* MEMORIE VISIONI

Cronache virali 3

Terza tappa del “Diario” di Beppe Ceretti scritto nei giorni caldi dell’emergenza Covid a cui abbiamo dato il titolo Cronache virali. Rinnoviamo intanto l’invito a mandare a segreteria@tessere.org i vostri ricordi, testimonianze, riflessioni, parole, suoni, immagini suggestive dell’esperienza vissuta nell’era del Coronavirus”. Arricchiranno il nostro “archivio della memoria”.

16 aprile

La perdita del silenzio

 

Stamane non c’è il silenzio che accompagna da tempo i primi gesti mattutini della forzata quarantena. Termine quanto mai appropriato, perché oggi la reclusione collettiva casalinga tocca i canonici quaranta giorni, un tempo prescritti per i malati affetti da malattie contagiose.

Ci siamo adattati con rapidità a questa vita claustrale. Che straordinario animale abitudinario è l’essere umano, quali capacità di adattarsi all’ambiente: forse è per ciò che sopravviviamo anche alle nostre nefandezze.

Dicevo del silenzio, interrotto in queste ore dal costante rumore di una moto falciatrice all’opera nel grande giardino condominiale accanto al mio, che rompe l’ormai consueta assenza di suoni.

Così mi ritorna l’istintivo fastidio, come se fosse d’incanto scomparsa la paura che solo poche settimane fa, proprio su queste pagine di diario virale, mi faceva definire il silenzio un maledetto imbroglio, tanto da invocare il ritorno sulla strada accanto alla chiesa degli urlanti calciatori notturni. Un silenzio che mi sollecitava inquietudini, paure, più che pienezza di mente e spirito.

Stamane l’ossessivo rumore mi conduce a una banale riflessione: non è il rumore in sé a produrre fastidio, ma è il contesto entro il quale si produce.

Più che il rumore, è la perdita del silenzio a produrre disagio.

Penso all’istintiva irritazione causatami dalla musica diffusa in un ristorante. Anche quando il tono è gradevole e non esageratamente alto. Eppure quelle note, così dolci se udite in altro contesto e per precisa volontà, mi lasciano un sapore di falso e trasformano l’armonia in un suono disarticolato, senz’anima.

Sarà per la mia età, ma avverto una crescente intolleranza per i suoni che oggi ritroviamo ovunque, che ci vengono imposti nelle sale d’attesa che capita di frequentare, nei supermercati dove andiamo a fare la spesa, nei locali dove consumiamo le pause pranzo.

Anch’io, dopo tanta clausura, come milioni d’esseri umani avverto oggi il bisogno fisico di ritrovarmi nella collettività, rinnovare lo scambio di parole e musica. Sento un’acuta nostalgia del chiacchiericcio, salutare proprio perché vano.
Non a caso le conversazioni familiari s’infittiscono, come se io e Laura recitassimo molte parti di un copione.
In quarantena si recita a soggetto e ciascuno svolge molteplici ruoli. È ciò che tiene in vita la mente: musica, letture e parole.

Proprio in forza della straordinaria quanto sciagurata opportunità che si è manifestata tra capo e collo, mi chiedo tuttavia se sia inevitabile ritornare soltanto semplicemente al com’eravamo.

Mi chiedo, per esempio, se sia obbligatorio ritornare a essere blanditi in ogni istante non già dalla musica, ma da suoni disarticolati, accompagnati da quegli sghembi flash e dai mille pupi che appaiono sui video di strade e piazze che ci tengono informati minuto per minuto.  Se sia utile l’incessante grandine di parole inutili che si abbattono, quasi sempre senza ragione, sulle nostre teste o che noi stessi produciamo.

 

Un funesto accidente che mai avremmo voluto ci ha fatto riscoprire la funzione primaria di quell’aggeggio che qualcuno si ostina a chiamare telefono, nonostante la funzione della conversazione sia del tutto residuale e occupi l’un per cento delle sue potenzialità.

Da giorni e giorni stiamo coltivando le nostre relazioni “viva voce” nel dialogo con parenti e amici, al più specchiandoci l’un l’altro nelle precarie e traballanti immagini dei video. Abbiamo giocoforza smesso di fare ascoltare le conversazioni in pubblico, cancellando il naturale pudore che dovrebbe ammantare i nostri innocenti affari.

Ora sappiamo che in un futuro prossimo, imminente, il cellulare, o smartphone che dir si voglia, sarà persino la nostra carta d’identità virale. Silenziosa, al più un bip da lasciapassare.

Ma ho la sensazione che tutto finirà e che l’inesorabile spinta del consumo frenetico tornerà come e più di prima.

Dagli schermi pubblici delle città, parole e musiche vane continueranno a porsi al centro del nostro universo, si gonfieranno sino all’inverosimile, per poi scomparire in un istante, come non fossero mai esistite, pronte a essere subito sostituite da altre.

È inevitabile. La dimensione virtuale non solo favorisce vissuti di onnipotenza, ma crea rischi evidenti di confusione identitaria, alimentata dalle straordinarie opportunità offerte dalla nostra epoca.

È la metamorfosi che ha investito la civiltà globalizzata e il coronavirus resterà un incidente di percorso, forse nemmeno un monito, perché la capacità di cancellare, pardon, resettare la memoria è impulso irresistibile.

Lo scrivo nel ritrovato silenzio. Immagino che il prato, nascosto da una siepe che m’impedisce l’osservazione, sia ora un tappeto uniforme di verde intenso. Che meraviglia.

 

17 aprile
Il cronista viene con il tiggì

 

Non occorre essere attenti osservatori per notare quanto il coronavirus abbia mutato anche il consueto panorama offerto dai maggiori notiziari. Non che manchino le facce note e nessuno, per citarne uno a caso, ci può risparmiare Salvini che un giorno recita l’eterno riposo con Barbara d’Urso o invoca la protezione del Cuore Immacolato di Maria e l’altro dice dentro tutti e l’altro ancora fuori tutti, come quando si giocava a tana.

Il cambiamento, non so quanto effimero, è ciò che definirei il ritorno del giornalismo anche nei tg nazionali della Rai.

Roberto Chinzari, Giuseppe La Venia, Stefania Battistini e mi scuso per altre, troppe, mancate citazioni: chi sono costoro?

Sono alcuni esempi di cronisti che si sono ripresi il gelato in mano. Essendo il gelato, per evidente somiglianza con il cono, il microfono.

Pensavo che questi reporter fossero ormai costretti a una sorta di doppio status: stanchi ripetitori all’ora del tiggì, di nuovo padroni del loro mestiere in altri servizi, pochissimi mandati in onda nelle ore di punta e molti nella cosiddetta seconda serata.

È accaduto il paradosso: il virus ha messo parzialmente in quarantena la lottizzazione e mai tanto distanziamento sociale ha significato riavvicinamento alla notizia.

Non vedo più nugoli di cronisti inseguire il potente di turno che cammina ad ampie falcate verso le arcane porte e si arresta d’improvviso. A quel punto il vate si concede, pronuncia frasi di rito mandate a memoria e infine fugge, inseguito dall’umiliato stuolo di registratori senz’anima.

Ora non vengono dopo il tiggì, come cantava la banda Arbore tanti anni fa. Li vediamo dalla mattina alla sera davanti a ospedali, case di cura, a raccontare quest’Italia dolente. Danno voce a chi, giorno dopo giorno, vive entro mura minacciate dal coronavirus, raccolgono denunce, invocazioni, ci riportano voci e volti di un Paese che pareva dimenticato. E lo fanno, incredibile a dirsi, alle ore di pranzo e cena.

Quando sono in diretta dai centri del potere, nelle interminabili attese di una conferenza stampa annunciata, sanno riempire di fatti, di notizie e quando raccontano fatiche, sofferenze, denunce, pongono domande che non possono essere eluse facilmente.

Quante mascherine avrà mai consumato il timido Giuseppe con la sua faccia a triangolo e il baffetto che pare dipinto, “faccia triste di italiano in gita” canterebbe il grande Paolo Conte? O quanta strada avrà nei suoi sandali la scarmigliata Stefania che sul far della sera è sulla porta dell’ospedale?

Non m’illudo, i tempi tristi torneranno. Tuttavia per qualche settimana il distanziamento sociale ci ha riavvicinato alla notizia, anche nelle messe cantate di mamma Rai.

Allora è vero, i cronisti non sono scomparsi.
A loro, a noi tutti cronisti, vecchi e giovani, dedico le splendide parole di un grande cronista milanese, Leonardo Vergani che con il fratello Guido ha raccontato la storia di Milano dalle pagine del Corriere.

