Il libro di Iacopo Nappini La memoria perduta, pubblicato nel 2018 da Mimesis editore, è in origine la sua tesi di laurea, già vincitrice del premio “Nicola Gallerano”, che l’autore ha per vent’anni continuato ad ampliare, approfondire e limare con gran serietà, arricchendola con una accuratissima documentazione fotografica: ad ogni opera di cui parla è infatti associata un’immagine. È fino a questo momento il lavoro più importante di Nappini ed è l’opera di uno storico vero, di razza, scritta con grande cura e con una raffinatissima scelta delle parole, che fa piacere, come fanno piacere le cose fatte bene.
È un libro che percorre la storia d’Italia della prima metà del ‘900 attraverso l’angolazione di Firenze. Questa città è lo sfondo, la cornice suggestiva in cui avvengono gli eventi narrati, cioè le vicende dall’inizio del secolo fino alla seconda guerra mondiale e oltre. Perciò chi appartiene a questa città ne trae un ulteriore piacere, perché può ritrovare luoghi ed eventi noti e al tempo stesso conoscerli meglio, capirli di più, scoprendo dettagli che spesso, io almeno, nemmeno immaginavo. Ma è logico che il teatro sia Firenze perché proprio qui, come scrive Salvatore Cingari nella sua postfazione, «germoglia la forma mentis del nazionalismo italiano». A Firenze nasce il nazionalismo.
Il libro indaga l’uso che viene fatto dei morti, di quanti sono morti per la nazione. I vivi parlano dei morti, che non hanno più voce, sono muti, ma i vivi parlano dei morti allo scopo di perseguire i propri interessi di vivi.
Nappini sostiene che in Italia, a partire dall’Unità fino alla seconda guerra mondiale, si è tentata una gigantesca operazione politico culturale – quella di usare la memoria dei morti del Risorgimento prima e della grande guerra poi – per costruire un mito collettivo in cui tutti gli italiani potessero riconoscersi, costitutivo della loro identità e del loro senso di appartenenza: «noi siamo italiani, quelli che onorano i caduti delle loro guerre, perché apparteniamo a chi considera valore massimo il sacrificio della vita per la patria».
Scrive Nappini: «la mia intenzione è dimostrare che, nella storia contemporanea, a partire da Firenze, ebbe luogo nel corso di decenni la costruzione di un mito collettivo centrale nella definizione dell’identità nazionale».
A compiere questa operazione è la classe borghese liberale italiana che governa il regno d’Italia fin dall’unità, e poi il fascismo, che lo amplifica ai massimi livelli, presentando la grande guerra e i suoi morti come momento più alto e glorioso dell’Italia unita e il fascismo come suo fedele erede. Difatti le squadre fasciste costruiscono intorno alla morte dei militanti un elaborato culto funebre che s’intreccia intimamente col culto dei caduti della grande guerra. Un rito mortuario che ha una componente vitalistica nel momento emotivamente forte dell’appello ai caduti: davanti ai gruppi fascisti coi loro gagliardetti e bandiere uno dei capi grida il nome dei militanti scomparsi e la folla inginocchiata risponde in coro presenteper dire che quei morti non sono morti, perché la loro anima, grazie alla memoria, è ancora tra i vivi, esempio per loro. Come dichiara Mussolini: «I morti per la patria vivono».
Il potere ha strumentalizzato i morti, li ha usati come mezzi per parlare ai vivi e diffondere il proprio messaggio politico dicendo: «guardatequesti morti, indicano a voi vivi cosa anche voi dovete fare, prepararvi a morire la bella morte nelle future guerre che faremo». Non a caso Nappini dedica il libro ai caduti delle nuove guerre. Così la morte in guerra diviene un culto nazionale.
E il messaggio ha un significato non solo politico ma anche pedagogico: serve ad educare, a portare nella testa della gente, nelle coscienze, i valori di un’ideologia virilista, che ha radici forti nella nostra storia. Come scrive Mario Alberto Banti, «la cultura profonda dell’Occidente è una cultura bellica, che si nutre di letture che parlano, con ammirazione, di battaglie e massacri, dalla Bibbia a Omero, da Ariosto ai romanzi storici dell’Ottocento», secondo un ideale di mascolinità costruito intorno all’immagine dell’uomo combattente e della donna e dei figli da difendere, in base a una visione del mondo conservatrice che esalta i valori tradizionali di Dio, patria, famiglia, dove però la famiglia è a servizio della patria, pronta a donare i propri figli per la guerra.
