Buttato dalla finestra come l’acqua sporca insieme al bambino a favore dell’economia di mercato e delle indiscutibili leggi del libero scambio, il socialismo prefigurato dal buon vecchio Karl Marx – di cui la maggior parte al giorno d’oggi ignorano persino chi fosse – potrebbe rientrare dalla porta se una puntata di Sex and the city verrà dedicata a quanto l’autorevole e non certo barricadero “New York Times” ha recentemente pubblicato col titolo Perchè sotto il Socialismo, il sesso per le donne era migliore.
L’articolo, scritto da Kristen R. Ghodsee, afferma inequivocabilmente che quando il Muro di Berlino era ancora in piedi, a letto, o dove capitava, si godeva molto di più di quanto non avvenga dopo che Il Capitale è stato mandato in soffitta, spiegando come oltre cortina per la maggior parte delle donne fosse un orgasmo senza tregua, mentre nei paesi Occidentali si faceva già i conti con tremendi mal di testa grazie ai quali evitare amplessi indesiderati e capaci solo di prolungate delusioni.
L’articolo non poggia su statistiche tali da essere considerato un trattatello scientifico, si affida a testimonianze raccolte che tuttavia, nella loro semplicità, rivelano una verità non priva di consistenza e ragionevolmente sostenibile.
Kristen R. Ghodsee fa infatti parlare alcune donne dell’ex Germania dell’Est. Tra queste la signora Durcheva, la quale sostiene di aver avuto una vita «più gratificante» prima del 1989, malgrado le difficoltà di dover crescere la figlia da sola, di quella che sta conducendo sua figlia, nata alla fine degli anni ’70.
«Non fa altro che lavorare e lavorare – dice – e quando arriva a casa, la sera, è troppo stanca per stare con suo marito. Ma non importa, perché tutti e due sono stanchi. Si siedono insieme davanti alla tv come zombie. Quando avevo la sua età, mi divertivo molto di più».
Le fa eco una trentenne di Jena, celebre città universitaria dell’ex Ddr, Daniela Gruber, da poco sposata, che si lamenta per l’inisistenza con cui la madre, nata e cresciuta sotto il regime comunista, – insiste affinché abbia un figlio.
«Lei non capisce quanto sia più dura in questo momento – sostiene Daniela Gruber –. Era più facile per le donne prima della caduta del muro. Avevano asili e asili nido, potevano andare in maternità e conservare il loro posto di lavoro. Io lavoro a contratto e non ho tempo per rimanere incinta».
L’opinione di Kristen R. Ghodsee è che questo divario generazionale tra figlie e madri tra cui scorre lo spartiacque del 1989, rafforzi l’idea di una vita più soddisfacente per le donne durante il periodo comunista. «Dovevano questa qualità della vita – afferma – al fatto che questi regimi consideravano l’emancipazione della donna determinante affinché la società del “socialismo scientifico”, come loro stessi si definivano, progredisse».
Ghodsee spiega che gli stati comunisti dell’Europa orientale, dopo la seconda guerra mondiale, avevano bisogno del lavoro delle donne per realizzare i loro programmi di industrializzazione, ma senza rinunciare ai fondamenti ideologici della parità tra uomini e donne sostenuta da August Babel e Friedrich Engels nel XIX secolo.
Di più: Vladimir Lenin e soprattutto Aleksandra Kollontai – strenua sostenitrice della necessità di svincolare l’amore da considerazioni di natura economica – sdoganarono la rivoluzione sessuale nei primi anni di vita dell’unione Sovietica.
Commettendo un errore storico che lo stesso “New York Times” si premura di precisare – ovvero sia che la Russia abbia esteso il suffragio alle donne nel 1917, tre anni prima degli Stati Uniti per merito dei Bolscevichi, quando invece esso fu introdotto nel luglio di quell’anno, quando i Bolscevichi non erano ancora al potere – l’articolo attribuisce tuttavia la liberalizzazione del divorzio a quel sistema socialista, il quale garantì anche «il diritto delle donne ad avere figli e si adoperò per condividere i lavori domestici, investendo in lavanderie e in mense pubbliche».