Ecco come narra nel 1973 l’alba di una delle domeniche a piedi dei tempi dell’austerità. Pare il racconto di una giornata ordinaria di questi tempi, quasi mezzo secolo dopo.

“È arrivata la mezzanotte. Milano è ormai vuota, spettrale. Non è uno spettacolo lieto. È come ritornar indietro di anni ed anni, ai tempi del primissimo dopoguerra, perché l’illuminazione è fioca, i passanti rarissimi. Alcune strade sembrano gole di montagne dentro le quali fischia il vento. La città è diventata dura, quasi che volesse respingere i suoi abitanti. Per centinaia di migliaia di persone c’è la nostalgia del solito fine settimana caotico e faticoso. Non siamo più abituati al silenzio. Passa pedalando, sul suo catenaccio arrugginito, un metronotte, con il mazzo tintinnante di chiavi. Attorno non c’è un’anima. Milano cerca faticosamente di prendere sonno e di scoprire cosa sarà una domenica a piedi, tutti in città”.

 

18 aprile

Il pensiero dell’altro
Stamane suona il campanello dell’allarme interiore. La luce rossa viene da un titolo dell’agenzia Ansa: “A. Latina 90mila contagiati”.

Per qualche istante mi fisso su quel numero e mi chiedo che cosa sia successo e come mai siano stati contagiati praticamente tutti gli abitanti di questo popoloso centro dell’agro pontino. Di più: mi domando, con lo sguardo fisso sul computer, perché a quella notizia non sia data l’apertura. Poi ovviamente tolgo il cumulo di ragnatele dal cervello, mi fisso sulla A. e completo la lettura: non la preposizione, ma A puntata dell’abbreviazione ovvero in America Latina 90 mila contagiati. Pochi, relativamente pochi assai.

Per un minuto o forse due ho perso il senno: scherzi da coronavirus? Certo. Soprattutto l’effetto distorcente di una catena di notizie, le une e le altre sovrapposte nella memoria, senza discernimento.

Che inducono inquietudine, che ci piaccia o no.

Già in altri giorni m’è capitato di prendere nota dei titoli dei quotidiani, sia virtuali sia di carta, e di notarne l’effetto d’involontaria comicità, se letti in veloce sequenza. Oggi confesso che il lato burlesco mi sfugge e ne ricavo una sensazione di vaga inquietudine.
Il governo è uno sfacelo, diviso in Italia e in Europa, siamo a un passo dall’ennesima crisi di governo nel pieno della pandemia.

Il presidente del Consiglio regionale campano, Vincenzo De Luca, che sembra il marito di Morticia nella famiglia Addams, minaccia di chiudere le frontiere della sua regione se si aprono quelle della Lombardia.
L’inaffondabile Casini, con quel volto da perenne bambino vecchio, indica in uno o due mesi al massimo la durata del governo.
Non parliamo poi degli eurobond. A Bruxelles si vota in ordine sparso, tutti contro tutti, così come sulle case di riposo o sulle nomine nei grandi enti. E che dire dell’accolita di saggi presieduta da Colao: in troppi, già minata alla base prima ancora di cominciare.
La ministra dell’istruzione dice che per ora a scuola non si può tornare? Tuoni e fulmini. Partono appelli contro l’insegnamento a distanza che non può sostituire la scuola.  L’ovvio dei popoli. Domanda: che accadrebbe se anche un solo caso d’infezione si manifestasse nelle aule con una riapertura non garantita?

Nel macroscopico caravanserraglio spunta l’erba del vicino, sempre più verde. La Germania, che pure lamenta le sue cataste di vittime, è l’esempio. Le parole sul virus di frau Merkel, per la quale pure faccio un ostentato tifo, sono esempio di chiarezza che tutti dovrebbero imitare. E sul lavoro? In pratica i tedeschi non hanno mai smesso.
Insomma Germania über alles? Un esempio, è vero, tuttavia qualche dubbio dovrebbe insinuarsi se la corazzata al centro dell’Europa non brilla per trasparenza del suo sistema finanziario e lascia che entro i suoi confini si macini un riciclaggio calcolato in 100 miliardi all’anno.

Insomma, per tornare all’inquietudine di cui sopra, meglio confessare quel senso di sotterranea paura che fingere un distacco che è virtù dei saggi e quindi non del sottoscritto.

Ho letto da qualche parte che l’80% delle azioni umane è un riflesso della paura. Ci si sposa per paura di restare soli; non si adottano misure severe, ma giuste, per paura di perdere consensi; si accettano rapporti conflittuali nel timore di mettere allo scoperto i nostri sentimenti e quindi anche le nostre debolezze. Così è nell’educazione dei figli, nel condurre qualsivoglia impresa, nella gestione della cosa pubblica e nei comportamenti dei cittadini.

Di converso, solo il 20% delle azioni viene compiuto per il piacere di fare cose belle, al massimo delle nostre capacità. La paura impedisce di riconoscere, nel confronto, il livello più alto dell’altro. Allora giù fendenti per colpire il suo lato debole o, come dicono gli orientali, se gli tagliamo la testa, certo la nostra altezza è garantita. Un po’ come ho fatto poche righe sopra con la Germania.

Il ragionamento che sta alla base di ogni fertile alleanza o anche semplicemente di una relazione, è diametralmente opposto.  L’altro, il diverso, al di là del rispetto che comunque gli è dovuto, può solo arricchirci con il suo vissuto, con la sua esperienza, può potenziare le nostre capacità e aiutarci a crescere.

Non è facile. La paura rende le pareti della nostra mente dure e non permeabili. Solo col tempo e una convinzione ferma e serena, possiamo aprirci spazi, forse anche un solo spiraglio per far penetrare giorno per giorno il pensiero dell’altro, ricco di sfumature diverse dalle nostre.

Vagliare quel pensiero è accoglierne quella parte che può essere condivisa, mescolata, sì che possa diventare lembo di terra comune su cui costruire opere mature. Che messaggio forte da dare alla mia diletta nipote Sofia e a chi verrà dopo di noi. Solo nell’unione c’è una vera crescita e un’alleanza ragionata.

 

19 aprile
Andiamo al regolamento

 

L’Italia s’è desta. C’è un Paese intero che vuol tornare negli uffici, nelle fabbriche, nelle scuole. Subito.
Persino il bimbo, con annesso errore ortografico, invia una supplica al presidente della Repubblica perché gli ridiano il banco, perché mamma deve andare al lavoro. Segue lettera di genitori che esprimono nobili pensieri sull’insostituibile ruolo dell’istruzione in aula, perché quella a distanza resta un surrogato, addirittura una discriminante.

Una geremiade che dovrebbe suscitare orgoglio e che contiene indubbi elementi di equità sociale.
Tuttavia, in tanta sollecitudine, sento risuonare un campanello d’allarme interiore. Perché?

Perché di solito nella nostra società complessa, quella italiana intendo non avendo conoscenza di altre, si evade dalla responsabilità attraverso uno scaricabarile all’infinito che cancella il colpevole e rende anonima la colpa.

Perché la riapertura di scuole, fabbriche, luoghi di lavoro, implica in questo caso una presa di coscienza individuale e collettiva di enorme significato.

È un atto di reciproca responsabilità, personale e pubblica, che deve funzionare. Pena una trasgressione che in questo caso non è solo pecuniaria, ma coinvolge la salute di milioni di persone, piccoli o adulti che siano.

Ciò che dobbiamo sapere in una circostanza estrema come questa è che la responsabilità delle decisioni è un patto paritetico tra cittadino e istituzioni.

Non può dunque accadere ciò che in una miriade di casi è la prassi e cioè che la responsabilità personale sia piccolissima perché ciò che funziona è il protocollo. Io non sono responsabile perché il responsabile è il protocollo, il regolamento (ve la ricordate la banda Arbore che cantava trent’anni fa ballando in coro: andiamo al regolamento?). Deve sussistere, in altre parole, una responsabilità di sistema che vada all’unisono con quella individuale e non un abbassarsi dell’onere che dà all’istituzione una responsabilità illimitata.

Senza essere profeti di sventura, mi chiedo che cosa accadrebbe nel caso di un’insorgenza del coronavirus dettata da una mancata osservazione delle norme.

Quindi è auspicabile e doveroso che l’Italia si desti. Ma non soltanto dal sonno endemico del coronavirus, ma dal sonno causato dall’impersonalità del sistema, dall’assioma che, essendo responsabile il sistema, nessuno è responsabile. Come si può infatti sanzionare il sistema?

