo un’esperienza reale di trasformazione. È l’irruzione del reale nel lavoro artistico: anche attraverso il suono si diventa liberi. Allora si potrà concepire, come ha fatto Nono, una musica che spazia nel tempo. Senza compiacimenti ingegneristici: il suono deve essere concreto, ma questo non ha a che fare con un’estetica; piuttosto, con il significato sonoro del testo, con la sua componente antagonista». L’occasione è stata la presentazione al pubblico, in anteprima nelle giornate del Festival, del saggio Resistenza illuminata. Omaggio a Luigi Nono nel Settantesimo anniversario della Resistenza e della Guerra di Liberazione (1945-2015), a cura di Fabrizio Festa, per le Edizioni Pendragon di Bologna: testimonianza di un progetto che ha attraversato tutto il 2015, tra concerti, performances, convegni, mostre, proiezioni; oltre sessanta appuntamenti proposti tra Bologna, Ferrara, Marzabotto, Modena, Reggio Emilia. «La musica – scrive Nono, e le sue parole illuminano il presente – resterà sempre una presenza, una testimonianza degli uomini che affrontano coscientemente  il processo storico, e che in ogni istante di tale processo decidono in piena chiarezza della loro intuizione e della loro coscienza logica …».

«Caro Gigi – in una lettera, Rossana Rossanda rivela a Luigi Nono la sua personale ricetta per proseguire una lotta faticosa e difficile – occorre lavorare d’idee, per andare avanti». I ragazzi dell’Accademia Teatrale Veneta, guidati da Adriano Jurissevich, hanno delineato – in uno spettacolo del Festival –, attraverso i carteggi tra Nono e gli intellettuali con cui abitualmente veniva in contatto, dallo stesso Pirelli a Cesare Cases, dalla giornalista e musicologa francese Martine Cadieu a Renato Guttuso e Massimo Mila, la mappa di un vero percorso di vita, non solo artistico, non politico in senso stretto. Verrebbe da dire, come lo definiva lo stesso compositore, una percorso di amore. Perché  il suo  Prometeo continua a parlare alla gente: «Non di ribellione si tratta, – ha sostenuto lo stesso Cacciari, che ha lavorato con Nono alla stesura dell’opera – piuttosto dell’affrontare la Necessità faccia a faccia, senza pensare di oltrepassarla o trasgredirla. Prometeo, oggi, è chi sa ascoltare, accogliere, dialogare». Questo monito, profondamente attuale e troppo spesso disatteso, ha contraddistinto con forza le due mostre che l’edizione 2018 del Festival ha condiviso con Emergency, nella bella sede di fondamenta San Giacomo alla Giudecca: Pensieri visivi per liberarsi dalla guerra, manifesti dal Corso di Laurea in disegno industriale e multimedia dell’Università IUAV di Venezia e l’installazione Archypélagos, cinque Isole sulle rotte di Prometeo, realizzata dagli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, a cura di Luca Reffo e Nicola Cisternino. «Perché la pace non accade da sé, – ha commentato Raimonda Riccini, docente dello IUAV – e, nello spirito pacifista ed internazionale delle idee di Nono, conta molto il lavoro di un’istituzione che insegna a progettare, accanto al lavoro sul campo di un’organizzazione da sempre in prima linea. Il contributo specifico della nostra Università, che si occupa da tempo delle questioni legate alle drammatiche conseguenze della guerra sulle persone, sulle città, sui monumenti, risiede certamente nella sua vocazione costruttiva. Anche la cultura di pace – ha concluso Riccini – si può progettare». Per Rossella Miccio, presidente di Emergency «dato che le logiche di guerra fanno ormai parte, purtroppo, del nostro quotidiano, abbiamo bisogno di convertire le idee, anche la memoria del ’68 di Nono, in una forza d’urto significativa. Di più – ha aggiunto – abbiamo necessità di una presa di coscienza, al di là dell’immediato, di quale possa essere, in concreto, l’impatto del nostro progetto. Per questo – ha concluso – il Festival funge da moltiplicatore di buone pratiche».

Se è vero, come ha ribadito Gino Strada, intervenuto in video alla manifestazione che «La cosa più realistica che abbiamo a disposizione è l’utopia», alla Giudecca, in questo ottobre insolitamente soleggiato, si è intravista più di un’occasione per esercitarla, con successo di pubblico e critica: riproposizione di opere del repertorio di Nono, su cui hanno discusso studiosi autorevoli come Nanni Balestrini e Veniero Rizzardi; presentazioni di libri;  laboratori per ragazzi; una mostra fotografica sul ’68 a Venezia, allo Spazio Bocciofila, con immagini di Graziano Arici e dell’Archivio Silvestro Lodi e un’altra di manifesti politici e culturali degli anni Sessanta e Settanta  dalla collezione dell’Archivio Nono, allestita presso la libreria Marco Polo. Senza dimenticare la splendida esposizione documentaria , allestita nella sede dell’Archivio nel venticinquesimo anniversario della sua fondazione, con l’indispensabile apporto di Nuria Schoenberg Nono, moglie del compositore, e della figlia Serena, autentiche anime del Festival: il primo elenco-inventario della biblioteca personale di Nono, schede e locandine, l’elenco delle tesi di laurea e di dottorato dedicate alla sua opera, foto, gli oggetti di uso quotidiano disposti sulla sua scrivania. Gualtiero Bertelli, negli spazi di Emergency, ha dedicato alla kermesse un racconto-concerto. Il coreografo Virgilio Sieni, già direttore della Biennale Danza dal 2013 al 2016, ha collaborato con un gruppo di cittadini veneziani (non ballerini professionisti) per mettere in scena una creazione inedita sulla composizione A floresta é jovem e cheja de vida: «Uno spettacolo che assomigli a un’assemblea pubblica – ha precisato Sieni nella presentazione – una lezione comune danzata, ma anche trasmessa».

Tra gli eventi conclusivi del Festival, significativa la prima esecuzione dell’opera Studio / omaggio per un “dialogo successivo”  di Andrea Liberovici: composizione per elettronica e violoncello, intelligente e diacronica rispetto all’opera del Maestro; nastri d’interviste ed incisioni di Nono, con cui dialogano registrazioni dell’autore. Il risultato è un pezzo di concreta “anticipazione”, di dialogo recuperato, dove la dimensione umana riemerge con forza. È sicuramente tempo di ricordare, perché «non si può sganciare la Storia dall’opera d’arte, che è presente, passato e futuro» ha sostenuto Fabrizio Festa. È tempo di denunciare anche i propri limiti, la difficoltà, gli inciampi di percorso. Tuttavia, più che mai, è tempo di costruire: perché anche la speranza, per Andrea Liberovici, va progettata.