Bologna, 2 agosto 2017, ore 10.25. In quel preciso istante Luca Bottura, giornalista e autore bolognese, accanto alla foto dell’orologio della stazione di Bologna che ha perso il tempo, fermo da 37 anni al momento in cui scoppiò la bomba, ha pubblicato sul suo profilo Facebook:
«Sono esattamente trentasette anni che mi sembrano sempre le 10.25».
Un momento che non si può dimenticare perché ricacciò in un attimo il Paese in un contesto di guerra (la più grande strage di civili dopo la fine del secondo conflitto mondiale) e perché, al di là degli accertati esecutori appartenenti alla formazione neofascista dei Nar e degli accertati depistatori appartenenti anche ad alte cariche dello Stato, nulla ancora si sa dei mandanti.
Ma un’altra considerazione pubblicata un’ora dopo dallo stesso Bottura, oltre a catturare un milione e settecentomila like, affianca al ricordo della tragedia un’altra ferita. Questo il post:
«Oggi avrei voluto condividere il pezzo che sono stato più orgoglioso di scrivere in vita mia. Si intitolava Chiamiamola per nome: bomba fascista. Uscì su “l’Unità”, in prima pagina dell’edizione di Bologna, il 2 agosto del 2003. Ma non posso. Perché l’archivio de “l’Unità” non esiste più. Dopo aver distrutto il giornale fondato da Antonio Gramsci, il Pd ha anche inghiottito la sua Storia, nel buco nero di chissà quale server non pagato da chissà chi. Ovviamente il mio articolo è piccola e misera cosa rispetto a tutto ciò che quel giornale ha rappresentato per questo Paese, per la vicenda del partito che lo editava, per il progresso politico e morale di un intero popolo. Forse, oso pensare, persino più di “Democratica” o dei post di “Matteo Renzi News”. Se qualcuno si peritasse di recuperare quell’archivio e di metterlo a disposizione degli italiani farebbe cosa buona e giusta. Per dimostrare coi fatti che non si calpestano e non si bruciano le proprie radici. Ma fate presto».
Nel giorno in cui la memoria si rinnova, c’è un altro patrimonio di memorie che rischia di andare perduto: l’archivio storico on line de “l’Unità”, un patrimonio di testi e di foto che racconta la storia degli ultimi novant’anni. Un giornale che da subito, come si vede nell’immagine, attribuì con certezza la matrice fascista dell’attentato, come si legge nell’articolo sulle prime indagini firmato due giorni dopo la strage dal “mitico” nerista e giudiziarista della redazione di Bologna Angelo Scagliarini. Matrice fascista ricordata sulla lapide posta nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione e ribadita nel pezzo scritto su “l’Unità” in occasione di un anniversario da Bottura, che ne va giustamente fiero.
Sulla conservazione della memoria interviene, sempre su Facebook, Daniele Pugliese, che è stato vice direttore de “l’Unità” negli anni Novanta (quando Bottura scrisse quel pezzo) e che ora dirige questa rivista online:
«Caro Luca Bottura, grazie di questo post. L’archivio de “l’Unità” conserva anche un mio pezzo in quella data, certamente uno il giorno dopo quando da tutta Italia, anche da Firenze, giunse la solidarietà alla città che poi ho amato tanto: seguii quei manifestanti per raccontare la loro rabbia, ma anche la loro determinazione, una cosa che ormai, al netto della rabbia, si trova solo con il lumicino. Mi accolse in redazione Jenner Meletti, all’epoca caporedattore della redazione di via Barberia e poi il miglior inviato che da caporedattore in via Barberia ho avuto a disposizione. Spero tu sappia che con altri ex-colleghi (ormai anche quelli che chiamavamo ancora colleghi, malgrado loro lavorassero ancora là e noi no, sono diventati ex-colleghi) abbiamo fondato una associazione che si chiama “Sotto la Mole” in onore della rubrica dell'”Avanti” di Torino dove Gramsci mosse i suoi primi passi da giornalista (mestiere scelto dal fondatore non solo del Pcd’I, ma anche de “l’Lavoratori l’Unità“, che il libro di TESSERE Antonio Gramsci, Il giornalismo, il giornalista finalmente mette in luce) proprio con l’intento di salvaguardare gli archivi pubblici (come quello oscurato a cui ti riferisci) e privati (come quelli che molti di noi ancora conservano in soffitta) e poter conservare la memoria della storia dei giornali nati intorno al Pci e a chi ne ha, fino a un certo punto almeno, proseguito lo slancio ideale. Spero che vorrai unirti a noi in questa impresa».
A sua volta Serena Bersani, anch’essa ex giornalista de “l’Unità” e pilastro di TESSERE, precisa:
«Luca, il tuo pezzo, il mio, quello di Daniele Pugliese sono custoditi all’Istituto Gramsci, per fortuna. Ma il danno sull’online è già stato consumato. Fahrenheit 451».
Sarà davvero così? L’archivio online è destinato alla dissipatio? Forse no, sostengono alcuni, altri come Anna Tarquini lo sperano. E c’è chi suggerisce di cercarlo sulle reti libere, come si fa qui. Il problema è che se non si è indicizzati nei motori di ricerca è come non esistere.
Ma la forza della memoria in una giornata come il 2 agosto è travolgente e trasversale. Qualcuno commenta su Facebook che è stato il nostro 11 Settembre e che per questo non è possibile non ricordarlo. Anche lontano da Bologna, il pensiero va alle vittime, a chi è rimasto, al dolore di una città e del Paese, come fa da Napoli la collaboratrice di TESSERE Titta Schiraldi che scrive di getto questa “poesia civile”:
«Vedi alla voce “strage”, consulta giornali, libri, immagini dell’epoca, filmati, ricordi tuoi di come quel mattino s’incise nei tuoi giovani anni e non troverai soltanto i numeri di quel giorno – anche se sono i numeri che, da allora, ti martellano in testa: ventitré chilogrammi di esplosivo ottantacinque duecento ottantacinque duecento ottantacinque morti duecento feriti alle dieci e venticinque il due agosto dell’ottanta – che cosa c’è ancora, che cosa è rimasto?
Tra le rovine della stazione, c’è una bambola con i capelli biondi coperti di terriccio. Ma perché c’è sempre una bambola? E poi giocattoli. Zaini da vacanza. Costumi da bagno. Libri. Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt. Poi ci sono loro. Quelli privati del vivere. Quel che resta dei pensieri di ottantacinque anime. Ma perché le vedo tutte ferme, ancora là, bloccate nell’ultimo attimo, statue con gli occhi velati, che chiamano un nome, un volto, che cercano un ultimo ricordo? Nel rumore assordante e la concitazione dei soccorsi – i feriti! aiutiamo i feriti! tirateli fuori di là! – le vedo. Sono ancora là. Ottantacinque ombre che furono persone e ancora si chiedono “perché?”.
Una coltre di dolore – ancora così vivo – avviluppa i loro cari, chi è rimasto a piangerli sempre, a ricordarne particolari che nessuno saprà mai. Chi è rimasto a chiedere la verità. Tutto è cristallizzato in quel fermo immagine – le lancette saldamente aggrappate all’ora al minuto, al secondo in cui accadde – in quell’orologio ultratemporale, fermo: lo spartiacque tra il prima e il dopo. Non c’è stata né una vera giustizia, né una vera spiegazione. Sunt lacrimae rerum e nemmeno tutti gli anni trascorsi ne attenuano l’abisso».
No, non dimenticheremo, ce l’ha insegnato Primo Levi. Per dire «Mai più», «Zakhor!»