La riflessione fatta per la scuola può estendersi a ogni ufficio pubblico e privato.

Allora significa che più nulla si può muovere? Niente affatto.

È che in questa circostanza senza precedenti c’è un’altra dimensione della responsabilità da recuperare ed è insita nella parola risposta:

“Soddisfazione della domanda, della richiesta, della chiamata”, spiega alla voce il dizionario Devoto-Oli.

La responsabilità non è dunque quella che prendo io, né si ricava da leggi. Come già ho sottolineato nelle note scorse, è ciò che m’impone l’altro e deriva dall’altro in ragione della sua stessa esistenza.

Di qui la perplessità sulle modalità del risveglio.
Non basta sollecitare l’apertura perché così avviene in altri Paesi. Pensiamo al nostro e al senso di responsabilità che deve comportare la ripresa.

La memoria breve va alle scuole: non posso dimenticare gli atti di assoluta irresponsabilità che sono venuti dai cosiddetti “no vax”, da non pochi difesi in ragione dei diritti dell’individuo.

La posta in palio è la vita. Ci sono scene, come quella odierna della folla che si assiepa al funerale d’un sindaco morto per il Covid, da far accapponare la pelle. Si dirà: un esempio estremo.

È che oggi siamo dinnanzi a un fatto senza precedenti che non ammette scorciatoie. Giusto un mese fa, il 21 marzo, in questo diario virale citavo uno scritto di Claudio Magris, che riprendo ancora una volta perché mi pare la sola via percorribile in tanta avversità: “C’è una dura poesia delle regole che dobbiamo imparare a rispettare, come il poeta rispetta l’endecasillabo e in questa cocciuta e apparentemente arida fatica potremo imparare ad amare le regole”.

 

20 aprile
Grida manzoniane

 

Una giornata d’acqua, quindi benefica, dopo settimane e settimane di gran sole. Non pioveva da quattro mesi, annotano i meteorologi.
Chi l’avrebbe mai detto che un cielo arcigno mi avrebbe messo di buonumore?

Cielo grigio su, ma foglie verdi quaggiù, con i colori giallo, lilla, rosa dei giardini circostanti che paiono aver preso d’improvviso nuova vita. Per una volta la luce non scende dall’alto, ma emerge dalla terra. Una natura spolverata e quindi in spolvero. Scherzi da coronavirus.

Non scherzo, ma sindrome da coronavirus è quella che spinge i mezzi di comunicazione a far sempre più ricorso alla retorica bellica.
Ultimo in ordine di tempo il conto presentato agli italiani da Domenico Arcuri, il commissario straordinario all’emergenza ospedaliera. Le vittime del Covid 19 sono cinque volte superiori a quelle civili registrate nell’ultimo conflitto mondiale.

Capisco la forza d’impatto d’un simile paragone e la necessità di far comprendere la gravità della situazione, ma resto perplesso di fronte a quest’uso quanto meno disinvolto delle cifre.
La frase pronunciata dal commissario entra nel novero di quelle grida che hanno lo scopo di colpire le coscienze in modo traumatico: siamo davvero un popolo così restìo a comprendere la gravità della situazione? Siamo davvero al tempo delle grida di manzoniana memoria, sulla carta assai severe, ma poi ampiamente disattese?

Forse perché sono parte di una generazione nata subito dopo la catastrofe della seconda guerra, forgiata nel racconto d’inenarrabili pene e patimenti, fatico ad accettare il paragone. I numeri possono ammonire, ma non sempre raccontano tutta la verità. Fatta di un’esistenza condotta sul filo del rasoio senza sapere che mi capiterà stasera o domani. Senza sapere se padri, figli o fratelli torneranno mai vivi dal fronte e senza sapere se un maledetto ordigno sganciato per “sbaglio” s’insinuerà, per fare un esempio terribile non a caso, nella scala di una scuola elementare provocando una strage d’innocenti. E senza tutte le opportunità che in questa forzata clausura ci vengono comunque concesse.

Una sola eccezione: se parlo di fronti passati, non posso dimenticare quello composto oggi da medici e sanitari che stanno pagando un prezzo altissimo.

A proposito di guerra. Certamente è di tempi bellici la tendenza che ancora conosce poche soste, a far incetta di generi alimentari. Le spese sono a dir poco raddoppiate o triplicate, comunque profondamente mutate. Ancor oggi i corrieri dei supermercati che distribuiscono a domicilio sono oggetto d’invidiose spiate da finestre e terrazzi: chi sarà mai il fortunato e come avrà fatto a trovare un posto libero nel calendario delle consegne?
Da un’analisi della Coldiretti risultano tuttora aumenti del 50% degli acquisti di uova, latte, del 60% della pasta. Si tende ad accumulare prodotti a lunga conservazione come il Parmigiano (+38%), il tonno sott’olio (+34%), i salumi (+32%). Non parliamo di farine, legumi secchi, carne in scatola che sono di poco inferiori al cento per cento. Insomma: 4 famiglie su 10 hanno ammassato e stanno tuttora ammassando scorte di prodotti alimentari e bevande per un timore del tutto ingiustificato.

La maggior domanda di prodotti, soprattutto conservabili, è per ora sorretta da un sistema produttivo capace di rispondere alla domanda.

Il problema, semmai, può sorgere nelle aree più povere del Paese. Lo annota il sito del Sole 24Ore in un documentato servizio. Alle tante famiglie che vivono in una situazione di povertà, sottolinea il quotidiano di Confindustria, si aggiungono i precari, gli stagionali e i soggetti che traggono il proprio reddito da un’economia cosiddetta informale e che oggi sono senza lavoro e senza tutele: il loro bisogno di cibo può trasformarsi in rabbia sociale.

 

21 aprile
Le memorie degli altri

 

Da quando conduco, in ideale compagnia di amici, parenti, conoscenti e qualche milione d’italiani, questa vita da recluso di lusso?
La risposta è facile, 45 giorni.
Essendo io tendenzialmente abitudinario, come la grande maggioranza degli esseri umani a ogni latitudine, ho introiettato i ritmi quotidiani: la colazione, queste note erranti, la corsa e camminata veloce in casa in compagnia della musica, la lettura di quotidiani e libri, gli esercizi pomeridiani e una miriade di conversazioni telefoniche senza fine, con gli affetti più cari e con gli amici, compresi coloro che non sento da tempo.

Quelle che ti scambi non sono più informazioni, non più il banale come stai e via che ho altro da fare che stare a sentire, ma sono correnti di vite che avevi dimenticato e che t’investono, suscitando il piacere del refolo d’una sera d’estate che chiude una calda giornata.
Le chiacchiere a cerchi concentrici, mosse da un banale ricordo, fanno star bene proprio perché rappresentano anch’esse le minuscole, ma sicure certezze di un presente sempre meno controllabile. Per non parlare del futuro. Il mondo a venire che si forma accanto a noi e che ci pareva di conoscere a menadito anche senza saperne tutte le regole; anzi, ben poche.

Ma ora quelle parole, che in altri tempi sarebbero passate via senza lasciare traccia, si depositano, vanno a coprire i buchi della memoria. E hai la netta sensazione che l’altro compia lo stesso itinerario, un’operazione di mutuo spionaggio.

Spiare le memorie degli altri ti preserva dall’oblio o almeno ci illudiamo che ciò sia, ma basta a consolarci.
Perché dico le memorie? Perché non ce n’è una simile all’altra, anche se a noi restano frammenti e non sempre i più importanti e comunque il più delle volte diversi dall’altro.
Così il passato è un ricovero di speranze, sovente utopie mai arrivate alla meta, alle quali dobbiamo tuttavia la nostra sopravvivenza, la patente di esseri pensanti e decentemente liberi.

Anche la miriade di oggetti delle nostre abitazioni è un eterno puzzle sempre in divenire, è parte di noi. Ci racconta. Come quelle pile di agende compilate negli anni della vita da cronista, nel secolo scorso, e che mai mi sono deciso a gettare. Appunti per lo più incomprensibili, anche se le parole prese singolarmente hanno un chiaro significato, perché la memoria s’è infranta tra quelle righe.

Parole, parole, come quelle migliaia custodite nei vecchi dizionari che tengo come una reliquia e che mi ostino a consultare, anche quando potrei con maggiore efficacia sfogliare la memoria del mio computer e ottenere un servizio che è il denso concentrato di mille vocabolari.

Non rammento più da chi mi è stato detto, forse dall’amico Giorgio, per tanti anni corrispondente da Cuba e poi inviato in America Latina, che da quelle parti il dizionario si chiama, è meglio dire si chiamava “mataburros”, ovvero ammazza asini. Stupendo.