Kristen R. Ghodsee riporta anche l’informazione della crociata per la libertà delle musulmane portata avanti in Asia centrale nel 1920 dalle donne, la quale provocò la violenta reazione dei patriarchi locali contrari a vedere mogli, sorelle e figlie libere dai vincoli della tradizione.
Dieci anni dopo, nel 1930, Stalin revocò molti dei diritti acquisiti dalle donne mettendo fuorilegge l’aborto e promovendo il nucleo familiare, ma, dovendo fare i conti con l’acuta carenza di manodopera maschile seguita alla seconda guerra mondiale indusse i governi comunisti e perciò a un inequivocabile maggior potere femminile, non potè esimersi dal promuovere programmi di emancipazione del “gentil sesso”.
Katerina Lisjkova, docente dell’Univerità di Masaryk, nella Repubblica Ceca, spiega che «già dal 1952, sessuologi cecoslovacchi avevano avviato ricerche sull’orgasmo femminile e, nel 1961, tennero una conferenza dedicata esclusivamente all’argomento. Si erano concentrati sull’uguaglianza tra uomini e donne, ritenendola il “cuore” del piacere femminile. Alcuni addirittura sostenevano che gli uomini hanno bisogno di farsi carico dei lavori domestici e della cura dei figli, altrimenti non potrebbero avere una vita sessuale soddisfacente».
Insomma benché non avessero la possibilità di viaggiare nei Pesi occidentali, né di leggere la stampa libera, la maggior parte delle donne dell’Europa orientale poteva contare su alcuni benefits introdotti dal socialismo.
Professoressa associata di Antropologia all’Università di Varsavia, Agnieszka Koscianska riferisce alla collaboratrice del “NY Times”: «Prima del 1989 i sessuologi polacchi non limitavano il sesso all’esperienza fisica e calcavano la mano sull’importanza del contesto sociale e culturale per il piacere sessuale».
E aggiunge: «perfino la migliore delle stimolazioni, sostenevano , non può aiutare le donne a raggiungere il piacere, se sono stressate o oberate di lavoro, preoccupate per il futuro e la stabilità economica».
Vita privata e lavoro nei Paesi del Patto di Varsavia, dovevano avere un equilibrio, e questo portò una radicale revisioni delle leggi che riguardavano la famiglia, a partire dalla garanzia del loro lavoro e alla educazione delle donne, obiettivi per i quali meritava per i comunisti investire grandi risorse: così le commissioni statali femminili «chiesero di ri-educare i ragazzi a vedere nelle ragazze delle compagne, tentando al contempo di convincere i connazionali che il maschilismo era un retaggio del passato pre-socialista».
Disparità salariale tra generi, segregazione lavorativa per le donne e sistema patriarcale non furono sradicati e tuttavia «le donne comuniste avevano livelli di autosufficienza che le donne occidentali non avrebbero mai nemmeno immaginato».
Afferma Kristen R. Ghodsee: «Le donne del blocco orientale non avevano bisogno di sposarsi o fare sesso per il denaro».
Madri single, vedove o divorziate trovavano sostegno ai propri bisogni di base in Bulgaria, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia e Germania dell’Est e educazione sessuale e aborto erano garantiti in tutti i Pesi orientali, ad eccezione della Romania, dell’Albania e dell’Unione Sovietica di Stalin.
Non sono ovviamente mancate le critiche da parte del femminismo liberale occidentale rispetto al fatto che quelle innegabili realizzazione non fossero scaturite “top-down”, dal movimento di liberazione delle donne, ma “from above”, dall’alto, posizione alla quale la Ghodsee contesta un anacronistico tentativo di «imporre un set di valori universalisti».
E tuttavia del vero ci dev’essere, riconosce la stessa giornalista, se è vero che molti di quei progressi «nell’emancipazione delle donne nei Paesi dell’ex patto di Varsavia sono stati perduti o revocati» ed oggi si è costretti a misurarsi «per risolvere i problemi della vita lavorativa che i governi comunisti avevano risolto alle loro madri».
A fronte di libertà date, ci sono libertà tolte. Senza nulla togliere alla brutalità del regime spazzato via, si fa i conti con il fatto che oggi le cose sono «tanto più dure».
Così uguaglianza sessuale e piacere nel talamo sembrano solo un lontano ricordo.