ATTUALITÀ IL PERSONAGGIO MEMORIE VISIONI

Quando Primo Levi
mi confessò la sua angoscia

Storia di un'amicizia. Contrassegnata dal legame dell'ebraicità. È quella con Primo Levi e la racconta Ugo Caffaz. Che poco prima della morte dello scrittore ricevette una eloquente lettera sul male che divorava quell'uomo.

Quando nella primavera dell’87 morì Primo Levi la cultura italiana perse uno degli intellettuali più importanti – oserei dire più “utili” – del Novecento. La sua riflessione sulla Shoah in realtà coincideva con quella sul mondo e sulla condizione umana.

Veniva meno per me l’unica persona per la quale ho nutrito un’ammirazione senza limiti e, non sembri strano, ho provato un affetto del tutto particolare. Primo Levi aveva infatti scandito i tempi e i modi della mia formazione culturale, della mia maturità. L’avevo conosciuto a Torino, dove ho vissuto diversi anni, in casa di Arrigo Vita – primo traduttore del Diario di Anna Frank – nella quale abitava anche Leonardo Debenedetti, l’amico medico che ritroviamo ne La tregua.

Avevano entrambi la volontà di testimoniare, volevano mantenere una promessa, un impegno preso nel campo di sterminio. Primo scriveva, Leonardo si rivolgeva direttamente agli increduli attirandoli a casa per mostrare loro le prove dello sterminio. Ed io, giovanissimo, li guardavo parlare fitto fitto, con curiosità e ammirazione. Era davvero lui lo scrittore che mi aveva così entusiasmato, mi chiedevo. Ma non ebbi il coraggio di parlargli.

Sarebbero poi passati una quindicina d’anni per iniziare un rapporto con lui. L’occasione venne nel 1978 quando curai un numero speciale della rivista “Il Ponte” in occasione del 40° anniversario della promulgazione delle Leggi razziali. Fra i testimoni di quella tragedia e anche sulle sue conseguenze (l’Italia non fu fuori dal “cono d’ombra dell’Olocausto”) non poteva mancare Primo Levi.

Lui ci riconsegnò quanto aveva già scritto ne Il sistema periodico dicendo che non aveva nulla da aggiungere. Non fu pigrizia, ma conferma dell’impegno che Levi metteva negli scritti sulla propria esperienza.

La cosa non finì comunque lì. Infatti quando la rivista andò in stampa, con lui e con Enriques Agnoletti andammo a consegnare la prima copia al Presidente della Repubblica: Sandro Pertini. Guardo e faccio vedere la foto di quell’evento con orgoglio.

Quattro anni dopo, nel 1982, organizzai per la Provincia di Firenze un viaggio di studenti e insegnanti ad Auschwitz. Telefonai a Primo per chiedergli di accompagnarci. Non nutrivo molte speranze. Lui invece accettò con entusiasmo anche perché, disse, voleva finalmente vedere il Memoriale italiano che, insieme ad altri reduci e artisti, aveva progettato, non avendo potuto partecipare all’inaugurazione due anni prima.

Si tratta di quello stesso Memoriale che il Governo polacco voleva distruggere e che, grazie al Comune di Firenze e alla Regione Toscana, troverà asilo e valorizzazione nel quartiere di Gavinana. Chissà come Levi avrebbe commentato quest’incredibile vicenda.

E siamo al 1986. In occasione di Firenze Capitale europea della cultura, il Comune finanziò un progetto che avevo in mente da tanti anni: un convegno internazionale sul fenomeno dell’antisemitismo che avrebbe poi avuto il titolo Ebraismo e antiebraismo, immagine e pregiudizio.

Naturalmente scrissi subito a Primo il quale mi invitò a Torino per parlarne. Ancora una volta ero emozianatissimo. Mi accolse nel suo studio, quello stesso studio dove aveva scritto, libero dal lavoro di chimico in fabbrica, tutti i suoi libri, in corso Re Umberto.

Subito mi chiese se mi era piaciuto la sua ultima fatica, I sommersi e i salvati. Sorpreso dalla domanda balbettai che quello “schema” descriveva bene il mondo di allora. E dico ora, ahimè, anche quello di oggi. Poi parlammo d’altro. Mi mostrò il suo computer e mi disse delle difficoltà incontrate all’inizio per usarlo, salvo poi non poterne più farne a meno.

Arrivammo però alla risposta negativa circa la sua partecipazione al Convegno di Firenze. Mi descrisse la sua situazione familiare. La madre e la suocera erano inferme a letto, bisognose da diversi mesi di assistenza continua da parte sua e della moglie. Aveva dovuto rinunciare anche ad un invito in America a cui teneva molto.

Immaginatevi come avrebbe gioito oggi alla notizia della traduzione in inglese dell’intera sua opera. In una parola era depresso. Successivamente mi scrisse ribadendo quanto già detto a voce. E anche dalla lettera, siamo alla fine del 1986, traspariva la depressione.

Ma in realtà, oltre alla famiglia, c’era dell’altro che lo angustiava, senza confessarlo. Erano i tempi del negazionismo di Faurisson: si stava avverando ciò che gli aguzzini dicevano ai deportati, cioè che se anche si fossero salvati, non sarebbero stati creduti raccontando la propria storia. Milioni di morti – uomini, donne, bambini –, le camere a gas, i forni crematori venivano giudicati una pura invenzione. Ma di questo la lettera non parlava o almeno non ricordo e purtroppo il foglio è andato smarrito.

Pochi mesi dopo cadde dalle scale di casa. Non desidero entrare nel dibattito se si sia trattato di una disgrazia o di un suicidio. La sua riservatezza e la sua umanità non meritano alcuna violazione.