Mi sono perso, dov’ero? Già, alla mia vita da recluso di lusso.
Come tutti i giornali di stamane, penso anch’io a come sarà la fase 2.
V’immaginate se avessero detto poco tempo fa che ci saremmo concentrati su una fase 2 della nostra vita collettiva?
Di più: che saremmo usciti da casa con una mascherina che in breve tempo t’imperla il volto di sudore, che saremmo saliti sulla metropolitana non prima di stazionare in cerchi rossi, guidati da mani guantate?
Che all’ingresso di un luogo di lavoro qualcuno ci avrebbe misurato la temperatura? Che saremmo entrati in un negozio a turno, magari alle dieci o undici di sera per comprarci una camicia o un paio di calze? Che una “app” sarebbe sempre stata sulle nostre tracce e che ciò ci avrebbe resi tranquilli. Che, che, che… potremmo continuare, per ora, sul viale d’infinite congetture.

Che fare? Meglio tornare ancora per qualche giorno alle amate carte, ai bislacchi pensieri e riderci sopra.

In tanto e confuso coro anche il Grande Fratello del geniale George Orwell avrebbe qualche difficoltà a muoversi con il suo Ministero dell’Amore. V’immaginate gli agenti della sua Psicopolizia che si occupano di chiunque abbia comportamenti devianti?

“C’è troppa ressa, capo, passo e chiudo”.

 

22 aprile
Vero e falso

 

A proposito di Orwell. Nemmeno con il supporto della sua fervida e lungimirante fantasia si poteva supporre, solo un paio di mesi fa, che uno dei titoli di stamane sui maggiori siti sarebbe stato: “Il Missouri fa causa alla Cina”. La delirante comicità dei Monty Python degli Anni Settanta, al confronto, è materia da apprendisti stregoni.

Sempre di Cina si parla: “I medici cinesi si risvegliano dal coma con la pelle nera”.

Che dire poi del parroco cremonese, multato perché diceva messa senza rispettare le distanze, che prorompe: “Farò ricorso, celebrare è un mio diritto”?

Intermezzo balneare: “Al mare con le cupole in bamboo removibili e doccia interna”.

A seguire uno scambio a colpi di clava (udite, udite) tra scienziati: “Se tu sei candidato al Nobel io a Miss Italia”, dice il virologo Burioni, recordman assoluto di presenze televisive, rivolgendosi al collega Giulio Tarro che replica: “Taci tu che il 2 febbraio hai detto che non ci sarebbe stato alcun caso”.

Proseguiamo. Proclamato, a tempo di record, il primo sciopero per lo smart working.

Accanto le immagini sghembe di due campioni che sorridono: Nadal, dalla Spagna e Federer dalla Svizzera: “È un mese che non tocco racchetta”, lamenta il maiorchino. Pronta la replica: “Perfetto, così non saprai più giocare a tennis quando torneremo”.

Qualche gradino più sotto la supplica dei maturandi sulle note di Antonello Venditti: “Cara ministra, non ci tolga la notte prima degli esami. Non può finire tutto così”.

Mentre scrivo queste note quotidiane d’involontaria comicità, ricevo una dritta dai vecchi colleghi. Il Consiglio dei ministri, in seduta straordinaria, ha diramato la prima circolare d’orientamento e aggiornamento della nuova sintassi alla quale ci si dovrà attenere, nelle relazioni di lavoro e commerciali, nelle attività culturali e in quelle scolastiche. S’intende sino a ulteriori aggiornamenti.
Riguarda parole e frasi che, a far data da oggi, sono state abolite dal lessico quotidiano e sono quindi da depennare anche nella corrispondenza tra le imprese.

Tale nota precede la cosiddetta fase due che entrerà in vigore il 5 maggio, altrimenti detta “Ei sarà”, in significativo omaggio al Manzoni.

Data l’urgenza, il primo provvedimento riguarda le imprese. Di seguito l’esempio di una vecchia corrispondenza commerciale. In corsivo il linguaggio proibito sino a nuovo ordine:

“Egregio signore,

quello da lei esposto è un problema che mi coinvolge da vicino.Anche se la distanza s’è ridotta, continua il corpo a corpotra le nostre parti. In questi giorni ho potuto toccare con manoquanto sia complicato addivenire a una soluzione. Mi ero illuso che ci potesse essere a breve un riavvicinamentoche potrebbe evitare il testa a testache non serve a nessuno. Non voglio mettere il dito nella piaga,ficcare il naso nelle faccende altrui,ma non sarebbe male ripristinare la stretta collaborazionefin qui in essere. Mi creda, è indispensabile tornare a camminare fianco a fianco e in questa tanto severa contingenza non vedo altra soluzione che tenersi strettele poche opportunità che la situazione ci offre. Le sono vicinoin questi istanti difficili”.

Ecco ora l’identico testo nella necessaria traduzione alla quale ci si dovrà attenere:

Egregio signore,
quello da lei esposto è un problema che mi coinvolge  a tal punto da spingermi a quasi due metri da lei. Anche se il divario s’è ridotto, continua il confronto tra le parti che mi auguro il più lontane possibile. In questi giorni ho potuto verificare la questione con gli opportuni filtri. Mi ero illuso che ci potesse essere a breve un collegamento a distanza tra i possibili contraenti che eviterebbe la soluzione tampone che non serve a nessuno. Mi creda, sono indispensabili mani forti e protette in guanti di lattice usa e getta se davvero si vuole mettere il dito nella piaga e mascherine medicali di assoluta sicurezza per trovare una soluzione. Di certo non si approda a nulla se, con poco rispetto, si ficca il naso nelle faccende altrui. Non sarebbe comunque male ripristinare la collaborazione a distanziamento regolamentare fin qui faticosamente in essere. Per usare una metafora che le suonerà familiare, sono certo sia utile tornare a camminare in fila indiana ad alcuni metri l’uno dall’altro, perché in tanto severa contingenza non vedo altra soluzione che tenere alla distanza minima consentita le opportunità che la situazione ci offre.
Mi creda, non è più possibile tenersi per mano, come abbiamo fatto in passato. Le resto a contatto distanziato e di sicurezza in questi istanti difficili.

Domanda senza risposta: sapremo più distinguere il vero dal falso? Prima ancora: che cos’è vero e che cosa è falso?

 

23 aprile

È uno di quei giorni che

 

Ci porti il Covid a casa. La notizia è su tutti i notiziari di stamane. Un’infermiera di Lucca, al ritorno dall’ospedale dopo un estenuante turno accanto ai malati, ha trovato sulla porta di casa il lapidario messaggio. Naturalmente anonimo: “Una pugnalata, mi hanno trattato come un’untrice”, si sfoga l’interessata.

Buon senso vorrebbe archiviare l’episodio quale voce stonata entro un coro che intona un inno alla condivisione, alla mano tesa verso l’altro.

Eppure, sarà per via della negatività indottami dalla telefonata mattutina di un amico che mi ha dipinto un quadro a tinte fosche della sua attività e dell’ambiente che lo circonda, non riesco a scacciare pensieri altrettanto stonati.

Perciò non mi va di liquidare questo episodio tra le inevitabili scorie di un generico tempo presente. Credo infatti che simili pulsioni non siano estranee al clima d’angoscia che si è generato a causa del carattere indefinito di questa pandemia. Perché possa passare, occorre che la situazione cambi e che venga ricostituita una corretta catena di messaggi tra di noi.

Al di là dello scritto, vile perché anonimo, esso svela un senso di paura non generico, come aver paura della fine del mondo, ma che si fissa su qualcosa di determinato e generalizzato che sta segnando con disagio la direzione della nostra vita.

È come quando, faccio un banale esempio, durante un violento temporale la casa illuminata diventa buia all’improvviso. Siamo pervasi da un senso d’inquietudine che non svanisce dicendo a noi stessi che nulla è mutato, che le nostre scure stanze sono esattamente quelle di prima. Un buio assoluto domina l’ambiente, di cui all’improvviso ci pare di non avere né esperienza né memoria.

Vagando alla ricerca di un lume in senso fisico, perdiamo un altro lume, quello della ragione e ci mettiamo a inveire contro tutti i nostri familiari, nessuno escluso, che inesplicabilmente non sanno trovare ciò che nemmeno noi siamo capaci di rintracciare.

Si può altresì obiettare che l’insulto anonimo è una prerogativa secolare e che non occorre una pandemia per far tracimare questo fiume perennemente colmo di melma.

