Secondo appuntamento con lo scrupoloso e attento “Diario” tenuto da Beppe Ceretti nei giorni più caldi dell’emergenza con cui stiamo ancora facendo tutti i conti. Nell’augurare ai lettori di queste Cronache virali una piacevole lettura e lo stimolo a riflessioni approfondite su come il mondo sta cambiando dinanzi ai nostri occhi, li invitiamo a raccogliere l’idea di Anna Chiara Capialbi, di arricchire il nostro “archivio della memoria” con le esperienze di vita vissute nell’“era Coronavirus”: ricordi, testimonianze, riflessioni, parole, suoni, immagini suggestive che chiunque può inviare all’indirizzo: segreteria@tessere.org.
1° aprile
L’identità interiore
Un cielo grigio e un’aria da residuo d’inverno inaugurano l’aprile della pandemia.
Dai notiziari giungono notizie di picchi raggiunti e della diatriba su quanti metri è possibile percorrere all’aperto con i bimbi per evitare loro lo stress della forzata prigionia virale e per non indurre paure che in realtà sono le nostre. Con relativa ordinanza, s’intende.
Si avverte, sinistro, lo scricchiolio della prevalenza del cretino, prendendo a prestito il titolo di un dissacrante pamphlet di decenni fa, firmato da Fruttero e Lucentini.
Paure che non emergono quando lasciamo che quegli stessi bimbi si muovano, gattonando o camminando incerti, in direzione confusa, poiché confusa è la mente, dinnanzi a valanghe di giochi, dovendo scegliere tra troppi colori, forme, strutture parlanti, sonanti, semoventi. Le successioni seriali degli onomastici, dei Natali, dei compleanni. Feste che hanno perso il significato stesso della parola, tagliando le radici di storie di secoli, così vicine al clima dell’infanzia per sostituirle con un’orgia dell’eccesso che approda nel nulla. Si parla d’altro, si sollevano falsi problemi per nascondere le infinite paure di noi adulti. Che altro siamo se non burattinai delle nostre paure, che muovono dentro di sé i fili della meschinità, delle gelosie, degli egoismi? Quale male oscuro può derivare allora a un bimbo dalla paura che nasce da una situazione avversa, come quella attuale, se noi gli siamo accanto?
A proposito di paure vere e false e d’imbrogli planetari.
Sempre dai quotidiani di stamane leggo la seguente notizia: “Trump allarma i mercati, giù le borse del 4,5 per cento”.
Che il biondo platinato presidente degli Stati Uniti non sia tra le persone che giudico, non dico stimabili, ma solo accettabili, è noto; che ogni giorno rovesci sul mondo insensatezze e volgarità è parimenti risaputo, ma resto basito di fronte alla frase all’origine di tanto timore.
Ebbene, a proposito dell’emergenza pandemica, Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti aspettano “due settimane dure”. È come se dicessi oggi che domani è giovedì. Tanto è bastato perché gli ipersensibili mercati virassero in negativo.
Meglio, “Trump spaventa i mercati”. Ora, è vero che la mole e lo sguardo arcigno del presidente americano con le labbra prominenti e le guance infossate mettono paura, ma il pensiero che gli alligatori delle borse mondiali possano nutrire un sentimento tanto umano, qual è la paura, mi fa sorridere.
A ben vedere, il mercato è sempre stato così, anche quando il coronavirus non era l’incubo quotidiano. Mi hanno sempre insegnato che la responsabilità è prima di tutto personale o di gruppo, ma le borse rappresentano da sempre l’eccezione, come fossero entità impersonali e con ciò al riparo da ogni critica o sanzione.
Bellezza mia, è il mercato che parla, e tu non puoi farci niente. E allora non resta, a noi comuni mortali che non frequentiamo i corridoi delle piazze d’affari di ogni latitudine, che rassegnarsi e attendere che la notte passi.
In che modo? Per me, per noi, gente d’occidente, è quasi impossibile tendere all’estrema saggezza degli orientali. Oggi li vediamo, con malcelata invidia, percorrere ordinati, le vie di Wuhan, indossando le mascherine d’ordinanza, ubbidienti, anche se il tempo del virus pare essere per loro quasi alle spalle. Sicuro, pensiamo anche a quella commistione con il mondo animale che sarebbe meglio rispettare. Ma ora li vediamo senza paura, ecco che ritorna la parola chiave d’oggi, la paura. Sereni, quasi impassibili nel fragore dei mondi che crollano.
Di quell’antichissima saggezza potremmo cogliere almeno un pensiero che dice pressappoco così: riguardando il passato, ci accorgiamo che gli avvenimenti della nostra vita non erano poi così importanti come abbiamo pensato in quel momento. Ciò che conta e che resta, come sintesi di un’esistenza, è quello che noi siamo diventati nel tempo attraverso di essi.
È proprio su questo fragile frammento che noi possiamo costruire, con estremo rigore e con parimenti libera fantasia, l’edificio della nostra personalità. Un’identità tutta interiore che non ha bisogno di visibilità esteriore né di conferme nei consensi e nei successi. E che pertanto non conosce paura di venire sfuocata o cancellata.
2 aprile
La guerra sì che è una brutta bestia
Per un giorno guardiamoci nello specchio, visto che le porte di casa sono tutte aperte, visto che dai tinelli ai bagni, dalle camere da letto alle sale, non manca la liscia superficie che ci riflette, con la barba più lunga o la crescita del bianco tra i capelli; con quella maglietta con la scritta in oro che non indosseresti mai per uscire di casa, neppure a pagamento; con il maglione che reclama sui gomiti le toppe, ma anche le toppe non trovi più perché han fatto il loro tempo; con le calze di lana spessa che non porti più manco in montagna perché ora ci sono quelle in goretex che potresti guadare anche un torrente senza scarpe o galosce.
Scopriamo così un universo popolato di grandi progressi, vere necessità, non molte, ma essenziali, autentiche emergenze e di un lungo elenco di falsi bisogni, trasformati in necessità.
La telefonata con un caro amico mi aiuta a rammentare al proposito una vecchia canzone di Dalla e De Gregori. S’intitola Cosa Sarà. In una delle ultime strofe dal bel ritmo carico d’ironia i due cantano:
“Cosa sarà
che ti spinge a comprare
di tutto anche
se è di niente
che hai bisogno”
Forse quello sguardo entro la superficie riflettente ci aiuterà a osservarci senza filtri, a riflettere sulle nostre responsabilità individuali, a cogliere l’umana debolezza che ci assale in questi frangenti estremi. A fare prima di tutto i conti con noi stessi. Per un istante. Poi torneremo a stramaledire il tempo e il governo, come cantava Fabrizio De André nella “Città Vecchia” (in verità cantava anche le donne, ma questa è un’altra storia).
C’è voluto e forse non basterà, un intervento del presidente del consiglio per dirimere la querelle, rammentata ieri in queste note, dell’uscita con bimbo, al singolare e non con bimbi, al plurale; c’è voluto un chiarimento del suddetto presidente per spiegare ad alcune, irresponsabili società di calcio e ai loro padri-padroni che non si può tornare agli allenamenti come se nulla fosse accaduto. Ma nessun presidente può sostituirsi all’irresponsabilità mascherata da diritto alla libertà, all’incoscienza che fa dell’altro da me un fastidio che si oppone alla mia presunta libertà.
Invertendo i termini del problema, qualche presidente di Stato ci prova. È il caso, ricordato stamane dai quotidiani, di Rodrigo Duterte, che nelle Filippine ordina di sparare a chi viola la stretta imposta dal virus; o dell’inquietante omologo ungherese Orban, al quale il parlamento ha attribuito pieni e totali poteri; o, ancora, del brasiliano Bolsonaro che nega la pandemia a giorni alterni.
Di queste scorciatoie, l’uso di emergenze per negare la democrazia, sono piene le fosse della storia, eppure ritornano con ciclica puntualità, mentre svaniscono con velocità i faticosi esercizi della democrazia. Si ripresenta per altre vie il tema del principio di responsabilità che riguarda sia il singolo sia la collettività. Un principio che non agisce solo in quanto dettato da leggi, da codici che dettano le mie norme di comportamento, pure sacrosanti.
Ma non basta.
Non basta se non si comprende che la responsabilità è un modo per essere legati agli altri. E dare risposte a noi stessi. La responsabilità non è dunque solo qualcosa che si ricava da leggi, da codici scritti di comportamento, ma fa parte soprattutto della nostra fisiologia. A meno che non si rinunci a vivere in mezzo al prossimo.
Ripenso a quel bambino tipo chiamato in causa dalla circolare ministeriale, mano nella mano, in strada o al parco, con mamma o papà. Ci mancherebbe che non possa godere un po’ d’aria pulita, di quei passi tanto importanti nel suo processo di crescita: chi potrebbe negare?
Tuttavia questo è uno di quei momenti che più di altri determina la nascita in un essere umano del principio di responsabilità. Non è come indicare uno sport da seguire, gli amici da frequentare o gli hobby da preferire “per il suo bene”, pratica certo deteriore quanto invasiva.
È il momento della crescita, com’è capitato in epoche assai più buie del passato, dalle quali si è usciti con generazioni più forti. Ce lo hanno insegnato le nostre madri e i nostri padri, in ben altre, tragiche circostanze. Ora è un pianto per un piacere negato; un capriccio forse, ma domani sarà il ricordo di quel 2020 della loro fanciullezza quando un virus chiamato…
Questa sarà pure una guerra mondiale, ma le guerre sono ben altra cosa e valgono una rinuncia, lieve, ripagata da una lezione di vita che può restare, preziosa, nel futuro.
