CRITICA IL PERSONAGGIO MEMORIE MOSTRE

Il mecenate di Hitler che depredò gli ebrei

ROBERTO VERRASTRO

Hildebrand Gurlitt

Inventario Gurlitt è il titolo di due mostre parallele inaugurate a novembre e in corso in Germania fino all’11 marzo presso la Bundeskunsthalle (Galleria d’arte federale) di Bonn, e in Svizzera presso il Kunstmuseum di Berna fino al 4 marzo. Tra il 1933 e il 1945 ebbe luogo il più grande furto di opere d’arte di tutti i tempi, quando dai nazisti, anche allo scopo di finanziare le spese militari, ne furono sottratte a famiglie, galleristi e collezionisti ebrei oltre 600mila, che hanno alimentato fino a oggi un giro d’affari vorticoso. Nel novembre del 2013 fu reso noto che a Cornelius Gurlitt, morto nel 2014 dopo un intervento al cuore, erano state confiscate 1.400 opere ereditate dal padre, lo storico dell’arte Hildebrand Gurlitt (1895-1956), che negli anni Quaranta fu uno dei capo acquirenti di Hitler. Una selezione di quel patrimonio viene ora presentata al pubblico.

La mostra di Berna, intitolata «Arte degenerata» – confiscata e venduta, allinea circa 160 opere per lo più riconducibili all’espressionismo e alla Nuova Oggettività, come Adamo ed Eva (1917) di Max Beckmann e Carcassa di cavallo (1924) di Otto Dix, entrambi combattenti nella Prima guerra mondiale. Quella di Bonn, Il furto d’arte dei nazisti e le conseguenze, verte inoltre sul commercio d’arte nell’epoca hitleriana: a dispetto di una ricerca meticolosa, rimane ancora oscuro come fosse finita in possesso di Hildebrand Gurlitt la maggior parte dei circa 250 capolavori esposti, dal Ponte di Bercy (1925) di Paul Signac al Café (1916) di George Grosz. Sul tema uno dei volumi più dettagliati, tuttora inedito in Italia, è stato scritto dal giornalista tedesco Stefan Koldehoff, collaboratore del settimanale Die Zeit, diretto dall’italo-tedesco Giovanni di Lorenzo. Il libro, pubblicato nel 2014 dall’editore berlinese Galiani, I dipinti sono tra noi – Gli affari con l’arte trafugata dai nazisti e il caso Gurlitt (336 pag., 14,99 euro), ha mantenuto il titolo e i dieci capitoli della precedente versione edita nel 2009 dall’editore Eichhborn di Francoforte (288 pag., 22,95 euro), ma premettendo un nuovo capitolo reso necessario dallo sviluppo degli eventi e intitolato Salvato o rubato? Il caso Gurlitt, che mette in dubbio la tesi sostenuta a sua difesa da Hildebrand Gurlitt nel dopoguerra.

La vicenda inizia il 28 febbraio 2012, un martedì mattina che vede oltre venti agenti di polizia suonare con un mandato di perquisizione alla porta dell’appartamento di Cornelius Gurlitt, al quinto piano di un edificio situato a Schwabing, il quartiere degli artisti a Monaco di Baviera, lo stesso edificio in cui negli anni Settanta vivevano tra gli altri alcuni collaboratori del famoso regista Rainer Werner Fassbinder. Non ottenendo risposta, la porta viene sfondata e lascia apparire la piccola e intimidita figura del 79enne Cornelius, che capisce al volo che per lui e la preziosa eredità lasciatagli dal padre è finita. E lo capisce perché i suoi guai erano cominciati appena un anno e mezzo prima, nel settembre del 2010, sul treno Eurocity 197 Zurigo-Monaco di Baviera, una delle tratte preferite da coloro che introducono in Germania denaro sporco proveniente dai conti svizzeri. Cornelius nega ai funzionari doganali che lo interpellano di avere con sé denaro contante, ma un’ispezione nella toilette del treno porta alla luce 18 banconote da 500 euro fresche di stampa, vale a dire 9mila euro. Poiché il transito di contanti dalla Svizzera alla Germania viene segnalato come sospetto da 10mila euro in su, i funzionari lasciano proseguire Cornelius, che finisce comunque nel mirino di indagini volte ad accertare se la sua attività di mercante d’arte avvenga nel rispetto delle leggi fiscali tedesche. Ma, scrive Koldehoff, «gli affari con i nazisti li fece il padre, non lui».

Suo padre dirigeva dal 1931 la Società d’Arte di Amburgo, dove Cornelius era nato il 28 dicembre 1932. Il fatto che per le leggi razziali naziste lo stesso Hildebrand, nato a Dresda, fosse un Vierteljude, un ebreo per un quarto, come venivano chiamati quanti avevano almeno uno dei nonni di origini ebraiche (nel suo caso la nonna paterna Elisabeth, appartenente alla famiglia Marcus, commercianti ebrei di Königsberg, la città natale di Kant), non gli impedì negli anni Trenta di «aiutare» gli ebrei che intendevano emigrare a vendere alla svelta le opere d’arte in loro possesso, ma pagandole egli stesso un prezzo palesemente inferiore al reale valore di mercato. Nel 1936 Hildebrand acquistò per 600 marchi dal giornalista Julius Ferdinand Wollf, caporedattore di un quotidiano di Dresda, il dipinto L’Atelier del pittore Grossmann, realizzato dal pittore bulgaro-francese Jules Pascin (1885-1930), che nel 1972 riapparve in un’asta a Londra presso Christie’s, dove fu venduto per 40mila dollari a un collezionista di Chicago. A Julius Ferdinand Wollf invece non bastò essere un ebreo convertito al luteranesimo per evitare nel 1942 un’irruzione delle SS in casa sua, che terminò con il lancio contro lui e la moglie Johanna Sophie di porcellane e oggetti d’antiquariato trovati tra gli arredi. Alla deportazione i coniugi preferirono il suicidio per avvelenamento il 27 febbraio 1942, stessa strada «scelta» dal fratello Max Wollf.

Dopo la guerra, Hildebrand mentì agli Alleati che gli avevano requisito la collezione, sostenendo che quel dipinto era appartenuto già prima del 1933 a suo padre, lo storico dell’architettura Cornelius Gurlitt, da cui il nipote ereditò il nome. Alla restituzione a Hildebrand dell’intera collezione contribuì tra gli altri la sua ex segretaria, Maya Gotthelf, classificata Halbjüdin, mezza ebrea, in quanto aveva due nonni ebrei e finì perciò ai lavori forzati nel gennaio del 1944. Le bastò dire: «Non ho mai firmato le lettere con Heil Hitler». Nel 1948 Hildebrand Gurlitt fu dichiarato innocente dal tribunale di denazificazione e divenne direttore della Società d’Arte di Düsseldorf. Nel 1954, due anni prima di morire in un incidente stradale, fu fotografato al fianco di personaggi del calibro di Theodor Heuss, primo presidente della Repubblica Federale Tedesca, e di Thomas Mann e sua moglie Katia.

Il quarto capitolo contiene un paragrafo dal titolo Dov’è la collezione Göring?, dedicato all’uomo chiave che permise al maresciallo del Reich di accumulare un’ingente quantità di opere: Bruno Lohse, morto a 95 anni a Monaco di Baviera il 19 marzo 2007. Per decenni ha continuato a vendere dipinti, nascondendosi dietro una fondazione anonima nel Liechtenstein. La storia prosegue, costellata di enigmi. Per risolverli, avverte Koldehoff alla fine del volume, saranno necessari altrettanti decenni.

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