Giorgio Cosmacini, docente di storia della sanità e presidente del Comitato scientifico di Vidas, racconta di un libro di testo per l’infanzia d’epoca medievale visto in una mostra a Parigi, che riporta questo dialogo per insegnare a leggere e scrivere:
“Sei uno scolaro?”
“Sì, sono uno scolaro”
“Sei lebbroso?”
“No, non sono un lebbroso”
L’incubo della lebbra, osserva lo studioso, non nasceva solo dal fatto che era la malattia del tempo, ma che il lebbrosario era uno spazio chiuso, ma non sbarrato, fuori città, ma non anti città, anzi, una piccola città con una vita di diversi e marginalizzati.  Lebbra non era solo la malattia del tempo. Era la paura nei confronti dell’emarginato e d’essere emarginato.

Oggi al più, l’unica minaccia è la pena di bimbi inchiodati per ore davanti ai videogiochi. Quale dialogo potrebbe mai essere pensato per indicare le paure primarie del bambino del nostro immediato futuro?

Ci porti il Covid a casa. In quel truculento messaggio vedo affiorare le inquietudini dell’oggi. Le mie inquietudini, i miei sensi di colpa.  A prescindere dal virus.

Lo avevo detto, oggi è uno di quei giorni che ti prende la malinconia che sino a sera non ti lascia più. Mezzo secolo fa così cantava Ornella Vanoni con quell’irripetibile voce smarrita nel tempo.
È altrettanto vero che chiudeva con un messaggio di speranza: “Ma nonostante tutto io non rinuncio a credere. Chi lo sa? Domani è un altro giorno, si vedrà”.

 

24 aprile
Il mio implacabile subito

 

Si va per cominciare. Quotidiani e notiziari online sono oggi occupati dalle modalità della fase2 che ci vedrà tornare, con gradualità, alla vita si fa per dire normale, quella con mascherine, guanti e distanze obbligate.

Nel “ci” non so fino a che punto, come e quando verrò compreso. Se il simpatico Fiorello, che di anni ne ha 60, dice che siamo una specie in via d’estinzione da proteggere, come il panda, il cercopiteco o il colibrì dell’Himalaya, che accadrà a me che ho superato la soglia dei 70?

Al netto d’ogni perplessità su questa libertà condizionata, mi atterrò comunque alla regola numero uno che è il rispetto delle regole, che mi piacciano o no.

Certo questi provvedimenti, presi sull’onda ancora alta delle tante vittime anziane di questa pandemia, scuote alle fondamenta una società che sul principio di prestazione degli “over” ha costruito forse il più valido presidio.

Un edificio sociale relativamente recente che ha camminato di pari passo con l’aumento delle aspettative medie di vita, ormai largamente sopra gli 80 anni, sia pure con la crescente differenza tra maschi e femmine.

E adesso, pover’uomo? Ritorneremo alla concezione che vede l’invecchiamento solo nella dimensione di ciò che non è più possibile?
Forse sì, se continueremo a giudicare le età della vita sulla base del principio di prestazione.

Certo ciò accadrà se anche noi, diversamente adulti, continueremo a far coincidere il tempo pieno della vita soltanto nell’età in cui tutto è indeciso, tutto è possibile. Il tempo della nostalgia.

Che fare? Si parla spesso della maturità che porta un giovane a superare le soglie della gioventù, ma poco o nulla di quel misterioso passaggio tra l’età adulta e la terza età.

Io non ho compiuto studi né elaborato strategie che mi possano dettare norme di comportamento. Chiederò senz’altro aiuto alla mia adorata figlia Francesca e alla sua amata filosofia.

Posso dire però, senza incorrere in improponibili ritorni d’un tempo perduto o suggerire imitazioni, che si possono immaginare modi di vita trascorsi che meritano di essere sperimentati in forme nuove.
Con istintivo pudore, ma senza timore, senza vergogna, senza abbandonarsi al luogo comune che pretende coltivare la saggezza solo nel passato.

L’ingrediente principale di una simile ricetta resta comunque, prendendo a prestito le parole mai dimenticate del filosofo Fulvio Papi: allontanare il naso dalle cose, una certa ironia sull’efficienza della propria figura e soprattutto “navigare tenendo presente che la terra, anche se non è visibile, è vicina”.

A proposito di vecchiaia.  Lo psicoterapeuta Fulvio Scaparro, con Papi altro grande amico di Vidas, raccontò tanti anni fa di un incontro, avvenuto nel 1944, con lo scrittore e sceneggiatore Cesare Zavattini. Alla fine propose alcune sue riflessioni “che oggi – disse – da vecchio, vorrei fossero lette ai giovani per evitare di ripetere nostri errori”.

A mia volta le giro, volentieri, a mia nipote Sofia.
“Non c’è idea politica che mi farà credere che i posteri sono da amare più dei contemporanei… Ho fede negli uomini che fanno il bene subito, non per domani e la conoscenza di parecchi praticanti l’amore per l’avvenire mi convalida l’opinione… Costoro, miei, tuoi amici, dicono di amare le generazioni future, l’umanità. Astrazioni comode, è di straordinaria difficoltà amare il tuo prossimo, prossimo nel tempo e nello spazio. …Il mio subito è un subito implacabile, tutt’altro che pietistico, ma faticoso, da gridare basta, al diavolo, via… Questo subito è concreto, è la giornata con le sue numerose occasioni, sono le ore e i luoghi, è la fusione con l’albero, il paesaggio, un volto, non di là da venire, ma esistente quanto basta per provarmi”.

 

Sì, un manifesto di programma al quale mi sento di aderire. Di qui all’eternità.

 

25 aprile
Non è stato un miracolo

 

Nello strano cocktail imposto dal diluvio di notizie di questi tempi, si fatica a trovare una traccia, un sentiero da seguire.
Anche questo 25 aprile, trascorso per la prima volta con piazze e strade vuote, non fa eccezione.
Osservo stamane le immagini della videocamera che mi mostrano Piazza del Duomo deserta. Fa uno strano effetto.

Il primo pensiero è che di questa data presto non resterà che la memoria.

Quando ho visto Piazza del Duomo piena per l’ultima volta? No, non era il 25 aprile dello scorso anno, ero altrove. È stato a fine febbraio, primi di marzo del 2019, alla manifestazione per i diritti. Una gran folla, come non mi capitava da decenni, con la gioia diffusa di esserci.

Ricordo gli slogan.

“Siamo tutti sulla stessa barca”, “People. Prima le persone”, “Siamo dello stesso sangue, fratello, tu e io”, “Siamo tutti meticci”, “Siamo tutti uguali”, “Sui diritti non si torna indietro”, “Proteggere le persone, non i confini”, “Il mondo che vogliamo è una storia a colori”, “No al razzismo”, “Io emigro, loro emigrano, noi emigrammo”. Frasi tanto semplici quanto chiare, dirette, che si lasciavano ascoltare, che non esplodevano in piazza come vecchi rancori sopiti.

Una piazza senza altro motivo conduttore che non fosse la gioia di stare insieme, che prova a unirsi anziché dividersi.

Perché, mi chiedo oggi, provai tanto stupore? Perché, mi ripetei allora, sono un giornalista che non ne azzecca una, che non sa più né ha la voglia di vedere e capire i ribaltamenti senza precedenti dei valori nella società in continuo movimento.

Non ci sono solo le maggioranze silenziose che non vanno per le strade e che, nel chiuso delle loro case, covano rancori, che non hanno pretesa di coerenza, che sfogano il loro risentimento qui e ora, avendo perso la dimensione dell’io collettivo e della rappresentanza. Populisti, si dice, ma più che mai donne e uomini disperatamente soli, perché hanno disimparato ad ascoltare, ovvero a mettere in atto la forma più grande non solo della generosità, ma della grandezza dell’uomo.

Forse nella piazza di quel giorno qualunque, senza memoria, giace la vera riserva etica, secondo la bella espressione coniata dal presidente Mattarella stamane nel ricordo del 25 aprile. Rassegnandoci che non sia condivisa e a sentire, con rabbia crescente, quei fischi osceni contro le bandiere della brigata ebraica.

Anche stamane sfoglio i giornali e trovo, come accade ormai da anni, la faticosa ricerca di altre memorie, il “25 aprile ma”. Rileggo anche storie tristi di tradimenti, rancori, vendette che precedettero e più ancora seguirono quella data gloriosa.

Fu per questo, la Resistenza, una battaglia inutile?
Sono fresco della lettura di uno straordinario volume, Storia della Resistenza, scritta da Marcello Flores e Mimmo Franzinelli. Un racconto vivido, senza rimuovere i fatti.