Mi viene in mente, chissà con quale nesso, Torneranno i prati, lo splendido film sulla vita nelle trincee della prima guerra mondiale, girato da Ermanno Olmi, poco prima della sua morte. È a Toni il matto che il regista affida la frase che chiude il film: “La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai”.
Le guerre, appunto, quelle il coronavirus se lo mangiano.
3 aprile
L’ordine di Anna
A proposito di guerra. Ieri ho telefonato a un caro amico, un giornalista grafico che con me presta la sua opera di volontario in Vidas. È un elegante signore alla soglia dei novant’anni e ne dimostra dieci di meno, a dir poco. Con lui riflettevo sul fatto di far parte, oggi a quasi 72 anni, di una generazione d’italiani che mai hanno conosciuto il significato profondo della guerra, con le privazioni e i rischi immanenti, e che oggi per la prima volta fanno i conti con un evento collettivo che impone restrizioni che alla lunga paiono insopportabili.
E tu che ricordi? Gli ho chiesto. Con la schietta auto ironia che mai l’abbandona, mi ha risposto d’essere stato in quei tempi un ragazzo fortunato. Sfollato in un piccolo centro del Pavese, rammenta d’essere stato affascinato da un rodomonte locale, un gerarchetto fascista che faceva il bello e il cattivo tempo tra i ragazzi del paese: “Nei giorni caldi del ’45 lo persi di vista. Lo ritrovai alla fine di aprile, riverso in piazza, fucilato da non so quali mani. Lo fissai per qualche istante, ma mentirei se ti dicessi d’aver provato rabbia o pietà. Avrà avuto cinque o sei anni forse più di me, non so che cosa diavolo avesse combinato, lo posso immaginare. Con noi adolescenti faceva lo smargiasso e ora era lì, riverso a terra. Corsi via, in quella confusione non c’era spazio per altro”.
Quell’aneddoto, espresso con tanta sincerità, mi conduce a una banale considerazione. Non esiste la guerra, ma le guerre, non una calamità, ma le calamità: enormi privazioni e pericoli collettivi che sono frutto dei singoli, come un enorme puzzle: le tessere sono particolari, sfumature, esili differenze, comunque essenziali. È solo alla fine che si rivelano per ciò che rappresentano nell’insieme.
In una delle pazze corse pomeridiane entro casa e dopo aver letto la geremiade di lamenti che nascono dalle ristrettezze imposte dal coronavirus, di adulti e bimbi stressati che scalpitano, delle lamentele di ogni tipo, mia moglie Laura ha commentato, con la consueta capacità di sintesi estrema che le è propria, che non sarebbe male una rilettura collettiva del Diario di Anna Frank. Perciò sono andato a recuperarlo nell’elegante versione dell’Unità-Einaudi, in regalo ai lettori del quotidiano nel giugno del 1992, con la prefazione di Natalia Ginzburg.
Il diario ha inizio nel giugno del 1942, sino alla scoperta dell’alloggio segreto del 4 agosto del 1944.
Ciò che ora interessa sottolineare, senza entrare nel merito dello straordinario e intenso diario più conosciuto al mondo, è lo spazio ristretto, claustrofobico entro il quale sono vissute per oltre due anni ad Amsterdam non una, ma due famiglie, per un istante dimenticando, per quanto impossibile, l’enorme baratro che separa le ragioni di tanto e tale forzato isolamento di allora rispetto a quello d’oggi. Scale, scalette, stanze rese buie dai fitti tappeti e mobili massicci d’ufficio mischiati alle masserizie. Qui, nei locali solaio sovrastanti l’ufficio di Otto Frank, trovano alloggio non solo i Frank, ma la famiglia Van Daan e il dentista Dussel. Uno spazio claustrofobico descritto da Anna sin nei minimi particolari, che si collega all’esterno con uno scaffale girevole conosciuto solo dagli amici. Uno dei quali tradirà.
In quelle pagine non c’è solo l’intelligenza, penetrante e precoce, sottolinea Natalia Ginzburg, di Anna: entro l’adattamento alla miseria e al pericolo, c’è anche l’attaccamento di un’adolescente alle cose futili.
C’è l’umanissima insofferenza: per la voracità del signor Van Daan che si serve per primo e si serve con abbondanza mentre parla e mostra di sapere tutto di tutto; c’è la signora Van Daan, istigatrice d’ogni lite e che semina zizzania; c’è il signor Dussel, che non dice mai no quando si offre il cibo, che ha nel gabinetto il suo locale preferito, impaziente, saltellando tra una gamba e l’altra con i pantaloni di solito tirati su sino al petto tra le mani, la giacca rossa, le pantofole nere e gli occhiali di corno.
Il paragone sarà pure ingeneroso, sbagliato, fin anche offensivo e blasfemo, nel ricordo delle vittime innocenti dell’Olocausto. Tutto è relativo e ognuno di noi è figlio del suo tempo. Anche questa pandemia semina vittime innocenti. Ma, per quanto esecrabile, l’incuria dell’uomo non può essere paragonata alla ferocia e alla disumanità che hanno generato la tragedia del secolo scorso.
Tale ricordo serve solo a dire che sfido chiunque, noi sani chiusi nelle nostre case confortevoli, a chiamare sofferenza ciò che stiamo vivendo. E a sopportare il disagio, magari ricavandone qualche lezione sui concetti di utile e inutile.
Anna, poco prima che i tedeschi facciano irruzione nell’alloggio segreto, scrive nelle ultime pagine: “Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace, la serenità”. Da notare l’uso della parola “ordine”, uno dei pretesi punti di forza degli oppressori e che Anna rivendica a sé nel significato naturale di successione di eventi naturali e umani. L’opposto della barbarie.
4 aprile
È la stampa bellezza mia
“Grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente”. Chissà se Mao Tse Tung abbia mai pronunciato la citatissima frase, ma vien da ripeterla dopo aver sfogliato un paio di quotidiani e aver consultato alcuni siti, i più seri ovviamente, a mio sindacabile giudizio.
Stamane, in perfetta controtendenza con un cielo che annuncia primavera e con temperature in costante risalita, il “corona barometro” predice tempesta.
Così, dopo aver adempiuto al rito della prima colazione, con le precauzioni imposte ed essermi lavato almeno tre volte le mani, ognuna nel tempo di cantare “Tanti auguri a te”, come suggerisce l’interprete di un film di Woody Allen, apprendo che la minaccia potenziale viene da mia moglie e viceversa. Anche se da trenta giorni usciamo solo per una rapida escursione all’edicola e al vicino panificio. “In casa usate mascherine e guanti” è il titolo che riporta le dichiarazioni di un noto virologo: “Negli ospedali arrivano gruppi familiari a grappoli, più protetti i single”. Per fortuna Laura dorme e non nota il mio sguardo minaccioso: siamo due monatti, altro che diligenti esecutori d’indicazioni sanitarie.
Quanto alla protezione, per i guanti non c’è problema. È sulle mascherine che non siamo preparati; quelle che abbiamo in casa, spiegano taluni, servono a poco o nulla; quelle che davvero proteggono sono come l’araba fenice. E la distanza? Davvero siamo protetti se rispettiamo la distanza da persona a persona, come dice il capo della protezione civile Borrelli, con quel suo linguaggio scarno e l’aria da buon padre di famiglia che non può raccontarti fole?
Ecco allora i sospetti, avanzati dal virologo Andrea Crisanti, che le case, ora avamposto della nostra resistenza, si trasformino in tanti piccoli focolai di contagio. Solo tamponi e test sierologici su larga scala ci salveranno.
Da una testata all’altra: “Non ci sono prove rilevanti che Covid19 si possa contrarre da aria contaminata”. E la curva, la curva, che solo un mese fa era per noi il cambio di direzione verso la metropolitana lilla, (appena uscito, curva a destra) o il tracciato ondeggiante verso la casa tra i monti? Ora è una speranza, un monito, anche se oggi l’ossimoro “curva piatta” porta pessime notizie. Il contagio rallenta, ma non dà segnali d’inversione.
Ci consola, in parte, la virologa Ilaria Capua, quella che parla dagli Stati Uniti, quasi sempre dicendo parole diverse da quelle effettivamente pronunciate nel medesimo istante, per via del collegamento. Coronavirus non scomparirà con l’estate, ma ne usciremo e il suo sorriso ci procura qualche istante di sollievo.
Anche dal fronte politico non vengono buone nuove: litigi, ipotesi di prossimi futuri rimpasti e una possibile crisi di governo. Un motivo di speranza, prego ignorare l’infame gioco di parole, viene dall’omonimo ministro della sanità che non fa proclami, non emette sentenze, parla con toni misurati, come sempre dall’inizio di questo sfracello: “C’è ancora troppa gente in giro. Gli atteggiamenti sbagliati o immaginare che la battaglia sia già vinta rischiano di compromettere i tanti sacrifici fatti finora. Non bastano i decreti, questa battaglia si vince esclusivamente con il contributo di ogni cittadino”.
Saggio consiglio, anche se molti opinionisti delle maggiori testate ci fanno sapere che “abbiamo una classe politica scadente, fatta di persone non all’altezza e prive di preparazione”. Affermazione in larga misura condivisibile. Si potrebbe o dovrebbe tuttavia aggiungere che il coronavirus è un ostacolo senza precedenti, che non tutto ciò che s’è fatto sinora è da respingere in toto, che la drammatica circostanza è propizia per un radicale cambiamento di gestione della cosa pubblica.