Così in tutto questo periodo della nostra storia si tentò di costruire una memoria collettiva del passato a vantaggio di un’ideologia politica del presente, usando per questa propaganda anche e soprattutto la scuola, su cui l’autore insiste, impregnata di nazionalismo, considerata, scrive Nappini, come «un tempio, luogo sacro per educare la gioventù al rispetto della patria,principale luogo deputato a costruire un’identità nazionale». E così in diversescuole compaiono le foto e le biografie dei propri studenti morti per combattere in guerra.
Il presupposto è la tesi che ha valore ciò che ha potenza, e che la potenza si manifesta con l’aggressività e con la guerra. I caduti contro i nemici di fuori, gli austriaci, o contro i nemici di dentro, i sovversivi socialisti, in quella guerra interna che è stata la guerra civile nella quale si è manifestata la lotta di classe in Italia negli anni tra la fine del primo dopoguerra e l’avvento del fascismo, sono al tempo stesso, si dice, eroi e martiri, hanno un valore politico, come eroi, e religioso, come martiri. Politica e religione, chiesa e stato, concordano nel condividere e diffondere questa ideologia bellicista e nel creare insieme una vera e propria religione della guerra.
Bisogna conservare la memoria, non si deve dimenticare, la memoria non dev’essere perduta. Ma la memoria è selettiva, sceglie cosa ricordare e cosa dimenticare. E la selezione non è neutrale, è fatta per sostenere un proprio discorso ideologico e politico. «Il potere deve esaltare certi fatti e farne dimenticare altri»,scrive Nappini. E già nel primo dopoguerra si assiste al tentativo di utilizzare i morti a vantaggio di ideologie politiche opposte.
Scrive ancora l’autore: «la distruzione delle opere fatte fare nell’immediato dopoguerra dai socialisti aveva consegnato la celebrazione d’orientamento patriottico del conflitto mondiale alla cultura politica riconducibile alla destra e invece quello della contestazione del conflitto alle forze di sinistra. E ancora:socialisti e sinistra costruiscono nel dopoguerra lapidi e monumenti contrapposti a quelli della memoria ufficiale».
Lapidi e monumenti. Perché i morti si ricordano celebrandoli, rinnovando la memoria del loro sacrificio, con lapidi e monumenti, e cerimonie, targhe, obelischi, parchi della rimembranza, che associano ad ogni albero una targhetta col nome del defunto e danno un corpo, scrive Nappini, a un insieme indefinito di caduti, come il milite ignoto a questo insieme dà un nome. E molto bene osserva ancora Cingari che Nappini riesce a dar vita a queste targhe, a questi monumenti, a questi parchi, li fa muovere, quasi come per magia si animano davanti a noi, prendono corpo e vita, sembra che parlino, e così, conclude Cingari, «Nappinili sottrae all’indifferenza dei viventi di oggi».
Il libro di Nappini si distingue per la vastità e la ricchezza dei suoi contenuti, ma soprattutto per la capacità di suscitare emozioni, pregio raro per un libro, ancor più per uno di Storia. Seguirò dunque il filo delle emozioni ricordando due esempi centrali nel libro di Nappini che sono anche legati a momenti particolari della mia vita.
I due esempi, identificati in due luoghi di Firenze, trattano lo stesso tema, quello della Vittoria: la vittoria dell’Italia nella grande guerra. Il primo, a cui Nappini dedica un intero capitolo, è il ponte alla Vittoria, il secondo piazza della Vittoria.
Il ponte alla Vittoria – nei miei ricordi, come probabilmente in molti della mia generazione, legato al leggendario cinema Universale dove ho visto tutto Bergman, Dreyer e tanti film d’essai – venne costruito vicino al luogo dov’era prima il ponte sospeso, così detto perché non aveva piloni sotto che lo sorreggessero e sul quale venne ucciso Giovanni Berta, il più noto dei caduti fiorentini del fascismo.
