Philippe Halsman, un ometto con l’aria da ragioniere, è stato uno tra i più creativi fotografi del ‘900. Inventore della Jampology sino agli scatti visionari con Dalì. Ma andiamo per gradi.
Nacque a Riga il 2 maggio 1906 da una famiglia ebrea. Il padre Morduch (Max) era un dentista e la madre, Ita Grintuch, preside di liceo. Halsman studiò ingegneria elettrica a Dresda.
Nel settembre del 1928 Halsman partì per un tour a piedi sulle Alpi austriache con il padre, Morduch; durante il viaggio il padre morì per gravi ferite alla testa, in circostanze mai completamente chiarite, e Halsman venne condannato a 4 anni di reclusione. Il caso venne sfruttato dalla propaganda anti-ebraica, arrivando alla ribalta internazionale, tanto che Albert Einstein e Thomas Mann scrissero a sostegno di Halsman. Venne rilasciato nel 1931, a condizione di lasciare l’Austria. Si trasferì in Francia, dove cominciò a contribuire come fotografo a riviste di moda, come “Vogue”, guadagnandosi una reputazione per ritratti caratterizzati da immagini nitide e scure. Quando la Francia venne invasa dai nazisti nel maggio del 1940, Halsman fuggì a Marsiglia, riuscendo ad ottenere un visto per gli Stati Uniti con l’aiuto di Albert Einstein (che avrebbe poi fotografato nel 1947). Negli Stati Uniti ottenne fama mondiale, arrivando a realizzare più di cento copertine per la rivista “Life”. Nel 1958 fu considerato fra i World’s Ten Greatest Photographers dalla rivista “Popular Photography” e nel 1975 ricevette il premio Life Achievement in Photography Award della American Society of Magazine Photographers.
Era il 1959 quando venne stampato “Jump Book”.
«Ogni volto che vedo sembra nascondere – e, a volte, di sfuggita, di rivelare – il mistero di un altro essere umano. Catturare questa rivelazione è diventato l’obiettivo e la passione della mia vita.»
Halsman applicò questa sua filosofia al lavoro di tutta una vita. Negli scatti di Halsman i ritratti dei volti famosi travalicano la mera testimonianza documentaristica, rubandogli un attimo di verità che fosse la rappresentazione di un aspetto interiore della persona. Un’opera di ingegnosa ricerca creativa che coinvolgeva i soggetti in situazioni divertenti ed originali. Halsman inventò la tecnica del “jumping style” o “jumpology” ovvero l’arte di ritrarre una persona che saltava evitando così che il modello potesse controllare l’espressione del viso ottenendo immagini spontanee e naturali.
La ragione di questi salti è semplice e Halsman, nel saggio contenuto all’interno del libro, spiega come “la scienza del salto” vuole che «quando si chiede ad una persona di saltare la sua attenzione è principalmente rivolta verso l’atto di saltare e la maschera cade, facendo apparire così la persona reale». Si esalta ed emerge la spontaneità, la personalità e anche il carisma della persona, che per un piccolo istante libera la mente da ogni pensiero quotidiano. Un’azione semplice ma altamente evocativa, simbolo di libertà e di gioia, così che, al termine di ogni servizio fotografico Halsman chiedeva ai suoi soggetti di fare un piccolo salto, cogliendoli nel preciso istante in cui i loro piedi si staccavano dal suolo e rimanevano sospesi a mezz’aria. “Jump Book” è un libro di quasi duecento fotografie che ritraggono celebrità della metà degli anni Cinquanta – politici, artisti, letterati e reali – intente a compiere questo preciso gesto.
Dal salto serio e un po’ ingessato del giurista Learned Hand a quello leggiadro di Grace Kelly, dal simpatico doppio ritratto della coppia reale il duca e la duchessa di Windsor a quelli un po’ alla superman di Thomas E. Dewei e Margaret Truman Daniel. Impossibili da non citare anche gli ormai storicizzati salti di Marilyn Monroe, Edward Steichen, Audrey Hepburn, Robert Oppenheimer, Richard Nixon, Weegee, Marc Chagall, Salvador Dalì e Brigitte Bardot.
Halsman e Dalì. Rendere reale il surreale
Halsman e Dalì avevano vissuto a Parigi negli stessi anni ma, nonostante anche Halsman frequentasse il “giro” dei surrealsti, le loro strade non si erano mai incrociate. I due si incontrarono a New York nel 1941, città dove erano arrivati a distanza di pochi mesi, e lì nacque un’amicizia ed una collaborazione artistica che durò 37 anni. il fotografo, non meno visionario del pittore, si era assunto il compito di rendere reali le fantasiose ossessioni di Dalì, allestendo set improbabili e riuscendo a ricreare con la macchima fotografica quel mondo paranoico-critico che ne affollava la testa:
«Tutti, soprattutto in America, vogliono sapere il metodo segreto del mio successo. Questo metodo esiste. Si chiama il metodo paranoico-critico. Da più di trent’anni l’ho inventato e lo applico con successo, benché non sappia ancora in cosa consista. Grosso modo, si tratterebbe della sistemazione più rigorosa dei fenomeni e dei materiali più deliranti, con l’intenzione di rendere tangibilmente creative le mie idee più ossessivamente pericolose. Questo metodo funziona soltanto alla condizione di possedere un dolce motore d’origine divina, un nucleo vivo, una Gala. E ce n’è soltanto una.»
Nel 1972 Halsman descrisse così la natura della loro partnership artistica:
«Almeno una volta all’anno ci incontravamo per giocare ad un gioco esilarante: creare immagini che non esistono, se non nella nostra immaginazione. Ogni volta che avevo bisogno di un soggetto straordinario per una delle mie pazze idee, Dalì si metteva gentilmente a mia disposizone. Ogni volta che Dalì immaginava una fotografia così strana da sembrare impossibile da realizzare, io trovavo una soluzione per realizzarla ».
Gatti che volano, secchiate d’acqua, oggetti sospesi con cavi di acciaio, un celeberrimo pittore che salta al comando del fotografo. Furono necessarie sei ore e 28 tentativi prima di ottenere un risultato che soddisfacesse il fotografo.
Il backstage consisteva in una stanza piena di assistenti che lanciavano gatti e secchiate d’acqua in aria. Halsman contava sino a quattro, poi Dalì saltava e gli assistenti tiravano i gatti, uno dei quali attraverso il getto d’acqua, mentre la moglie di Halsman, Yvonne, teneva la sedia (qui infatti si vede la mano, ma nella versione finale è tagliata).
Inizialmente al posto dell’acqua si era pensato di usare del latte!
“In Voluptas Mors“, ovvero la voluttà e la morte, ovvero Voluptas la dea del piacere erotico. I corpi delle donne completamente nudi e “voluttuosi” si avvinghiano a formare il tetro teschio simbolo della morte, che rendono più dolce. A confronto con Dalì Atomicus, In Voluptas Mors, è teoricamente semplice. Dalì e Halsman avevano architettato tutto a dovere. Il primo aveva realizzato uno schizzo di come i corpi avrebbero dovuto essere disposti a formare questo grande tableau vivant e il secondo, sul set dispose tutto affinché l’idea prendesse concretezza e forma. Un teschio formato da sette corpi femminili nudi. Sette corpi come i peccati capitali, dei quali è uno ad assumere particolare rilevanza. Il peccato della carne, del desiderio, della voluptas, appunto. In sole tre ore di posa, il gioco era praticamente fatto.