Pura utopia? Sì, se si ritiene che la cosiddetta classe politica sia altro da noi e non il frutto del pensiero fragile del nostro Paese. L’idea di una generazione di politici imbelle, contrapposta a un Paese sano, pare assai schematica. Se le stime prudenti valutano in 100 miliardi di euro l’evasione fiscale nel nostro Paese, qualche concorso di colpa deve pur esserci, anche da parte di chi oggi fa la voce grossa. Ma mi rendo conto che si tratta di obiezioni impopolari, quando i toni si fanno perentori e non ammettono repliche.
È così che comunque il mio barometro dell’umore tende progressivamente al brutto, in netta controtendenza con le evidenze atmosferiche esterne. Per fortuna uno strano effetto, tra l’anestetico e l’acolico, lo procura un’intervista a Massimo Cacciari che manda a quel paese chi amministra, chi si oppone, chi canta, chi suona, chi fa retorica con l’inno di Mameli, chi fa appelli a stare tutti a casa, chi propina pappe melense dai davanzali, chi mette in dubbio la sua criniera corvina (le mando una sforbiciata di capelli che mi taglio da solo); chi lo intervista, e lo obbliga a raccontare la sua alimentazione quotidiana a base di pasta e uova, (ma come, pasta e uova da un mese?), ma sì, anche la verdura cotta; che faccio?, gioco a calciobalilla; e la morte? mi è indifferente; cosa leggo? una biografia di Tommaso Campanella: ma scusi lei perché è venuto a casa mia, se ne vada, che ho altro da fare!
Nella mia settuagenaria mente, soprattutto i siti mi procurano un effetto ipnotico, recando nelle affollatissime homepage una quantità d’informazioni o supposte tali, da mandarmi in tilt.
Qui davvero sarebbe opportuna una distanza. Invece trovo in uno stesso foglio, pardon homepage, a stretto contatto, il politico, il virologo, l’economista, la vestizione di un infermiere sulle note di Vasco, le misure fiscali, i litigi tra società e calciatori, le previsioni su futuri possibili contagi, come se non bastasse quello attuale; fino a Bernie Ecclestone, il truce patron della Formula uno che fa figli a 89 anni e ha nostalgia del nazismo e a Maurizio Corona (nomen omen) che convoca il suo personal trainer a casa.
Ma non so fare a meno e so già che domani; peggio, oggi pomeriggio, rinnoverò l’antico vizio. Magari aprendo l’ombrello, perché una tale cascata di notizie o supposte tali non mi piombi sulla testa tutta d’un colpo. È la stampa bellezza e non puoi farci niente. Ha ragione Humphrey Bogart: se non ci fosse, allora sì che il virus non avrebbe avversari.
Parola di un uomo di parte.
5 aprile
Non ci resta che non attendere
Da tempo dissemino la casa di calendari e a ognuno assegno un compito specifico, insieme concreto e immaginario, nella scansione del tempo. Quello in cucina, da anni ripetuto dono di un caro amico, rammenta le mie radici e nasce in un’antica cartolibreria di Brescia. Il suo compito è di servizio e raccoglie le scadenze di pagamenti, gli appuntamenti a teatro, gli inviti. Insostituibile.
Gli altri, in ordine sparso, ricordano compleanni, onomastici e manovrano le leve del ricordo. D’obbligo quello del buen retiro di Massa Marittima. E poi i luoghi raggiunti in viaggi.
Quest’anno ci accompagnano le splendide immagini del Gran Canyon, l’alba che lo tinge di rosso ad aprile, l’immensa distesa di sale della Death Valley. E il pensiero corre al vento impetuoso che soffia laggiù, dopo aver preso una folle rincorsa dalle Montagne Rocciose, e che ci ha piegati a terra. Solo sei mesi fa. Mai provato, in pochi istanti, un tale senso di smarrimento, di precarietà e insieme di felicità.
Gli spazi di ieri, interminati, come dice il poeta. E gli spazi d’oggi, di casa, terminati assai. Nessun lamento, i più stanno peggio. Ci consentono la ginnastica quotidiana. Spazio e tempo, lo impariamo in questi giorni come mai nella nostra vita, sono prima di tutto condizioni e costruzioni mentali. Lo spiegano grandi scrittori, sublimi poeti e noi comuni mortali lo percepiamo solo nella forzata reclusione.
Non ci resta che l’attesa. Un tempo sospeso tra presente e futuro che pretendiamo comunque di colmare con le nostre emozioni, i nostri affetti, la speranza, l’inquietudine.
Un ritorno alla normalità? Non prima di giugno, luglio, dicono gli esperti. Intanto le nostre escursioni quotidiane di necessità sono possibili solo con le mascherine. Elicotteri in volo a caccia dei disobbedienti, ammonisce un severo titolo del Corriere. Vuoi vedere che siamo i replicanti in fuga inseguiti dal nostro Blade Runner?
No, ho deciso che oggi non cadrò nella trappola dell’overdose di notizie, previsioni. Meglio prendersi una pausa, non ci resta che attendere. L’attesa? Quanto e di che cosa? Che passi la nottata del coronavirus?
Ho cercato invano tra gli appunti legati al lavoro con Vidas, ma sono sicuro di aver sentito in uno dei seminari raccontare la storia di un saggio africano (essere saggi in tanta sofferenza è dono sublime) che si rivolge a noi, abitanti dei ricchi continenti e dice: “Avete uno strano modo di intendere il senso dell’attesa. Quando un vecchio da voi, in Europa o nelle Americhe del Nord, guarda al futuro dice: che poco tempo mi resta da vivere. Quando uno di noi, un africano, guarda al termine della propria vita, si volta indietro ed esclama: quanto ho vissuto”.
Non essendo africano, tantomeno saggio, non mi resta che fare ricorso a un’osservazione lapalissiana: il tempo, il tanto e il poco, l’attesa, sono un problema di prospettiva. Perché l’attesa a sua volta si carica di altri sentimenti, la speranza e la paura, in perenne conflitto.
Quotidiani, tv, internet ci portano ogni giorno appresso alla morte con un alto indice di reale teatralità (come dimenticare i camion carichi di bare di pochi giorni or sono?), ma nel contempo ci raccontano dell’impegno solidale, della creatività che prende forma in questi momenti difficili.
L’attesa non è dunque soltanto un nastro, più o meno lungo, sotteso tra un tempo e l’altro della nostra vita. Scrivendo queste note anch’io, come voleva Antonio Gramsci, divento l’intellettuale di me stesso, invento la mia vita, trasformandomi nel narratore di me medesimo, con il gesto suggerito dalla mia unica creatività possibile. Non importa quanto, come e con quali abilità. Ciò che conta è tentare e non soggiacere all’attesa che, non colmata, è solo un itinerario prefabbricato e senza fine.
Il coronavirus può essere una grande opportunità? Quante volte, in modo implicito o esplicito, ce lo siamo chiesti in questo tempo sospeso. Non ho una risposta. Se volgo lo sguardo verso il passato e l’incerto presente ho molti dubbi; se poi mi giro e osservo mia nipote Sofia, che attende con pazienza di poter continuare il ballo della sua giovinezza, intanto volteggiando entro le mura di casa, mi dico sì. A condizione che si lascino perdere itinerari prefabbricati e si compia un gesto di forte creatività. Un compito difficile, senza uguali rispetto anche a un recente passato.
Molti anni fa, ospite di una stazione televisiva in Alexander Platz, ho avuto la fortuna di vedere un cortometraggio girato a Berlino, credo l’8 o il 9 maggio 1945, subito dopo la fine della guerra. L’aereo vola a bassa quota sull’impressionante distruzione bellica. Mostra uomini e donne che, in fila sugli enormi cumuli, provvedono allo sgombero delle macerie. Non c’è commento, solo quest’umanità in ordinate file parallele che s’inerpica sulla montagna che cela le loro esistenze dilaniate, distrutte. Stanno recuperando brandelli di vita. Miseri resti, ma tesoro del presente. Anche se pare impossibile. Lo fanno. A migliaia. In silenzio. Si sente solo il rumore dell’aereo. Ogni voce sarebbe superflua, stonata.
Gesti forti, veri, coraggiosi, il bene più prezioso che non trovi nel quotidiano assalto ai supermercati: se non ora, quando?
6 aprile
Ginnastica dolce
Ventotto anni fa la redazione del mio giornale, «L’Unità», si riempiva ogni tardo pomeriggio di uno stuolo di cronisti milanesi di numerose testate. A quel tempo ero appena tornato dalla lunga esperienza nella capo redazione romana per dirigere quella milanese.
Un rito quotidiano per fare il punto sulla vicenda di corruzione più famosa della storia recente: Mani Pulite. Anche se ancora non si chiamava così. I cronisti avevano concordemente deciso uno straordinario atto di copertura collettiva delle fonti, almeno quelle ufficiali, tanto numerose. Poi, come vuole logica e professione, ognuno per sé.
La sede di viale Fulvio Testi era uno dei punti d’incontro per incrociare le informazioni.
L’ingegnere socialista Mario Chiesa era stato arrestato per concussione il 17 febbraio mentre incassava una tangente di sette milioni per favorire l’appalto delle pulizie del Pio Albergo Trivulzio, di cui era presidente. Sette milioni ovvero la metà del 10% del valore dell’appalto di 140 milioni è ciò che versò in contanti l’imprenditore brianzolo Luca Magni, portando con sé un registratore. Più che la cifra, certo non sconvolgente, fu il sistema di pianificata estorsione che venne alla luce. Il Psi e il suo leader Bettino Craxi furono travolti, ma l’inchiesta trascinò la Dc e scosse anche il Pci.