Da quell’intensa narrazione trovo testimonianze di quanto la Resistenza fu una guerra civile, come già aveva rammentato tanti anni fa un lucido quanto straordinario studio di Claudio Pavone. Insieme un movimento patriottico e antifascista contro il nemico esterno e interno.
Forse per questo “la maggioranza degli italiani non nutre particolare interesse verso quella stagione”, come dicono Flores e Franzinelli. Forse per questo, aggiungono, quella stagione è ancor più essenziale alla nostra democrazia.

Allora, al di sopra di ogni contraddizione, “pur essendo armati avemmo fiducia anche di un’altra arma, che è l’arma della democrazia”, scrive don Aldo Moretti delle Brigate “Osoppo Friuli”.

I due autori, a sintesi della loro fatica, hanno posto nella pagina iniziale il pensiero di Ferruccio Parri, uno dei più grandi protagonisti di quella stagione: “Rifiutiamo per noi le penne del pavone. Sono gli Alleati che hanno sconfitto il nazismo e la sua triste appendice. Dietro di essi abbiamo vinto anche noi. Non è stato un miracolo, ma è stato il riscatto di fronte al mondo e all’avvenire dell’onore nazionale; e questo riscatto, pagato col dono così grave del sangue più generoso, resta una cosa grande nella storia di un paese che pareva civilmente e moralmente paralizzato dall’inquinamento fascista”.

Torno così per vie tortuose allo scorso anno, alla manifestazione per i diritti, una sorta di 25 aprile personale.

Allora ebbi la sensazione di liberarmi, anche solo per un giorno, del carico di narcisismo fasullo che fa da collante al mio, al nostro collegamento perenne con il nulla.

Oggi siamo di fronte a un nemico invisibile all’occhio umano, impalpabile che nelle nostre mura ci costringe a una resistenza disarmata, passiva.

Ancora una volta ci ripetiamo che niente sarà più come prima.
Ma siamo davvero convinti che sarà così?

 

26 aprile

Ode all’amata lingua


Ok boy,  mangiam fast il food”. Così quarant’anni fa titolammo sulla cronaca milanese dell’Unità un pezzo sull’ennesima apertura di un… fast food,come diavolo si dice in italiano? Panineria, paninoteca? Accidenti, non mi viene la parola.

Ricordo lo sberleffo voluto, perché il redattore capo ci rimproverò: quel titolo, disse non senza una buona dose di benevolenza e di ironia, era incomprensibile ai “lauradur”, le lotte dei quali narrò poi in uno splendido romanzo padano.

Erano gli albori di una stagione d’inondazione di parole straniere che non avrebbe conosciuto e non conosce sosta.

Stamane nelle schede dei quotidiani che ci preparano alla cosiddetta fase 2, leggo della possibilità di sfruttare la seconda casa “anche food delivery”.

Consegna del cibo a domicilio, è scritto nel traduttore automatico del computer. Perché non in italiano?

Va da sé che il presidente dell’Inps ha notificato nei giorni scorsi al garante il data breache non la breccia che si è aperta e la conseguente violazione del sistema dell’Inps da parte di ignoti.

Naturalmente siamo tutti in attesa della fine del lockdown,ovvero il blocco, la chiusura o l’isolamento o come accidenti vi pare.
Nel frattempo sfruttiamo, manco a dirlo lo smart working. Ovvero il lavoro agile che, come ci ha spiegato Beppe Severgnini sul Corriere di qualche giorno fa, non significa lavoro da casa, che per gli anglosassoni è working from home. Lo stesso giornalista si chiede perché mai dobbiamo sostituire le goccioline che trasportano il virus con droplete modificare il pacifico distributore in dispenser.

Si salva, per ora, la parola tampone, ma sono certo che la sfida verrà raccolta in breve tempo.

Al cronista che ha talvolta offeso la lingua italiana non spetta tranciare giudizi, convinto che la lingua è work in progress
(beccatevi questa, lavori in corso non fa figo).

Tuttavia mi chiedo: perché i linguaggi di genere, una volta ristretti nell’area di un mestiere specifico hanno debordato?

Perché voluntary disclosure, che al solo tentativo di pronunciarlo mi slogo le mascelle, se in italiano esiste la collaborazione volontaria nel rientro dei capitali dall’estero? Perché bail in e non salvataggio interno per le banche?

A volte la locuzione straniera fa da ipocrita velo a chiamare le cose con il loro nome. Lo svela il presidente della Crusca Claudio Marazzini, in un prezioso volumetto, curato da Claudia Arletti di Repubblica, intitolato l’elogio dell’italiano: “Quasi nessuno in italiano sa esattamente che cosa significhi stepchild, termine che la nostra legge ha abolito perché equivale a figliastro. Per la legge italiana il figliastro non esiste, perché è un figlio come tutti gli altri; eppure, detto in inglese, andava benissimo, non offendeva più nessuno. La legge sulla stepchild adoptionnon è stata fatta, ma la stepchildha riscosso un consenso nazionale”.

A proposito di cedimenti. Confesso che anch’io, da volontario della penna in Vidas, ho ceduto: dopo aver respinto vari tentativi e usato locuzioni tipo “chi si prende cura di una persona bisognosa di assistenza” sono uscito dal mio nascondiglio verbale a braccia alzate e ho scritto “caregiver”. Ma continuo a vergognarmene.

Io credo che la lingua, ogni lingua, tanto per celiare, sia “work in progress”e quindi sia soggetta a continui mutamenti. Altro è non già contaminare, ma cancellare di fatto ogni lingua in nome di un’unica lingua. Che per altro già esiste, essendo l’inglese di fatto lingua del mondo.

Altro ancora è preservare la nostra (e le altre) lingue nazionali che sono tesori inesauribili di cultura e conoscenza.

Io da cronista non sono preoccupato della tempesta di neologismi che si abbatte sulle nostre teste, ma dell’impoverimento delle nostre parole. Amico, ha rilevato Stefano Bartezzaghi, non indica più una relazione umana profonda, ma un semplice contatto, poco più che una reperibilità tecnologicamente facilitata”.

Questo il vero rischio, altro che i neologismi.
E allora, caro vecchio capo redattore: “Ok boy, mangiam fast il food”.

 

27 aprile
Giorgio, morte di un uomo buono

 

Non ho raccontato in questo diario della morte di un uomo buono.
Da due giorni Laura mi chiede: perché?

Provo a giustificarmi.
Non l’ho fatto perché queste sono cronache virali e la morte di quell’uomo non è legata al coronavirus, ma a un infarto che l’ha sorpreso riverso sul divano, forse nel sonno, forse in quella terra di nessuno che ci fa raggiungere il balzo delle immagini in tv, con l’espressione composta e le sole mani serrate a narrare l’indicibile.
Perché è affar mio, perché i sentimenti, per pudore, perché il privato, perché qui d’altro si parla. Perché, perché…

Ma quella morte mi appartiene, anche se altri più di lui attraversano la vita che mi è concessa. Tacerne è negarla a me stesso.

Mi appartiene perché il destino ha voluto che con me abbia avuto uno dei suoi ultimi colloqui. Forse tra noi il più lungo scambio di chiacchiere di un’intera vita, complice sì questa pandemia che sa offrire, in tanta sofferenza, squarci d’inedita bellezza.
Perché in quel dialogo, gioioso e giocoso, mi ha confessato per la prima volta la sua ansia di futuro. Un futuro prossimo.

Nulla di eclatante, non imprese, non viaggi mirabolanti di chi a nessuno deve rispondere. Non era nella sua indole.
Solo la volontà, dopo aver superato la soglia dei cinquant’anni, di prendere per mano una volta per tutte la propria vita, dopo averla piegata per tanto tempo alla traversie, sino alla morte della madre e del padre.

A un passo dall’amato fratello, dalla sua dolce compagna e dalla nipote. Un porto sicuro. Che volere di più?

Uomo buono, lo scrivo e lo riscrivo. Sono certo che, dovunque si trovi, mi perdonerà l’uso di un aggettivo in apparenza tanto generico e che non gode di buona fama. Non sciocco, né condiscendente, né supino al volere altrui, come pretendono grammatica e sintassi dei giorni nostri. Buono perché capace di condividere le pene altrui, farsene carico, magari tra una giaculatoria irriverente e un’altra ancora, ma con la consapevolezza istintiva che la vita così è fatta e non ci puoi fare niente.
Ho attraversato per curiosità la selva di significati riservati a “buono”

E ne ho trovato uno che mi pare il più rispondente: “Ben disposto verso gli altri”.

