Orazio Pugliese, figura di spicco dell’editoria italiana e padre di Daniele, fondatore e direttore di TESSERE, e dei soci Davide, Andrea e Martino, è venuto meno il 7 luglio scorso, all’età di 90 anni a Viterbo, dopo aver trascorso gli ultimi anni in una casa di riposo a Sutri. Ne traccia il ricordo l’intellettuale senese Roberto Barzanti, figura di grande prestigio della politica e della cultura italiana.
Progettare un libro era per lui come costruire un edificio, stabilendo rispondenze e rapporti in modo da creare un oggetto chiaro e aperto, intelligibile a prima vista: uno spazio mentale da percorrere con agio. La metafora, Orazio Pugliese – morto a Viterbo il 7 luglio 2018 – la impiegò raccontando con appassionato scrupolo filologico la sua esperienza alla Sansoni e delineando con ammirato affetto la saggia conduzione di Federico Gentile. Lavorare a un libro – scriveva in quelle pagine preziose («Gentile editore…», Phasar, Firenze, 2016, p. 288) – comportava una cura «esattamente come per un costruttore edificare una casa». E aggiungeva: «Si badi come le parole edificio ed edificare siano affini a quelle di editore, editoria, editare e tutto diventa chiaro. L’affinità per chi opera e medita nel campo editoriale, per chi “edifica” un libro, non è incongruente».
Orazio praticava il suo mestiere sorretto da una severa visione etica e da un’autentica passione politica. Per questo definirlo un “grafico” è restrittivo. Anche “esperto di editoria” non la dice tutta. I saggi storiografici che ci ha lasciato attestano un impegno che si addentrava in ogni dettaglio del mondo editoriale. Sapeva che un libro è il risultato di una convergenza di apporti che dovevano sfociare in una costruzione priva di fronzoli, bellurie, ridondanze. La grafica di Orazio derivava da una lezione illuministica, geometrica, rarefatta, ordinata. E in essa si rispecchiava il carattere dell’uomo: cordiale ma con l’asciuttezza che hanno i piemontesi, amico ma geloso delle sue idee, attento a pronunciare le parole giuste, sferzante nei giudizi. Il rapporto con Albe Steiner non era stato vano.
Nato a Torino il 21 novembre 1928, quinto di sette figli, conclusi gli studi liceali, Orazio si iscrisse a Lettere. La vocazione umanistica soppiantò presto l’iniziale avvio universitario a Medicina. Gli anni della Resistenza furono una mai dimenticata scuola di formazione. Nel 1949 entrò nella redazione torinese de “L’Unità”: un mitico cenacolo di intelletti, che annoverava Italo Calvino e Paolo Spriano, Sergio Segre e Gianni Rocca. Il combattivo entusiasmo con cui il giovane comunista svolse il suo ruolo di cronista (fino al ’53) fu una pagina indimenticabile, rammentata sempre con gratitudine e orgoglio. Le tappe successive di un cammino lungo e operoso portano nomi prestigiosi. Negli anni Cinquanta, Orazio lavora alla casa editrice Einaudi come redattore. Era un periodo di duri scontri politici: Daniele Ponchiroli nel suo affascinante diario, sotto la data 5 novembre 1956, riporta un aneddoto che rispecchia l’asprezza di una svolta cruciale: «Stamattina in casa editrice, Lazzarotto ha rifiutato il saluto a Pugliese»” (La parabola dello Sputnik Diario 1956-1958, Edizioni della Normale, Pisa 2017, p. 36).
Nel ’60 si trasferisce a Firenze e prende servizio alla Sansoni. Quindi, all’indomani della rivolta del ’68, contribuisce alla nascita della Guaraldi, una piccola e vivace casa editrice che stampa titoli e autori intonati all’aria dissacrante e giocoso che si respirava. Da libero professionista lavora poi per il Saggiatore e per Bompiani. Lascia il segno più evidente del suo stile alla Marsilio, dove indossa le vesti di un impareggiabile art director. Molti altri nomi sarebbero da elencare: titoli di significativi segmenti di una vita tutta dedicata al libro quale mezzo principe di cultura e conoscenza. Non posso far a meno di ricordare le lunghe conversazioni fiorentine, che ci occuparono nel progettare un periodico che non vide mai la luce. Avrebbe dovuto esser pubblicato dalla Giunta regionale della Toscana. Le Regioni, da poco istituite, avevano suscitato una certa ebbrezza, facevano sperare in una riforma non effimera né oppressa da vecchie logiche.
La delusione fu grande quando ci dovemmo arrendere per una serie di intoppi politici. Il Consiglio eccepiva sull’iniziativa della Giunta. Anziché ad una rivista vivace e innovativa si preferì affidarsi alla grigia neutralità – pseudoneutralità – di uno dei soliti uggiosi bollettini più o meno ufficiali. Non era roba per le ambizioni di Orazio e per i suoi gusti sorvegliati, insieme aristocratici e popolari. Che finalmente si espressero in una rivista della quale discutemmo a lungo. Fu “Politica e società”, voluta da Alessio Pasquini, allora intraprendente segretario regionale del Pci. Avrebbe dovuto fornire analisi e contributi illuminanti a un partito frammentato e discorde come in Toscana è d’obbligo. Coautore del progetto fu il grande John Alcorn, che in Italia dette il meglio di sé in un’eccelsa stagione della Rizzoli. Il primo numero del mensile del comitato regionale del Pci uscì nell’ottobre 1976 e fu salutato con ammirazione perfino eccessiva, sospetta. Piacque, ma si disse subito che era troppo elegante. E che sembrava piuttosto adatta ad un distaccato lettore borghese. Alcuni tirarono fuori l’etichetta “longanesiana”.
L’aggettivo mandò in brodo di giuggiole Orazio. Una qualificazione più alta non si poteva chiedere. Dal numero due l’impianto di “Politica e società” fu stravolto. Imbrattato di rosso, con caratteri più marcati, si trasformò in una rivista al pari di tante: rozza e urlata. Altra battaglia persa.
Nell’ultima fase della sua vita Orazio tornò ai vecchi amori lavorando meticolosamente per alcuni dei mondadoriani Meridiani. Quanti ebbero a che fare con lui lo ricordano perché Orazio contagiava e coinvolgeva in operazioni che sono sopravvissute e documentano la sua suprema maestria artigiana, il suo senso dell’essenziale e del necessario. Le parole dovevano prender posto nella pagina come in un appartamento pulito e luminoso, non ingrigite né polverose, da sembrar scritte da poco con l’inchiostro. E venirti sott’occhio invitanti, scandendo un discorso ritmato da pause centellinate con pacata razionalità.
Orazio Pugliese è stato un protagonista della migliore editoria italiana anche se il suo nome, come capita ai tecnici più bravi del cinema relegati di norma nei titoli di coda, va scovato nei risvolti di copertina o scoperto in nota. Inciso per sempre a futura memoria.