Ricordo quell’episodio perché dimostra che corsi e ricorsi riempiono le cronache prima di farsi storia. La Baggina, ovvero il Pio Albergo Trivulzio, una residenza per anziani nata oltre 110 anni fa, deve il nome alla sua topografia. Essendo sulla strada che da via Forze Armate conduce al quartiere di Baggio, così è stata chiamata e così continuano a chiamarla i milanesi: Baggina, anzi “La Baggina”, rigorosamente con l’articolo.
Oggi ritorna agli onori delle cronache per i dubbi sollevati su almeno una settantina di decessi che non sarebbero stati correttamente denunciati. Un sospetto che coinvolge, in altri territori, non poche strutture di riposo. Al di là dei fatti da chiarire, resta il tarlo di questa moderna pestilenza, che si accanisce con particolare vigore sugli anziani, colpendo le loro deboli difese. C’è chi riflette sulla scomparsa della generazione dei “ragazzini”, intendendo con ciò coloro che negli ultimi anni della seconda guerra mondiale erano giovanissimi, bimbi che il destino aveva salvato e che erano stati spettatori imberbi di tanti sconvolgimenti. Ne muoiono più del doppio rispetto all’inverno scorso. È che spesso se ne vanno senza pietà, soli, lasciando il più delle volte esili tracce.
Così il fin qui ignoto coronavirus mi riporta entro una dimensione che è insieme dolcezza d’amore per la vita e ansia d’attesa per ciò che accadrà domani, non domani l’altro, una nostalgia che è presagio d’infinito e insieme consapevolezza della finitezza della nostra esperienza. Credo di aver finalmente intuito, con oltre cinquant’anni di ritardo, che cosa ci voleva far capire il prof di filosofia del liceo quando, spiegando il romanticismo tedesco e beandosi della parola difficile da pronunciare, strascicava “seensucht”, nostalgia in tedesco, ma insieme presagio d’infinito nella finitezza della nostra vita.
Quanto abbiamo giocato con quel vocabolo tra amici, inserendolo nelle nostre schermaglie verbali giovanili. Era il nostro tutto e nulla, il modo di farsi burla, diciamo pure prendere per i fondelli la vita.
È che, per quanto si faccia in questi giorni, per quanto teniamo il nostro corpo ben tonico con le corse da pazzi entro le mura di casa sfiorando, come trottole impazzite, cento volte armadi, cassettoni, divani, tavoli, non ci si può allenare a vivere la vecchiaia. Per la buona ragione che essa è un dato anagrafico, poi ognuno per sé. Ciascuno ha le proprie sentinelle, le proprie sirene d’allarme che non sono soltanto la capacità di percepire in profondità i propri malanni fisici, prima di ogni evidenza medica e scientifica. Ciò semmai riguarda il corpo. I sensori veri stanno tuttavia nella nostra mente, per esempio con l’indifferenza o la falsa saggezza di chi pensa che le invenzioni della nostra vita appartengano ormai solo al passato. Così si sostituisce davvero la passione e si sopravvive in un grigiore che tutto amalgama.
Qui sta la differenza, la mia personale differenza, sia che si abbia l’occhio rivolto verso un dio, sia che si guardi soltanto dinnanzi a sé; sia tra chi ha la mente oltre e crede che continuerà l’avventura della vita e chi consegna la sua parabola esistenziale al solo terrestre presente.
Resta la difficoltà a prendere distanza, ad allontanare il naso dalle cose e dai pubblici elogi, a esercitare ironia sull’efficienza della propria figura. Écome quando in questi giorni siamo impegnati negli esercizi della ginnastica dolce. Ce la mettiamo tutta, ma facciamo davvero fatica a capire quanto sia vicino il pavimento e perché mai non riusciamo a toccarlo, come fa in una perfetta torsione la maestra che si muove sullo schermo del computer.
7 aprile
Le api nelle nostre anime
Te lo ripeto mia cara nipote, non c’è nulla di naturale nella moria delle api. L’evoluzione naturale non assomiglia a quella che si è sviluppata per millenni. La mano dell’uomo l’ha mutata, in maniera rilevante. Che fare? Sarà il ciclopico impegno della tua generazione e di quelle che seguiranno. Con ciò non mi schiero tra coloro che negano il cosiddetto progresso.
Per farti un solo esempio, io sono vivo, come milioni d’altri esseri umani, perché la medicina ha fatto enormi passi in avanti. Lo studio dei geni contenuti in una cellula o in un organismo ha consentito in pochi lustri progressi un tempo ritenuti possibili soltanto in secoli. Se non ci fossero, io stesso sarei probabilmente morto vent’anni fa. Dico solo che ci sono innesti tollerabili e non tollerabili. Dipende da come li usi.
Chi può negare quanto sia positivo potersi muovere da un posto all’altro in tempi rapidissimi? Ciò significa forse che di per sé la velocità sia un bene? È un bene se messa in relazione con gli scopi che la trasformano in bene. Altrimenti è solo una folle corsa verso l’ignoto. Chiedi a tua madre, che con i suoi studi ha strumenti assai più validi dell’osservazione empirica di un vecchio e illetterato cronista. Io sono sempre più convinto dell’ora o mai più: o si afferma una cultura entro la quale ragione ed etica possano coesistere o si rischia una sorta di genocidio per rapina entro la nostra civiltà.
No, non sono sotto l’effetto ipnotico di questi giorni sospesi, anche se non nego l’influenza che hanno sulla psiche. È che mi guardo in giro e vedo un Paese incerto entro un’Europa fragile e disunita nel momento del bisogno; un’America di scarsa credibilità morale e ferita da disuguaglianze che si moltiplicano anziché ridursi; un mondo arabo-musulmano in rotta completa, mentre Cina, Russia e la misteriosa (per me) India si impongono, ma con logiche del “vinca il più forte” che mi fanno paura.
E allora, povere donne e poveri uomini, che devono fare? Mi chiederai. In tanto pessimismo ho anche la sensazione, per i giovani che incontro e frequento, che esista una forma etica più diffusa rispetto al recente passato. Io spero che queste nuove generazioni, come la tua, sappiano contrastare il negativo. Non è facile perché tale contrasto deve nascere da fonti molto diverse e soprattutto da una cultura dove ragione ed etica vanno a braccetto.
Ti par poco? Per dirla con un nostro consolidato gioco verbale, è come credere che le api possano ritornare nelle nostre anime.
Tuttavia, perché no? In passati anche lontani, grandi eventi hanno generato nuovi itinerari di grande civiltà, hanno scosso nel profondo la nostra stessa identità, che pareva smarrita sino a un istante prima. Come una migrazione di massa che ci riguardasse tutti, nessuno escluso. Siamo tutti migranti. A ben vedere, se uno non è stupido è migrante, sennò è un fotogramma fermo, morto; più che morto, inutile che non sa raccontare e non ha coscienza di sé.
Non so bene, cara Sofia, perché oggi mi sia avvitato in un simile pensiero del tutto scoordinato. Forse perché grande è la confusione in queste ore incerte. I notiziari sono come una matassa aggrovigliata dove tutto in apparenza si amalgama e s’irretisce, dove il faticoso esercizio dell’emergenza misura le parole, ma nulla può quando si cimenta con la stupidità di chi ciancia di fede, facendo leva sul buon dio, e celebra messe distribuendo particole a mani nude. O quando il semplice buonsenso s’avvita nel litigio tra sindaci cialtroni sulla consegna a casa della pastiera napoletana. So che è tempo di mettere in ordine i pensieri, quelli veri. Un paio te li ho suggeriti in queste note. Agli altri penserai tu, nei modi e nei tempi che ti parranno.
Queste ore, che scorrono interminabili, le ricorderai per tutta la vita e racconterai a chi non c’era: “Nel lontano 2020, anno bisestile, accadde che…”. E alla fine, spero, dirai: “Poi ci furono tempi di crescita e sviluppo”. Lo dirai, con il senno raccolto oggi, sapendo che la crescita è il dato quantitativo che ogni volta viene espresso in numeri, ma lo sviluppo è ciò che si costruisce, si crea, ed è molto più complesso e impegnativo.
8 aprile
Il virus è mio e lo gestisco io
Mentre i governi d’Europa cercano, per ora vanamente, di trovare un’intesa sui cosiddetti “coronabond”, alla lettera un misto di regalità che s‘incrocia con il più famoso 007, non a caso agente di sua maestà, non resta che attendere, guardando il cielo inondato di sole di questi giorni di inizio primavera e la luna, mai così piena e bella come in queste serate: “Guardate che luna stasera, quando tornate alle vostre case, date una carezza ai vostri bambini e dite…”. Che straordinario messaggio quello di Giovanni XXIII nell’ottobre di quasi sessant’anni fa! Non c’è bisogno d’essere credenti per capirne il significato.
Mi piacerebbe essere lassù per vedere l’effetto che fa, osservare una moltitudine smisurata di esseri umani alle prese con uno strano e crudele entità visibile al solo microscopio e capace di tanta efferatezza.
In pochi mesi ha distrutto le cosiddette certezze che ci eravamo costruiti in una vita non breve. Trovato rimedio all’Aids, le malattie del presente sembravano non essere più quelle epidemico-contagiose, ma quelle cardiovascolari, tumorali, neurodegenerative.