A lui il regime dedicò una canzone, intitolò una città in Eritrea e lo stadio di calcio, dalle forme avveniristiche e di grande valore artistico, edificato nel 1937 su progetto di Pier Luigi Nervi. Non solo: a Giovanni Berta dal 1921 fu intitolata anche, nella zona dove il padre imprenditore aveva le sue fonderie, piazza delle Cure che si chiamava così dalle curandaie, ossia le lavandaie che curavano i panni sciacquati nel torrente Mugnone. Alla caduta del fascismo la piazza riprese il nome originario, certamente un bel nome, come quello delle curandaie che avevano cura dei loro panni.
Per tornare al ponte alla Vittoria, esso venne costruito in muratura a differenza di quello sospeso che era di ferro. Venne inaugurato nel 1932 in occasione del decennale della marcia su Roma e consacrato proprio alla memoria degli eroi morti in guerra: su di esso venne scolpito l’elenco degli oltre 3.000 caduti con in testa le medaglie d’oro e una dedica, tutte scritte che vennero tolte a colpi di scalpello subito dopo la liberazione. Il ponte, come tutti gli altri ponti di Firenze tranne ponte Vecchio, fu poi distrutto dai tedeschi in fuga e poco dopo ricostruito nel modo in cui, ancor oggi, lo conosciamo.
Il secondo esempio è quello di piazza della Vittoria, anch’essa dedicata alla vittoria nella grande guerra. Questa piazza a Firenze è particolarmente cara a quanti, come il sottoscritto, lì vi hanno passato i 5 anni magici della propria adolescenza, frequentando il liceo classico Dante, fondato nel 1853 sotto i Lorena e trasferito in quel luogo nel 1921. Al liceo classico Dante, peraltro, Cingari ha dedicato un interessante libro.
Scrive Nappini: «Il liceo Dante rivestiva una straordinaria importanza. Era il più antico della città, portava il nome del grande poeta e proprio nel 1921 avrebbe dovuto trasferirsi nella sua sede definitiva. Quando la nuova sede fu inaugurata intervennero alla cerimonia anche il sindaco e il generale Cadorna e l’orazione inaugurale fu tenuta da Isidoro del Lungo»(il grande dantista, anch’egli professore in quel liceo).
La piazza fu intitolata alla Vittoria sotto il fascismo, nel 1924, secondo la decisione di dedicare l’intero quartiere alla vittoria, per celebrare le vittorie dell’Italia nel Risorgimento e nella grande guerra, considerata l’ultimo atto del Risorgimento stesso.
Ci sono in quel quartiere via della Cernaia, via XXIV maggio, via dello Statuto, via Francesco Crispi, via Venti settembre, via Giuseppe Abba, via Ippolito Nievo, via delle cinque giornate ed altre ancora. E, nonostante il preside del liceo Dante chiedesse che la piazza fosse intitolata proprio a Dante, perché Firenze non aveva e non ha una piazza dedicata al grande poeta e proprio lì si trovava il liceo che invece portava il suo nome, prevalse tuttavia la Vittoria, troppo forte era la volontà di dedicare un intero quartiere alla celebrazione delle imprese belliche nazionali.
Poi, col crollo del fascismo, questa memoria di cui Nappini ci parla, fatta di lapidi e monumenti, diventò lentamente superflua e cadde a poco a poco nell’oblio, perduta. La memoria perduta, appunto. Scrive Nappini che «il fascismo aveva monopolizzato l’identità collettiva segnata dal mito dei caduti e per questo tale costruzione si è quasi completamente dissolta durante e dopo la seconda guerra mondiale». Forse, conclude Cingari, «come capitolo della rimozione collettiva in nome del mito del bravo italiano che ha scordato le decimazione e la strage dei nostri prigionieri abbandonati dagli stati maggiori».
Oggi del resto la memoria è cambiata, non è più la memoria materiale, di pietra, di marmo, di alberi, di bronzo e di ferro della quale ci racconta magistralmente Nappini nel suo splendido libro, ma è diventata la memoria immateriale, digitale e virtuale, che non parla più nemmeno l’italiano ma l’inglese, contenuta nei files dei software o degli hardware all’interno ormai di qualunque device.