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Quella volta che FF mi chiamò «Caro amico»

Il 31 ottobre di 25 anni fa, nel 1993, moriva Federico Fellini, il Maestro, FF, amato o vituperato e comunque indiscusso “mago” del cinema italiano e del cinema italiano nel mondo. Andrea Guermandi, firma di spicco di TESSERE e prima ancora de “l’Unità” che più di una volta ha avuto occasione di incontrarlo, lo ricorda con questo articolo.

Non ha mai amato le interviste e dunque sono rare. Preferiva far parlare i suoi film, le sue battute, i suoi ricordi. Belli e brutti. E proprio nello scorrere di uno dei ricordi più brutti – la malattia improvvisa, quel malessere al Grand Hotel di Rimini e la successiva riabilitazione in un centro specializzato di Ferrara – un’intervista ha potuto svilupparsi, mostrando l’uomo mai disgiunto, però, dall’artista.

Ricordo che prima di quella straordinaria occasione e del male che poi piano piano lo porterà alla morte nel 1993, il Maestro si intrattenne con André Delvaux che trasformò una lunga chiacchierata in un film intervista eccezionale.

Perché, siamo nel 1961, Fellini anticipa quasi visivamente alcuni episodi cinematografici che poi ritroveremo, più avanti negli anni, in pellicole straordinarie come I Clown e Roma.

Federico comincia a parlare, in quell’occasione, di un progetto mai realizzato: un film con Sofia Loren che si sarebbe potuto intitolare Viaggio con Anita, scritto prima de La dolce vita. Si sarebbe trattato di un ritorno alla provincia, vista non con la tensione della memoria e del presente reale, ma attraverso miti fantastici e sentimentali del passato: Dice: «La necessità di archiviare definitivamente nella memoria cose che non sono morte, che non sono più vive, e la scoperta di accettare il presente per quello che è, senza più questa compiacenza fantasiosa e molle di certi miti della memoria».

Ma poi concede le sue memorie: «Se ripenso alla mia infanzia vedo un ragazzino abbastanza antipatico nel suo modo di essere istrione, di essere bugiardo, di fingere, di atteggiarsi. Quando ero ragazzino, io ero estremamente magro, molto magro e molto pallido. E c’era anche un compiacimento in questo aspetto leggermente inquietante perché avevo gli occhi grandi ed i capelli neri. Allora tentavo di sottolineare questo aspetto un pochino lugubre vestendomi di nero, con le calze nere, poi avevo una frangetta nera tagliata alla bebè con i capelli lunghi».

Fellini ricorda il collegio da cui scappò per assistere ad un malore di una zebra del circo e le bugie che disse per essere commiserato e vivere per qualche ora l’atmosfera delle paillettes e dei numeri circensi. Narra di aver tentato, per finta, un suicidio, imbrattandosi la faccia di sangue. «Ho preso l’inchiostro rosso e mi sono sporcato tutta la fronte e le mani e poi siccome la nostra casa al secondo piano aveva una scala interna che andava a pianterreno, mi sono sdraiato in terra e ho aspettato che qualcuno si affacciasse, mia madre o mio padre e immaginavo la scena che avrebbero visto. Sono rimasto lì un quarto d’ora, il pavimento gelato e poi cominciava a prendermi una strana paura che forse potevo morire sul serio e poi mi prendeva anche la paura che mia madre vedendomi dall’alto così spezzato, così morto, potesse impazzire. Però continuavo ad aspettare perché era talmente intenso il piacere, la voluttà di gustare il dolore degli altri per me, che ho resistito per tre quarti d’ora immobile, tremando dal freddo. Ma non è venuto nessuno. A un certo momento è venuto mio zio, invece, che ha aperto il portone: vai a lavarti la faccia, buffone. E allora ho sentito un odio profondo per quest’uomo che con questa frase mandava all’aria tutta una recita».