In realtà pareva a noi, comuni mortali. Qualche giorno addietro ho ricordato, con il sorriso, la strana sorte di una ricercatrice italiana, Ilaria Capua, che vive negli Stati uniti, e che viene spesso interpellata in quanto esperta virologa. Ha l’aria di una che non fa molte promesse, ma il sorriso di chi ci dice che ce la faremo. Dato che la mia memoria balbetta, c’è voluto tempo per associarla a Vidas. Giusto sette anni fa, 2013, la ricercatrice è stata ospite del comitato scientifico dell’associazione e ha partecipato in qualità di relatrice ai seminari promossi dal comitato tecnico-scientifico. Nell’intervento che svolse, narrò la sua storia e il suo approdo nel mondo dei virus che si trasmettono dagli animali all’uomo. Raccontò che cosa fa il virus dell’aviaria e com’è in grado di uccidere la totalità degli animali che infetta solo in un paio di giorni. Un’anomalia e insieme una carica straordinaria.
Tra il 2004 e il 2005 l’aviaria occupò le prime pagine dei giornali: “Il motivo per cui aveva tanto preoccupato – disse – è che questo virus influenzale iniziò a infettare e uccidere gli esseri umani, con un tasso di mortalità elevatissimo. Il virus fece un’altra cosa straordinaria: colpì tre continenti! Non era mai successo nella storia che un’infezione si diffondesse in questo modo”.
“In una situazione del genere ciò che ci veniva detto dai ricercatori più affermati – sottolineò – erano frasi che, decodificate, suonavano così: le mie informazioni sono le mie, io a te non vengo a raccontare com’è il mio virus che ho isolato in Cina, che può essere il padre del virus che tu hai in Italia”.
“Ecco allora lo scontro – proseguì – È impossibile condividere con la comunità scientifica le informazioni genetiche sui patogeni emergenti perché i ricercatori sono troppo impegnati a nascondersi i risultati nel timore di essere derubati. Quindi se io ti faccio conoscere la sequenza del mio virus, tu la prendi e la pubblichi per conto tuo senza riconoscere nulla a me. Situazione inaccettabile, in particolare quando il virus dell’aviaria dall’Asia orientale, attraverso l’Asia centrale, è arrivato in Europa, dove ha provocato pochi problemi. Poi si è trasferito in Africa dove, al contrario, i problemi sono stati enormi, in presenza anche di un’epidemia diffusa di Hiv in molti paesi sub sahariani. Oltretutto in Africa i bimbi giocano con gli animali, se li portano a casa. In Egitto allevano polli sui tetti e sui balconi, c’è un rapporto totalmente diverso tra uomo e animale; in questo contesto la possibilità di contagio e che questo virus infettasse le persone aumentava di giorno in giorno”.
“Noi abbiamo sequenziato il virus, abbiamo rilevato l’impronta e l’Oms ci ha detto: se voi ci date l’impronta digitale del vostro tesoretto scientifico, noi lo mettiamo in un data base al quale hanno accesso i 15 laboratori più importanti del mondo. Vi diamo la password e voi diventate uno dei gruppi leader in questo campo”. “Non si fa così- disse Ilaria Capua- io sono pagata con i soldi dei contribuenti per fare sanità pubblica. Vi pare che di fronte a una simile pandemia mi permetta, per vanità personale e professionale, di dare quest’informazione a soli 15 laboratori?”
Com’è andata a finire? Conclude la ricercatrice: “Per fortuna si è scatenato un dibattito che ha coinvolto una delle riviste più prestigiose in campo scientifico, «Science»e a catena «New York Times», «Washington Post»,«Wall Street Journal»e ha generato un’onda di trasformazione che ci ha trascinato in una situazione diversa”. Nessun commento, anche perché non sappiamo come e quando finirà.
9 aprile
Il giornalista e l’amoroso
Anche stamane, mentre un sole beffardo preannuncia un lungo fine settimana pasquale scintillante, ma a domicilio coatto, precedo queste mie note con una veloce carrellata sui quotidiani online. Puntuale, come una cambiale in scadenza, la prima truffa da Covid 19. Una società fasulla ha vinto l’appalto per la fornitura di 24milioni di mascherine. Fasulle anch’esse. Potenzialmente veri i 15 milioni che si sarebbe intascati l’imprenditore arrestato: imprenditore? Di che cosa?
Si discute dei tempi di ripresa mentre è grande la preoccupazione per gli spostamenti (proibiti) per le località di villeggiatura. Chi l’avrebbe mai detto che polizia e carabinieri un giorno si sarebbero messi in agguato ai caselli liguri alla vigilia di Pasqua per bloccare gli accessi? La fantascienza è nulla. Poi una geremiade d’ipotesi sulla fase 2, con gli imprenditori del Nord che scalpitano e chiedono di concordare i termini della ripresa.
Occorre arrivare a metà delle homepage per trovare un ponte che crolla tra Liguria e Toscana e che in altri tempi avrebbe avuto ben altra priorità, ma tutto è relativo. Nella fotografia pare un mazzo di carte rovesciate in sequenza sul tavolo, prima d’essere raccolte. Diamo atto al famigerato Coronavirus di avere impedito un’altra tragedia. Il blocco delle attività ha reso deserto anche quel precario guado: solo un paio di feriti a bordo di un piccolo camion.
Un Paese in equilibrio sempre più precario. Ne abbiamo la certezza quando incontriamo, nell’escursione mattutina online, il titolo di un’intervista a Flavio Briatore: “Dobbiamo imparare a convivere con il virus”, in occasione dei 70 anni del multiforme imprenditore.
Sono folgorato da tanta rivelazione, a tal punto da chiudere seduta stante la personale rassegna stampa.
Il nostro, il mio mestiere di cronista è così: un quarto di nobiltà e tre quarti di paraculo, come diceva l’amatissimo collega dei tempi de«L’Unità», Sergio Banali, sempre dietro alla scrivania a fare il capo redattore, sempre immerso nei fogli dei nostri “compiti” da correggere e poi da inserire nei bussolotti diretti alla tipografia con la posta pneumatica. Di lui non ho mai visto una riga scritta, se non molto tempo dopo, quando ho letto con il magone in gola il suo racconto di formazione nella campagna mantovana. Chapeau, Sergio, sensibile cronista di razza, che scrittura!
Mi accorgo che sto divagando. Già, i giornalisti. Siamo così, un po’ santi, un po’ puttanieri.
Ricordo, quasi mezzo secolo fa, i corrispondenti dalla Lombardia, testimoni e compilatori d’una pagina che ho curato per un paio d’anni. Un’umanità varia, non esattamente cavalieri erranti della penna, sovente indirizzati malavoglia a quel compito. Talvolta più attenti alle pubbliche relazioni locali che alla notizia. Come un certo indimenticabile reporter brianzolo che scriveva dal regno dei mobilifici e da noi chiamato, per la sua ossessione monotematica sull’argomento, il “Tarlo Marx” della Brianza.
È scontato dire quanto li abbia avuti a cuore, non tutti certo allo stesso modo, ma in parte cospicua. Ho imparato allora il valore del giornalismo di provincia, un prodotto oggi quasi in via di totale estinzione per difficoltà, costi oggettivi e per la spaventosa omologazione che ha steso un velo opaco sulle notizie. Eppure sono state quelle sentinelle sul territorio a farsi interpreti del grande giornalismo. Penso al Sud e alla battaglia svolta dai corrispondenti contro mafia, camorra, ‘ndrangheta e malaffare. Più prosaicamente erano loro, i famigerati “corrispondenti da…” ad aprire le porte di uffici dove non saresti mai entrato, a mettere in contatto con il cuore delle notizie l’inviato spedito nel loro territorio per un fatto di rilievo nazionale. Non i romantici cavalieri erranti del giornalismo delle origini che vagavano di paese in paese, rimpianti dai giocatori di carte e dai camerieri dei caffè locali, ma solidi artigiani, talvolta di penna ruvida, ma di occhio, udito fine e buoni collegamenti. Il più delle volte il loro lavoro era retribuito in maniera miserabile.
Perché l’uso dell’imperfetto? Perché ora non so, perché troppo tempo è passato e perché quei volti si sono fatti immagini incerte di un passato lontano. Più sinceramente perché credo che il giornalismo d’oggi sia non migliore o peggiore, semplicemente non più tale. Le redazioni sono travolte da un’ondata di notizie inimmaginabile rispetto anche a un recente passato.
Il vero problema è la selezione, lo scavo, l’analisi. La soluzione facile che impera è l’intervista, troppe davvero. Mentre si tratta di arte giornalistica quanto mai difficile, da manipolare con estrema cautela. Per evitare piaggeria, luoghi comuni. E la convivenza con Briatore.
P.S. Devo la decisione odierna di scrivere del mio mestiere d’un tempo a un libro di formazione che avevo estratto per tutt’altra ragione dalla libreria. S’intitola Confessioni di un borgheseed è frutto della straordinaria penna di Sandor Marai. Scrive nelle pagine iniziali riferendosi ai primi anni del secolo scorso: “Quando i miei parenti vennero a sapere che a Budapest frequentavo le redazioni dei giornali, mi considerarono per parecchio tempo un uomo perduto, come se avessi deciso di fare l’accalappiacani o il boia. In provincia il giornalista non faceva parte della società borghese: lo si salutava per primi, certo, ma ci si guardava bene dall’invitarlo a colazione. Nella scala sociale il suo posto precedeva di poco quello dell’amoroso del teatro stabile”.
L’amoroso è colui che svolge la parte, insipida e vana, dell’innamorato nella commedia dell’arte o dell’attore giovane.