Tale era, tale è stato anche in quell’ultimo, lungo dialogo.

Ha riso quando gli ho chiesto dei suoi progetti immediati. Gli pareva che il sostantivo “progetti” fosse inadeguato, che esprimesse solo spazi e luoghi lontani mentre il suo orizzonte di felicità era lì, in vista.

Aveva lasciato da poco il paese dov’era rimasto abbarbicato per mezzo secolo, prima per destino e poi per abitudine, istinto di conservazione, più che per convinzione.

Infine la recentissima decisione di andarsene, dopo la morte dei genitori, per avvicinarsi all’amato fratello. Che più diversi non si può. Forse perciò più uniti che mai.

Gli piaceva quel paese che aveva appena conosciuto. Sgranava nomi come un rosario, illustrava luoghi che forse nemmeno lui aveva ancora conosciuto. Come chi siede in poltrona al cinematografo (non a caso le cadenze sono di Amarcord) del suo sogno e pregusta dopo pochi attimi l’intera narrazione.

Gli garbava d’istinto quel luogo affatto diverso dal suo d’origine, la porzione di Brianza piatta e con un ginepraio di vie dalle mille fabbriche. Qui una terra ondulata, piena di curve, salite e discese verso il mare: la Romagna che si abbraccia con le Marche. Terra di motociclisti. Simpatici e svitati, mi disse.

Mi aveva sorpreso come avesse già sistemato nella memoria la sequenza dei nomi di quei minuscoli centri, grappoli di centinaia d’anime e insieme comunità.

Sognava di architettare prossimi incontri.

Aveva riso di gusto quando gli avevo suggerito di fare come Teo, lo zio matto di Amarcord, che sale su una pianta per gridare “voglio una dona!” e far sapere al mondo che il suo cuore ama come quello di tutti gli altri.

A proposito di pazzia, dopo aver gentilmente declinato la mia folle proposta di corse in casa (in cinquanta metri quadrati scarsi? E poi non è il mio genere, fallo tu, replicò), mi aveva confessato che il suo obbiettivo, più prosaico, era poter raggiungere al più presto il bar della piazza sottostante per una caraffa di buona birra e un caffè, pretesti liquidi per la chiacchiera, forse il cordiale più utile alle nostre esistenze. Il primo amico l’aveva trovato, un bresciano manco a dirlo, segmento di reminiscenze materne. L’altra metà delle sue origini.

Quell’uomo buono non c’è più.

Se n’è andato in silenzio, senza rompere, per usare l’espressione più viva del suo frasario d’essere mite.

Ha ragione Laura, anche questa è cronaca di un diario virale. Perché ciò è accaduto nel tempo del coronavirus.

Dimenticavo: tra le definizioni di buono c’è: sincero, non contraffatto, non falsificato.

Giorgio, così eri.

 

28 aprile
Il trionfo dell’antilingua

 

Sarà per via dell’umore, che tende all’instabile come questa giornata per ora carica di nubi che annunciano pioggia, ma ho la sensazione che nell’avvicendarsi dei giorni la situazione peggiori.

Tornano i cori degli arrabbiati, degli indignati, non c’è niente che vada bene. Per dirla con un titolo perentorio sono “tutti più rapidi dell’Italia”. A fare che? Ad aprire, tutto e subito (sarà vero?), tanto poi si potrà dire che è colpa di un governo di sconsiderati.

L’Italia è un popolo d’indignati, dagli ex presidenti del Consiglio agli ultimi della scala sociale. Indignati double face, pronti a intemerate in caso d’infauste recrudescenze del virus.

La proroga di alcuni provvedimenti di salvaguardia è vissuta come una “carneficina di posti di lavoro”.

Si scatena persino l’ira funesta della Conferenza episcopale italiana perché si dice no alle messe per un altro paio di settimane, forse pensando, senza dirlo, all’elevato numero di persone anziane che frequentano le cerimonie religiose e ai rischi connessi ai riti che fanno della prossimità un elemento saliente.

Niente da fare, è un governo senza pietà, è la rivolta dei cattolici. E meno male che il papa invita alla prudenza e al rispetto delle regole.

La frase, perfettibile, della possibilità di limitati incontri con parenti e affetti suscita risentimenti in chi vede l’ennesimo ossequio alle famiglie tradizionali, a scapito di altre unioni. Si cerca una mediazione: affetti stabili è politicamente corretto?
Così falliremo, così non reggiamo, dai ristoratori ai parrucchieri è un coro di reazioni e qualcuno è già nelle piazze con simboliche mani legate.

In questo vociare confuso non si distinguono più le rimostranze legittime da quelle strumentali. Nessuno, se non sconsiderato, potrebbe negare la gravità della situazione. Il crollo del Pil preventivato non è un esercizio astratto, ma il risultato di proiezioni serie, che fanno pensare a tempi difficili quant’altri mai dal Dopoguerra.

Forse perciò appare strumentale sollevare il coro e anche chi fa della cronaca il pane quotidiano dovrebbe saper distinguere, evitare che nel confuso marasma si perda la bussola. Far cronaca non è solo aprire il microfono e lasciare che le parole scorrano senza mediazione alcuna. Senza verifiche. Certo, a partire da chi governa e ha i maggiori oneri.

 

 

Un esempio. Il presidente del Consiglio insiste sulla liquidità concessa alle imprese, mai così copiosa, anche se non tutte le regole procedurali sono rispettate. È una questione di sopravvivenza. Sono in molti a pensare che se ciò non accadrà saranno accolite criminali ad avere comunque la meglio. Mentre la peggio toccherà a chi perde il lavoro.

Mentono coloro che lamentano il mancato arrivo di legittimi finanziamenti? Non credo ed è lo stesso presidente a doversi per primo chiedere perché questo denaro tardi tanto a giungere nelle mani e nelle tasche di chi ha bisogno, altrimenti con i numeri miliardari si rischia di far solo demagogia.

Certo il caso italiano è un groviglio non semplice da penetrare.

È stato possibile realizzare il tanto celebrato Ponte Morandi, oggi in dirittura d’arrivo, in forza di un’eccezionalità che ha imposto la trasgressione di regole obsolete e mai cancellate e che si riproporranno pari pari dopo che si saranno spenti i fari tricolori su Genova.

La burocrazia è un cappio che sta soffocando il Paese da ben prima che il coronavirus affliggesse le nostre contrade.
Perché non si riesce mai, dico mai, a venirne a capo?
Basta leggere le varie autodichiarazioni che sono state predisposte in queste settimane per giustificare le uscite. È una sequela di indicazioni del tutto superflue di articoli, commi e lettere.

È quella che Italo Calvino ha definito, con felice espressione, l’antilingua “il periodare goffo e gonfio di subordinate anche di grado molto elevato… la paura della semplicità che nasce dalla mancanza di un vero rapporto con la vita, che la lingua invece vive solo del rapporto con la vita che diventa comunicazione. Quindi dove trionfa l’antilingua viene uccisa la lingua”.

Ps Leggo stamane un’altra “non notizia” che riporto alla lettera.

“La quasi totalità dei contribuenti italiani si colloca in una fascia di reddito sotto i 50mila euro e solo il 4% dei contribuenti dichiara più di quella soglia, ma versa il 35% dell’Irpef totale. Nella classe fino a 15.000 euro si colloca il 46% dei contribuenti, che dichiara solo il 5% dell’Irpef totale, in quella tra i 15.000 e i 50.000 euro si posiziona il 49% dei contribuenti, che dichiara il 57% dell’Irpef totale. Ci sono poi i super-paperoni, quelli con un reddito complessivo maggiore di 300 mila euro che sono anche tenuti al pagamento del contributo di solidarietà del 3% sulla parte di reddito eccedente tale soglia: si tratta di circa 31.700 persone (0,1% del totale contribuenti), per un ammontare complessivo di 276 milioni di euro (circa 9.043 euro in media). Tutto ciò a fronte di un’evasione che secondo varie stime è intorno ai 100 miliardi di euro”.

Mi guardo attorno, tendo l’orecchio, ma non sento cori d’indignati. Forse sono sordo; pardon, diversamente udente. Alla mia età…

 

29 aprile
La gerarchia dei valori

Una giornata luminosa come di rado capita, dopo una notte di pioggia copiosa. I colori si fanno intensi e a ovest il massiccio del Monte Rosa la fa da padrone. Gli alberi della Montessori hanno preso il sopravvento e premono su vetrate e finestre della scuola, padroni del sapere in tanta solitudine.