Era così FF. E anche nel raccontare la sua Rimini la ricrea altrove perché «poi ho fatto gli studi a Rimini, il ginnasio, il liceo. Naturalmente non ero uno studente esemplare e quel periodo di vita è abbastanza simile a quello che ho raccontato ne I vitelloni, con queste passeggiate, l’attesa dell’estate, l’inverno. Perché in Italia, la provincia, durante l’inverno non è soltanto così disperata e vuota e immobile come sembra, è un’immobilità sotto la quale cresce qualcosa, cioè fermenta qualche cosa. In definitiva, credo moltissimo agli artisti che vengono dalla provincia, perché la loro formazione culturale si svolge veramente sotto il segno della fantasia, cioè sotto il segno di qualche cosa che, costretta dal torpore e dall’immobilità, si sviluppa per una via fantastica che è la ricchezza più grossa che un artista possa desiderare».

Quando stava a Roma, in via Margutta, via forse scelta perché lì avvenne un episodio, nel ’43, che fu miracoloso (era appena sposato e sfuggiva alla guerra, ma un tedesco lo caricò su un camion e lui fingendo di conoscere un capitano ne scese e lo raggiunse), succedeva che spesso, rispondendo al telefono, imitasse la voce della cameriera scusandosi poi perché il padrone non era in casa, affermando in questo modo bugiardo il diritto a non essere scocciato.

Nel corso degli anni, però, il Maestro si è addolcito, diventando più tollerante e dopo il malore ancora più disponibile. È di questo periodo infatti che ricordo una piccola intervista che gli feci a Ferrara nel suo luogo di riabilitazione.

«Ho saputo del guaio che mi era successo – mi disse – dalla tv e dai giornalisti e si figuri quindi a proposito di fiato sospeso, quanto sospeso fosse il mio. Ci crediamo immortali, invulnerabili e quindi nonostante la notizia fosse detta con brutale chiarezza ho pensato ad un omonimo, ad un altro regista un po’ più sfortunato di me che me ne stavo a godere la convalescenza nell’amato Grand Hotel di Rimini. Poi un ometto togliendosi di testa un cappello da ammiraglio mi ha detto porgendomi un biglietto da visita: “Sono l’avvocato Carciofi. Gli avversari mi conoscono bene e tremano quando sanno che in un processo faccio il Pubblico Ministero. Lei caro Maestro questa storia non la deve far passare liscia. Assumo io tutte le responsabilità e le garantisco che può chiedere danni in termini di cifre da far tremare le banche svizzere. Parola di Carciofi”. Non ho dato questa soddisfazione al combattivo avvocato. Anche perché la notizia era vera e tutti i tg la confermarono, arricchendola di particolari. Arrivavano telefonate e telegrammi da tutte le parti del mondo e mi sono accorto con imbarazzo e commozione che c’è moltissima gente che mi vuole proprio bene. Non fare il pataca dicevano molti telegrammi, Ma son scherzi da fare? Vogliamo vedere ancora i tuoi film. Anche il portalettere nel consegnarmeli a pacchi si asciugava le lacrime: “Signor Federico, ho un cugino che lavora alla farmacia del Borgo (Rimini vecchia) e lui la può mettere a posto”. Faceva la croce e si baciava le dita».

Gli domandai poi se la fama nera del film mai fatto, Mastorna, avesse una qualche responsabilità “iellatica”. E lui rispose:

«Mastorna non c’entra nulla. Sono al corrente delle leggende che in parte io stesso ho inventato sul calamitoso Mastorna, ma questa volta l’amato progetto non ha alcuna colpa, né io so tuttora trovare una causa a questo sciagurato appuntamento. Molti dicono l’età, gli strapazzi, le tensioni: comunque è successo. E adesso si tratta di percorrere questo tratto di strada un po’ impervio ed oscuro, cercando di raccogliere ciò che è possibile. Per avere la giustificazione di raccontarlo.

Caro amico, la ringrazio per le domande garbate, affettuose, alle quali ho cercato di rispondere forse con eccessiva discrezione. Ci rivedremo dopo il 5 settembre al Gran Hotel di Rimini dove ho intenzione di trascorrere ancora qualche giorno dopo essere uscito da questo centro di riabilitazione di Ferrara di cui continuerò a dire meraviglie per tutta la vita. Arrivederci, buon lavoro e buona fortuna, suo Federico».

Ecco, questo è il mio ricordo tangibile di un grande uomo, straordinario artista che non potremo fare altro che rimpiangere. Tutti insieme.