10 aprile
Io sono cittadino d’Europa
L’Europa ce la farà? Troverà un’intesa nelle condizioni date? Come sosterrà il sistema sanitario, la cassa integrazione, la liquidità delle imprese, il fondo per un piano di rinascita? E il Mes e gli eurobond, sigle che nascondono complesse modalità di aiuti?
Perché ne parlo in questo strampalato diario virale? Perché mi riguarda, eccome, anche se altri, più competenti del vecchio cronista, ne possono e debbono scrivere. Ne parlo perché è un fatto politico e personale e mi scuso se prendo a prestito un vecchio slogan del movimento femminista. Ne parlo perché “Io sono un cittadino d’Europa”, mi vien da ripetere, parafrasando la celeberrima frase pronunciata davanti al muro nel 1963 dal presidente Kennedy (“Ich bin ein berliner”).
Non è che l’idea del vecchio continente sia di gran di moda in questi tempi. Si procede in ordine sparso e nel frattempo il vagone importante dell’Inghilterra s’è staccato. È vero, 75 anni fa c’erano cumuli di macerie e cominciò allora il faticoso cammino verso la ricostruzione delle mille, meravigliose città d’Europa. Oggi pare di trovarsi di fronte a un simile, desolante paesaggio, anche se in apparenza non è così: si ha l’impressione che siano scomparsi gli splendidi edifici che hanno vinto la sfida con il tempo e che testimoniano antiche e insuperabili magnificenze, sostituiti da case fragili, talvolta parlamenti bunker, sottoposti all’ingiuria anche di un solo acquazzone, che affidano i poteri all’uomo forte di turno.
Perché tutto ciò accade? Non ho una risposta, ma mille dubbi. Penso, per esempio, all’immagine che offre di sé il Parlamento Europeo. Inutile girarci intorno. Pare un’assemblea di condominio, dove ogni decisione viene presa a “mille millesimi” e dove ogni inquilino ha diritto di veto, a prescindere dalle dimensioni dell’appartamento che occupa. C’è da uscire pazzi.
Proprio quando le nostre abitudini, i nostri comportamenti tendono a diventare sempre più simili, l’idea d’Europa s’indebolisce. Siamo sì sempre più uguali, le nostre silhouette mai state così vicine, noi non siamo più quelli bruni e di pelle scura d’un tempo, né quelli del piano di sopra tutti biondi e con gli occhi azzurri; i nostri smartphone parlano la stessa lingua, veicolano un numero incredibile di identici impulsi di consumo, di gesti simili; eppure non siamo mai stati così chiusi, così diffidenti con il vicino come all’inizio della terza decade del nuovo millennio.
Perciò vincono la paura e le forze che ad essa si richiamano. Quand’ero giovanotto guardavo con invidia ai paesi scandinavi, esempi di società tolleranti, né mi parve che il brutale assassinio di Olof Palme a metà degli anni Ottanta potesse interrompere lo slancio solidale di quelle democrazie. Mi sbagliavo. Apertura, tolleranza non sono più i profili di quei paesi, mentre l’Inghilterra prosegue nel suo cammino a ritroso verso un nazionalismo senza prospettive. Perciò una risposta positiva agli interrogativi posti all’inizio di questa strana mattinata è la sola strada praticabile, per non dare il via a un auto affondamento di proporzioni inimmaginabili.
A non dare immediato e libero sfogo agli egoismi, a ricordare agli italiani che insorgono contro l’Olanda che un debito è un debito e va onorato nei fatti e con comportamenti virtuosi. E all’Olanda di Rutte che l’Italia, cito un articolo del «Corriere»di un paio di settimane fa a firma di Ferruccio De Bortoli, “perde ogni anno 20 miliardi di euro d’imponibile sui profitti realizzati da multinazionali italiane con sedi in paradisi fiscali, di cui 17 in Paesi europei. Amsterdam è la preferita”.
Resta tuttavia intatta la questione che un illustre esponente dell’Accademia di Francia pone alla fine di un eccellente saggio di forza pari alla chiarezza di scrittura: “Al di là delle urgenze del quotidiano, del frastuono di questo secolo, delle sue chiacchiere – sostiene Amin Maalouf, giornalista, docente e scrittore nato in Libano e cittadino francese, nel suo Il naufragio delle civiltà – c’è una preoccupazione essenziale: come convincere i nostri contemporanei che, restando prigionieri di concezioni tribali dell’identità, della nazione o della religione e continuando a esaltare il sacro individualismo stanno preparando un futuro apocalittico per i loro figli?”. Non ho risposte. Monsieur o السيد(signore, se ha funzionato il taglia e incolla in arabo, n.d.r.).
Tutti in casa sino al 3 maggio, con poche riaperture. In serata il presidente del Consiglio conferma il nuovo blocco. Con poche eccezioni. A particolari condizioni di distanza, riaprono le librerie. Una buona notizia se riprende a diffondersi il contagio delle parole. Parla il presidente, eccome se parla. Alle otto della sera, tre ore dopo le leggendarie “cinco de la tarde”.
Che dice il presidente? Che farà di tutto per strappare un’intesa favorevole all’Italia, che ancora si può ragionare sull’ipotesi simile ai coronabund, che non considera il meccanismo europeo di stabilità adeguato e che il suddetto Mes non è stato istituito qualche notte fa, con il suo favore, ma è attivo dal 2012. L’opposizione reagisce e ricorda che in quell’anno fu il governo Monti a dire sì e che la Lega votò contro. In realtà fu, ancor prima, il quarto governo Berlusconi ad approvare il Mes il 3 agosto del 2011 con Bossi ministro delle riforme e Meloni alla gioventù. Il voto definitivo avvenne nel luglio 2012 con il governo Monti. Compatto il no della Lega, assente Salvini. Meloni faceva ancora parte del Pdl e non votò perché assente. Fratelli d’Italia fu fondata nel dicembre del 2012.
11 aprile
La politica, giorno dopo giorno
Ritorno sulla narrazione politica perché mi ha colpito nella serata di ieri la figura del Presidente del Consiglio. Un grigio notaio più che un avvocato, mi dissi quando accettò l’incarico di guidare il governo tra Lega e Cinque Stelle. Un “pregiudizio” che non ho modificato per lungo tempo e che tale è rimasto anche dopo il sì alla nuova maggioranza.
In queste turbolente settimane e di fronte a difficoltà che si sono fatte di giorno in giorno ostacoli sempre più alti, mi è parso tuttavia di cogliere qualcosa di meno scontato dell’uomo per tutte le stagioni che mi ero prefigurato.
Anche il linguaggio, felpato agli inizi, ha assunto toni di maggiore chiarezza. È vero, c’è la tendenza a un uso eccessivo della portata storica delle misure messe in atto: sono senza precedenti perché senza precedenti è il fatto che le ha prodotte. La sottolineatura sa di superfluo. Ebbene, ieri sera Conte è arrivato davanti alle telecamere con alcune ore di ritardo, segno di una tensione evidente tra le forze di maggioranza. Palesemente stanco, parlando tuttavia con inconsueto vigore, facendo persino scarso uso della scaletta appuntata sui fogli.
Ha usato toni crescenti, espressioni che paiono fuori dal tempo, per taluni fuori luogo, per esprimere l’ora grave, dicendo che lui e il governo “non lavorano con il favore delle tenebre” e ha promesso impegno, battaglia in Europa mentre la voce gli s’impastava per l’emozione. Solo un consumato attore della politica? Non credo.
Altrimenti non avrebbe commesso la gaffe sul voto al meccanismo europeo di sviluppo che gli è costata dura reprimenda. Oggi le critiche sono forti, c’è più di un timore che questa fragile maggioranza perda la bussola e che il paese dei volontari e medici in prima linea lasci il posto ai profittatori di ogni risma. Il comportamento di esponenti dei Cinque Stelle invia pessimi segnali anche senza la voce del ministro degli Esteri, impegnato da tempo all’aeroporto di Ciampino a ricevere mascherine.
Eppure resto dell’idea che il racconto di ieri sera del presidente del Consiglio, a suo modo rappresenti la chiamata in campo, debole e confusa quanto si vuole, di una dimensione politica che davo per spacciata. Siamo in un’epoca di valori deboli, quasi sussurrati che, per essere fatti propri, devono essere strappati agli stereotipi e al qualunquismo.
Ci sono altresì molti valori urlati, ma che restano solo parole, dove non c’è nulla che rientri nella dimensione del fare. D’altra parte la politica oggi è soprattutto, quando va bene, amministrazione, e ciò accade di rado. In questi anni, lo dico con profondo rammarico, ha abdicato alla sua vocazione, ha rinunciato a essere al tempo stesso pratica ed etica. Nel migliore dei casi è una buona amministrazione, nel peggiore una cattiva.
Una vicenda straordinaria, unica, irripetibile, come quella del coronavirus, può far capire a noi tutti che ci sono altri valori che non siano denaro, prestigio sociale, notorietà. E soprattutto che il senso della vita non è un valore che troviamo guardando una volta all’anno il cielo in cerca di auspici, ma si costruisce molto semplicemente in tutto ciò che si compie, giorno dopo giorno.
Le nostre passioni fanno emergere e riconoscere una parte dell’io trascurata. Chissà allora che l’indifferenza non possa mutare segno e diventi rifiuto al calcolo delle convenienze.
Si tratta solo d’immaginazione, di abbaglio? Può essere, ma se è sola immaginazione, ognuno può immaginare come meglio crede.