 

Anche il vociare della cronaca pare più sommesso su siti e quotidiani. Vecchi protagonisti su versanti opposti, ma ora uniti, si danno appuntamento per progettare nuovi governi. Sono rumori lontani. Per ora. Ma già si avverte il clangore di vecchia ferraglia.
Più vicini e concreti i segnali dei dubbi che ora assalgono anche le nazioni guida dell’Europa. Germania e Francia mostrano maggior cautela dopo gli inquietanti segnali mandati dal Covid nella fase delle prime aperture.

No, non è facile decidere, anche per il futuro immediato, non per il domani, ma più prosaicamente per domani.

In questi giorni, dopo aver considerato per troppo tempo il sapere un optional, abbiamo scoperto quanto sia essenziale alla nostra vita quotidiana.

Certo i tempi del sapere sono lunghi e imprevedibili, mentre quelli del decidere sono brevi, dettati oggi dall’urgenza della crisi da affrontare e non possono attendere di conoscere tutto ciò che è necessario.

Le decisioni devono essere prese comunque, anche in condizioni d’ ignoranza, con soluzioni non giuste in assoluto, ma ragionevoli.

In queste settimane abbiamo scoperto il ruolo fondamentale del sapere scientifico e delle donne e uomini che ne hanno fatto un impegno di vita. Ma abbiamo anche capito che la scienza non possiede per virtù innata le risposte e ogni risposta è frutto di studio, faticose ricerche, sperimentazione.
Quanti dubbi sul coronavirus, sulla sua capacità di proporsi dopo incubazioni insolitamente lunghe e nella profondità dei nostri organi, sulle modalità di cura, sulla sua capacità di replicarsi. E poi, tornerà? Sì, forse, quando non si sa. E si lavora al vaccino, chimera per la quale un paio di miliardari del globo si dicono disposti a spendere le loro fortune.
Così abbiamo scoperto che se anche la scienza non è tutto, che può non sapere, della scienza e del sapere non possiamo più fare a meno.
Scienza intesa anche come metodo e quale approccio empirico.

Sarà proficuo se essa sarà capace, con saggezza, di “accudire”, nel rispetto dei ruoli, i processi decisionali suggerendo, nel quadro di ciò che si sa e di ciò che ancora non si sa, le soluzioni migliori e possibili per l’immediato e, nello stesso tempo, per spostare in avanti le conoscenze. E con essa la politica, la capacità, largamente perduta, di operare la miglior sintesi possibile dei saperi entro un quadro d’ideali non uguali, ma riconoscibili.

La pandemia non è la guerra, ci siamo detti e ripetuti in queste lunghe settimane. La guerra è ben altro, così dicevano i nostri padri, i nostri nonni e noi crediamo alle parole tramandate dalla loro memoria. Io stesso l’ho scritto in questo diario virale.

Ma ora che quei padri e quei nonni non ci sono più, ora che il vecchio sono io, che dico a mia nipote?

Altra verità non ho: siamo stati messi di fronte, d’improvviso, alla fragilità della nostra condizione umana. Al dolore, alla morte, se penso ai tanti che hanno perso una persona cara senza nemmeno darle un saluto.

Il fatto che oggi la stragrande maggioranza possa vivere questo cataclisma al riparo delle case, non significa che la profonda frattura, anche rispetto a un recente passato, non si sia creata.

Oggi non ci resta che sedere al tavolo e scrivere le nuove priorità. Le nostre private con una nuova gerarchia di valori. Per quelle pubbliche basta l’immagine dei presidi sanitari per capire quanto ricerca e innovazione siano il nostro futuro. Ne saremo capaci? La parola che più riecheggia oggi è disastro. Il vecchio maestro di cronaca, più volte citato, m’invitava alla prudenza nell’uso delle parole: una volta che hai scritto disastro, non c’è più vocabolo.
Mi accontenterei di ritrovare, seduti al mio fianco in platea, i professionisti delle chiacchiere e del nulla, gli sbraitanti analfabeti ascoltare chi sa decentemente il proprio mestiere: “Ofelè fa el to mesté”. Già, fossimo tutti pasticcieri, che gran banchetto la vita!

 

30 aprile
L’Italia s’è rotta (di studio e sacrificio)

Non siamo tutti pasticcieri, ma gran cuochi sì.
Quando si tratta di mettere le mani in pasta non abbiamo rivali.

Gianfranco Vissani, uno dei rinomati cuochi italiani, la professione più ambita secondo le recenti ricerche, si fa portavoce della rivolta: “Il virus è meno pericoloso dell’indifferenza di chi non vuol comprendere. Ci siamo rotti di mascherine e non mascherine”.
Insomma per dirla con lo chef, l’Italia s’è desta; meglio, s’è rotta. Risorgiamo l’Italia, a partire da grammatica e sintassi.

S’ode a destra uno squillo di tromba e la presidente del Consiglio calabrese, Jole Santelli, risponde e annuncia la riapertura di bar e ristoranti.

È la rivolta dei governatori. Alla faccia del governo e dei tecnici “con il mal di pancia”.

Conte, Colao e soci sono sotto assedio. Per sua fortuna il redivivo grillino Di Battista, in Italia per gentile concessione tra un viaggio e l’altro, pone fiducia sull’attuale assetto: “Mario Draghi? Dio ce ne scampi”. Fosse per lui il governo attuale sarebbe già finito a carte quarantotto, ma più grande ancora è il timore di dover fare i conti con uno che ha studiato.

Siamo in una fase delicata. Da lunedì si riapre, parzialmente e con prudenza. Due settimane di verifica, non un’eternità, anche per capire la possibile evoluzione della pandemia nel nostro Paese. Parrebbe buon senso, anche a chi non stravede per questo governo e viste le parziali retromarce di Germania e Francia. Poi parleremo anche di governo a suon di decreti. Per ora buonsenso.

Invece ci risiamo. All’estrema banalizzazione della politica, all’eloquio aggressivo e volgare che cerca di farla da padrone, a produrre con le parole, come ha scritto tempo fa il sociologo Giuseppe De Rita sul Corriere, il maggior impatto possibile, senza preoccuparsi di ciò che accade.

Più ancora della pandemia, sono le espressioni fuori dai denti o a muso duro che mi fanno accapponare la pelle.

Nel 2011 è uscita postuma per Einaudi una raccolta delle analisi scritte per il Mulino da uno straordinario osservatore della realtà italiana, Edmondo Berselli, morto proprio nell’aprile di dieci anni fa.

In conclusione del suo viaggio tra fatti e misfatti dell’Italia di allora, raccontati con inimitabile prosa, Berselli scrive: “Nell’Italia imprecisa dell’inverno fra il 2008 e il 2009, mentre si addensano segnali della crisi economica, sembra di essere tornati al buon tempo che fu. Un governo senza grandi qualità, l’annuncio di soluzioni ex lege. E sul fronte dell’opposizione, un disfacimento che sembra annunciare una resa: perlomeno all’idea che per assistere a una trasformazione dei rapporti di forza occorrerà per l’appunto un fenomeno naturale, un evento eccezionale, una dinamica poderosa e tellurica, qualcosa che favorisca alla fine un cambiamento non soltanto nella politica e nella cultura: semplicemente un radicale cambiamento di clima”.

Parole a dir poco profetiche che, a rigor di logica, peccano persino di ottimismo, perché la pandemia senza precedenti, l’evento eccezionale s’è avverato, ma non ha prodotto alcuna poderosa dinamica tellurica, per ora solo le consolidate e vane oscillazioni nel nulla.

Perché ci risiamo, così almeno pare al cronista smarrito. Ancora una volta la sensazione è che ciò accada perché si rinuncia alla conquista del sapere, alla fatica quotidiana dell’apprendere.

Tu devi studiare perché non devi parlare come noi, ripetevano un tempo ai figli i genitori meno fortunati e con loro partiti e sindacati che in maggioranza consideravano lo studio la strada maestra di un comune progresso.

Se è vero che la preparazione e lo studio non sono le sole condizioni per avere buoni risultati, è altresì indiscutibile che le luci della storia italiana si sono accese quando la democrazia è stata eretta, mattone dopo mattone, su fondamenta fatte di lavoro, studio e sacrificio.

Penso d’averlo già scritto in questo diario virale, ma giova ripetere.

Non è un caso che il documento più prezioso che l’Italia possegga è la Costituzione, scritta con pensieri alti e chiari, esemplari nella loro immediatezza.

Quella carta è sì una che “parla come noi” e non ci frega mai. Se almeno provassimo ad applicarla, anche solo un poco, giorno dopo giorno.

 

 

 

 

 

 

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