N.B. L’ipotesi di un prelievo minimo sui redditi oltre gli 80mila euro, avanzata dal gruppo Pd alla Camera, ha ricevuto un’ondata di dissensi, Conte compreso. Lo dicono anche stimati economisti, politologi dalle antenne sensibili: serve altro. È come riesumare il fantasma della patrimoniale che, detto così, pare la strega dagli artigli che irrompe nel mondo di Cenerentola. Un caro e stimato amico mi sussurra che si tratta di una mossa demagogica per stoppare la ripresa dei Cinque Stelle, alleato sgradito.
Io sono d’accordo con Michele Serra: “Se mi chiedono qualcosa in più, significa che è al governo chi considera giusto e necessario mettere qualche rimedio alle sofferenze sociali”. Perché no?
12 aprile
Frammenti di memoria
Pasqua. Il virus si fa beffe di noi e offre giorni di festa luminosi come mai. Giro tra le stanze nel silenzio assoluto e mi accingo alla perlustrazione mattutina dalle finestre. I giardini sono un’esplosione di verde e fan da contraltare ai pruni dal colore rosa intenso. Tutto è avvenuto in un paio di settimane. Quanti colori, vivi, alla faccia di chi vuol seminare morti e malattie. Ne siamo piacevolmente circondati. Non posso dimenticare il viola perduto in sfumature giallo tenue dell’iris che Laura, con tanta passione, cura sul terrazzo di casa. Spunta dal cortile del condominio prospiciente la silhouette di un uomo che ogni mattina inanella, davanti ai garage, giri di una fantomatica pista. La chiesa di fronte è deserta, ma stamane, allungando il collo, noto che la grande porta centrale e quelle laterali sono spalancate.
Si prepara la funzione che comunque verrà celebrata. Una signora si ferma sulle scale e getta curiosi sguardi all’interno fino a quando il cane, stanco d’attendere, non spinge verso la siepe. A ciascuno il suo.
È tempo che provveda a riempire la macchina del caffè, a sistemare le tazze. Anche la frugale colazione si è trasformata in un rito, tutto laico s’intende. Potenza del coronavirus. Mi è passato d’incanto il senso di oppressione che avvertivo solo pochi minuti fa, quando mi sono alzato dal letto. Nulla di particolare. Solo un sogno che probabilmente percorre il mio inconscio da molte notti. Stamane, a differenza di altri risvegli con memoria confusa, ho qualche ricordo in più e non solo flebili immagini.
Una strana e affollata riunione di redazione. Riconosco volti di colleghi che in realtà sono confluiti in quella stanza da passati lontani e diversi, sconosciuti gli uni agli altri. Si discute a lungo sui servizi da predisporre, con gran fatica perché le opinioni si sovrappongono.
È accaduto qualcosa d’importante, di grave. Non so come si arriva a una sintesi, ma soprattutto non so su che cosa. Esco e salgo in macchina, riconosco la vecchia Mini Minor che ho ereditato da mia sorella negli anni della gioventù e mi dirigo verso un luogo che non riconosco. Una casa in campagna, suono alla porta e mi apre una donna che piange. Evidentemente è accaduto qualcosa d’importante, forse un delitto. Con me non vuol parlare e a dire il vero nemmeno io saprei spiegarle perché sono lì. Ritorno, sconfitto, sui miei passi. Poi il risveglio, brusco, con un comprensibile senso di oppressione.
Una lama di luce filtra dal corridoio e mi dice che è ormai mattino. Meglio alzarsi e scacciare i fantasmi. Scherzi dei sogni, della memoria. Memoria che tutto conserva e che poi restituisce a suo piacimento. Un confuso custode dei nostri ricordi.
Mi consolo pensando a ciò che ho letto chissà dove che sogni e memoria sono atti creativi e non sono mai l’esatta duplicazione di quanto è avvenuto e sovente nemmeno la restituzione di come li abbiamo realmente vissuti. A volte si dice: è semplice, basta guardarsi indietro. Ma non è così, almeno credo. È che se guardi alle spalle trovi tante memorie che s’incrociano, s’alternano, da quelle d’infanzia a quelle di ieri; memorie di cose mai vissute; quelle dei sogni, per restare in tema; persino premonizioni che sono embrioni di memorie future.
Ma è il passato a farla da padrone. È l’unica stagione che cresce ogni giorno, scrive uno degli autori che più amo, l’uruguaiano Mario Benedetti. Ci restano frammenti di memoria e non è detto che siano i più importanti. Speranze e chimere, utopie che non sono arrivate alla meta, ma non per questo meno significative. E passioni.
Io per mestiere ho manipolato il presente, ma anche chi scrive la storia e compie il più alto sforzo di raccolta di dati cosiddetti oggettivi, non è mai completamente privo di passione e questo è uno dei motivi per cui la storia è solo parzialmente scienza. Per quanto il nostro cervello, compreso il mio labile, possegga un centinaio di miliardi di neuroni e un numero astronomico di collegamenti, sappiamo ben poco. Io so che la storia, e per storia intendo quanto oggi sta accadendo, è un messaggio umano, anche quando racconta avvenimenti che devono trovare nella scienza le risposte adeguate. Perciò da questa storia presente, che oggi ci opprime, dobbiamo estrarre una lettura, un codice.
Penso agli sconfinanti territori che questo virus ha toccato, ai miliardi di donne e uomini che vivono l’identico problema. Che più diversi non si può. Metà dei quali manco ha fatto una telefonata nella sua vita e che possiede, se va bene, un centesimo delle risorse che io ho a disposizione.
Ebbene che cosa mi dice questa pandemia? Che la storia ci ha consegnato un non senso, un monito da non dimenticare. La storia è un affresco in movimento che ci deve impedire di vivere in un mondo di soli contemporanei, come qualcuno pretende.
13 aprile
Il potere delle parole
Oggi sono, siamo privi di parole. Intendo quelle scritte sui quotidiani che al vecchio cronista paiono ancora, senza riserve, “le” parole. È uno dei pochi giorni canonici d’assenza dei giornali dalle edicole. Un tempo, lontanissimo, anche di silenzio stampa assoluto; oggi un simulacro, quasi un vezzo snob tra tante sonorità. Tace oggi la parola, ma solo quella antica che ti resta appiccicata alle dita, scritta sulla carta, uno sbaffo nerastro che porta l’innegabile odore del piombo. Che non bastava mai una sola insaponata delle mani per cancellarlo, dopo una nottata in tipografia.
Oggi le parole percorrono ben altre arterie, autostrade senza limiti che fanno impallidire anche le highway americane. Non è più il tempo di sospensione. Nemmeno il terribile coronavirus le può arginare per un istante, semmai fa da propellente a un’esplosione senza limiti. Pensiamo se solo per un giorno l’universo restasse realmente senza parole. Avrebbe un’eco infinitamente superiore a un blackout elettrico mondiale, anche se inversamente proporzionale quanto a effetti perniciosi. Perché le parole sono creature viventi ed è vero, anche se lo affermano gli scrittori che hanno tutto l’interesse a portare in palmo di falange la loro materia prima. Le parole sono dotate di un potere immenso, persino il potere che deriva dal denaro ne è dipendente. Ci sono quelle che blandiscono, quelle che suscitano emozioni, quelle che feriscono e offendono, quelle che vanno dritte alla mente e al cuore. O quelle che valgono una medicina o leniscono un dolore: accade, per esempio, quando infuria una pandemia come quella che stiamo attraversando. Parole che confortano, recano la speranza.
Parole che svelano e aprono uno squarcio nel buio delle nostre menti.
Mai come in questi tempi difficili capiamo anche che c’è parola e parola e subito si comprende se sono incolori, grigie nella loro uniformità o se sgorgano da fonti limpide, un tempo si diceva dal cuore, senza arrossire; parole fragili e gentili che sono in grado di lasciare tracce profonde in chi ascolta e chiede aiuto, divorato dall’angoscia e dalla disperazione.
Una cara amica, che sulle parole da usare in medicina ha fatto uno scopo della vita, dopo la terribile esperienza vissuta accanto al marito ammalato, mi disse: “A nessuno verrebbe mai in mente di affidare uno strumento delicato qual è il bisturi a un medico incapace di servirsene. Ma la parola di un medico, quando esercita la sua funzione, è uno strumento del suo armamentario, è proprio come un bisturi”.
Oggi quindi, nel giorno del silenzio dei quotidiani, mi arrogo il diritto di celebrare la festa delle parole, ricorrenza laica che si aggiunge a quella cristiana dell’Angelo. Voglio farlo con un inno alla parola. In una delle pagine precedenti di questo diario virale ho citato lo scrittore uruguaiano Mario Benedetti, morto una diecina d’anni fa. Ebbene, lascio doveroso spazio alla sua inimitabile e malinconica tenerezza per questo inno che s’intitola Di parola in parola:
“Uno dei percorsi più entusiasmanti di questa vita è il cammino attraverso il linguaggio. Il pensiero procede, di parola in parola. È un sentiero pieno di sorprese, a volte totalmente inaspettato. E quando si fa suono, quando ogni vocabolo incontra finalmente la voce che lo aspetta, la normalità si trasforma in miracolo. Passo dopo passo, sillaba dopo sillaba, la lingua diventa una rivelazione. E che piacere quando una persona qualunque ci viene incontro, anche lei passo dopo passo, sillaba dopo sillaba, e la sua parola abbraccia la nostra.
Le meraviglie e le impurità emergono di colpo dall’oblio e si introducono senza permesso nel nostro stupore. Grazie alla lingua sopravviviamo. Perché siamo parola, non c’è dubbio. Il linguaggio è una borsa piena di idee, una metafisica senza regole, un progetto ogni giorno diverso. Accanto ai cedri e ai pini crescono i nomi e i fiori perché il linguaggio è anche un giardino”.
Che la terra ti sia lieve, maestro.
14 aprile
Il circolo Pickwick
Nel 1957 uno dei più grandi scrittori d’ogni epoca, il britannico Dickens, per i lettori italiani era il signor Carlo e non Charles, nome datogli dai genitori all’atto della nascita a Portsmouth, nel febbraio del 1812, giusto cent’anni prima di mio padre.
Lo ricavo da una vecchia edizione della strepitosa serie dei libretti grigi della Bur, la Biblioteca Universale Rizzoli. La scelta del nome tradotto è forse il frutto tardivo di una disposizione del regime fascista che imponeva l’italianizzazione dei nomi. Il colore del libretto reca ora anche sfumature di giallo antico, un po’ come il suo attuale proprietario e notazioni che indicano una lettura di un buon numero di pagine delle mille scritte. In esso si racconta di una variopinta compagnia di oltre sessanta personaggi, raccolti in un circolo di originali osservatori della natura umana. Avvocati, medici, politici, artisti: tipi e figure dei più disparati ambienti danno vita a dialoghi divertenti, surreali, guidati dalla figura del signor Pickwick.
I personaggi mutano di continuo, in una girandola di situazioni stupefacenti: c’è la storia di un saltimbanco, di un incontro sgradito, di un invito in campagna, di uno che tira ai piccioni e prende cornacchie e viceversa, di un altro che scopre i benefici di un attacco di reumi al proprio talento e via fantasticando, ma forse non troppo. Insomma, il nostro giovane Carlo, pensate allora 24enne, univa una vertiginosa immaginazione e uno straordinario acume nella divertita e ironica lettura della società del suo tempo. Indulgenza che poi venne meno con il passare degli anni.
Perché parlo del signor Carlo? Perché la lettura dei quotidiani online oggi mi riporta un po’ al clima di quel circolo, dove ognuno procede per proprio conto, causando una divertita disarmonia e un effetto vagamente etilico, proprio come la cronaca del signor Snodgrass che scrive con frequenza le parole bicchieri, spumante, rubino, limpido, vino, bistecca alla griglia narrando una seria, ma non troppo, riunione dei membri del Pickwick.
“Ci aspetta una stagione senza movida e follie: dobbiamo mantenere le distanze”
“In spiaggia? Non si va, esperti contrari”
”In spiaggia con le mascherine”
“In spiaggia con gli ombrelloni a distanza”
“In spiaggia? I balneari chiedono regole, gli esperti contrari”
“In spiaggia con il brevetto di un box in plastica per ogni ombrellone”
“In spiaggia? Sì, ma non potremo chiamarla estate”
(struggente citazione di Bruno Martino E la chiamano estate1965, ndr)
“Cronista insegue in pedone in diretta sulla spiaggia: denuncia e polemiche”
“Vado al mare, sono una parlamentare. Parola di un’ex grillina no vax multata sulla spiaggia di Ostia”
“No al mes”
“Si al mes senza condizioni”
“No alla patrimoniale”
“Si alla patrimoniale oltre 80 mila euro”
“No è demagogia”
“A scuola si torna”
“A scuola si ritorna a metà maggio con test sierologici obbligatori”
“A scuola non si torna”
“A scuola a settembre”
“Servono tre miliardi per riaprire le scuole a settembre”
“Librerie oggi aperte”
“Librerie aperte il 20 aprile”
“Librerie, porte chiuse fino a maggio”
“Subito riapertura di fabbriche auto, metalli, moda”
“Sì, ma da vedere caso per caso, siamo prudenti”.
“A passeggio nel parco, multati”
“Nel parco chiuso agente aiuta la madre a ritrovare gli anatroccoli”
“Cimiteri chiusi, si prega sulla tomba via Whatsapp”
“Far ripartire il calcio? A maggio”
“Il calcio riparte a giugno”
“Calcio, si gioca in agosto”
“In agosto troppo caldo per giocare a calcio”
“ A calcio non si gioca, ma siamo matti?”
“A Palermo sorvoli di controllo. Elicottero preso di mira con i fuochi d’artificio”
Fotonotizia. “A Mosca code chilometriche di ambulanze per accedere agli ospedali”
Consigli per innescare risse online
“Assemblea di condominio in video. Le regole da rispettare”
L’elenco appena proposto è solo un estratto dei titoli comparsi stamane sui due maggiori quotidiani online. Non a caso «La Repubblica»preannuncia un inserto: Gianni Rodari. La fantasia al potere.Meraviglioso caleidoscopio di parole. Ne farò tesoro.
15 aprile
A due passi da Central Park
I giornali di oggi, già a quest’ora che s’avvicina al mezzodì, sono buoni per incartare il pesce, mi diceva troppi anni fa l’amato redattore capo che ho già ricordato in queste note. Era un inno alla notizia nuova e insieme una piccola lezione estratta dall’inesistente manuale del perfetto cronista. Dopo aver girato il coltello nella piaga durante le riunioni di redazione del mattino, questo era il senso del suo ruvido consiglio: lascia alle spalle errori e rimpianti e cogli l’attimo sempre nuovo che ti regala su un piatto d’argento un mestiere che è fondato sul girar foglio.
Oggi, caro Sergio, non ce la faccio. Ho ancora negli occhi e nella mente un servizio serale in tv sugli anziani vittime del coronavirus nel mondo. Eloquenti le immagini delle nostre Rsa, le residenze sanitarie assistenziali nate a metà degli anni Novanta del secolo scorso, con tanto di lustrini nelle hall e camere da alberghi di lusso, al centro di roventi polemiche e di inchieste giudiziarie per le condizioni di abbandono degli anziani e per una negligenza criminale.
Le immagini delle bare accatastate delle vittime senza nome che non hanno ricevuto assistenza decente nemmeno sborsando tremila o più euro al mese, si sono sovrapposte ad altre terribili riprese, dei poveri e diseredati vittime del Covid 19 negli Stati Uniti: l’isola dei disperati di Hart Island a New York, simbolo di distese cimiteriali senza pietà. Gigantesche fosse comuni che, nelle riprese dall’alto, mostravano una carovana di uomini e mezzi al lavoro entro cavità senza fine. Pareva di essere entro un reportage sui dannati della terra del grande fotografo brasiliano Sebastiao Salgado. Ma qui non si era nel mezzo di foreste o lande desolate, ma a due passi dalla Quinta Strada e dal Central Park.
Che altro sono queste vittime se non i dannati contemporanei di cosiddette democrazie senza pietà? L’immagine del dirigente del Pio Albergo Trivulzio che esibiva la sua maglietta bianca con disegni gioiosi sotto il completo scuro, simbolo della cosiddetta eleganza casual, mi ha suscitato pulsioni anti democratiche che fatico a contenere e non posso non confessare: mettereste vostro padre, vostra madre, vostro nonno, nelle mani di costui? È il simbolo, a suo modo, della messa in scena di questi anni, non pochi, del travestimento che non conosce barriere, manco in un ospedale.
La caratteristica di questa cosiddetta civiltà è di avere separato il dolore dalla vita. L’ospedale non è più tale: è casa di cura, clinica. Persino talune camere ardenti sono diventate luoghi d’incontro conviviale. Pare d’entrare in un albergo con annesso servizio bar e ristoro: il defunto è nella stanza accanto, uno sguardo e via. Così, dicono quelli che sanno, si è più sinceri con il morto e lo si congeda come fosse in vita. Sarà. Cerimonie furtive, con quegli applausi che ti fanno accapponare la pelle.
Oggi non c’è più dignità per il dolore. L’immagine dell’essere umano è in grande prevalenza l’immagine della sua bellezza. Nel momento stesso in cui l’uomo è deformato, si sente annichilito e la vergogna della propria sofferenza è talvolta più nefasta della sofferenza stessa. La malattia, ridotta a pura tecnologia, ha delegato ai competenti (nel migliore dei casi) il governo del male. Non ce ne accorgiamo più, sino a quando il dolore torna a essere tessuto di esperienza narrativa collettiva, come in queste straordinarie circostanze. Ci scopriamo gracili e il coraggio non è materia che abbondi. Il passato ha conosciuto la società della paura, per lo più legittima, scaturita da devastanti guerre. Oggi stiamo imparando a conoscere le vertigini dell’angoscia quotidiana recata da un nemico che non ha colore, né odore, non si può vedere se non attraverso i volti dolenti delle sue vittime.
Ecco perché la comprensione del dolore è l’indice costante del limite, l’attenzione alla finitudine, la barriera alla tracotanza, l’elemento attraverso cui si attinge la maturità dell’esistere. Al liceo ci facevano leggere i testi classici degli antichi saggi per i quali saper vivere equivale ad apprendere a morire. Solo così l’uomo si fa carico sino in fondo della sua mortalità, era scritto con linguaggio aulico. Essendo tutto fuorché saggio, mi accontenterei di scoprire il senso del dolore ovvero il linguaggio entro il quale chi soffre sperimenta la sua sofferenza. Ti par poco.
P.S. In chiusura di queste note giornaliere, apprendo dalle prime indagini che nel 17% delle Rsa hanno trovato irregolarità e i Nas, il nucleo anti sofisticazioni e sanità dei carabinieri, ne hanno chiuse 15, mentre 61 sono le persone denunciate. È un flash d’agenzia e non specifica altro. Siamo solo all’inizio.