CRITICA FILM LIBRI

Quel “Gattopardo” sepolto dietro una nuvola di fumo

Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa può essere riletto a distanza di 60 anni dalla morte del suo autore fumando una sigaretta dietro l'altra, un po' come faceva lo scrittore rifiutato da Einaudi e Mondadori e riscoprendo molte cose che sono rimaste annebbiate in una coltre di fumo che solo fumando si può diradare. Lo ha fatto per "Succedeoggi" Nicola Bottiglieri.

Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa può essere riletto a distanza di 60 anni dalla morte del suo autore fumando una sigaretta dietro l’altra, un po’ come faceva lo scrittore rifiutato da Einaudi e Mondadori e riscoprendo molte cose che sono rimaste annebbiate in una coltre di fumo che solo fumando si può diradare. Lo ha fatto per “Succedeoggi” Nicola Bottiglieri.

NICOLA BOTTIGLIERI

Domenica 23 luglio 2017, a 60 anni dalla morte dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore del celebre romanzo Il gattopardo, sono andato a Via San Martino della Battaglia 2, a Roma, e davanti al portone della casa in cui morì, mi sono messo a rileggere la lettera con la quale Vittorini rifiutava di pubblicare il suo romanzo sia per Einaudi sia per Mondadori. Tomasi moriva amareggiatissimo per quel rifiuto; e inconsapevole che da lì a due anni il suo lavoro sarebbe andato a ruba in tutto il mondo. Non mi interessa ora riaprire la discussione sulle ragioni o le antipatie di Vittorini nei confronti del suo nobile conterraneo, né deprecare le ragioni ideologiche che portarono la critica di quegli anni a stroncare l’opera e nemmeno voglio arrabbiarmi perché Umberto Eco – in un articolo intitolato «Il gattopardo della Malesia» (mettendolo sullo stesso piano di Salgari) – definì Il gattopardo «eccellente bene di consumo». Oggi voglio solo cercare di capire come si vede il mondo attraverso il fumo di una sigaretta.

Tomasi ne fumava molte, tutte rigorosamente accese dalla parte giusta e aspirate con lentezza, come si conviene ad una persona che ha il gusto delle cose. Mi resta il dubbio: sapere come facesse a coordinare le mani su quel tavolino dove vi erano i fogli, il portacenere, il pacchetto di sigarette, l’accendino, la penna di riserva, la tazzina di caffè! Come faceva a non portare la penna alle labbra e la sigaretta sul foglio, quando era entrato (come dice Ugo Gregoretti nel servizio fatto nel 1960, visibile su youtube) nel «delirio creativo»? Fumava e scriveva. Scriveva e fumava. Dalle 9 del mattino alle 14, quando ritornava a casa per mangiare. Tutti i giorni, a Palermo, in un bar di Piazza Ungheria. In una foto presente nel documentario di Gregoretti, si vede la testa pesante intenta a guardare la punta del pennino, tutti segni della concentrazione della scrittura.

Di sicuro la borsa di stoffa la posava sulla sedia di legno plastificato accanto, sulla quale, forse, metteva anche il cappello. Qualche libro lo posava sul tavolino vicino, quando non c’era nessuno, in qualche modo si attrezzava in quell’angolo del bar nel quale sedeva, spalle al muro, ventilatore a giraffa sulla testa, porta a vetri su un lato. Ma si può osservare il mondo da un angolo di bar? Leopardi aveva scelto una siepe di un paesino delle Marche, Recanati, per vedere l’infinito, Borges aveva trovato in un sottoscala della via Garay di Buenos Aires l’Aleph, il punto dove si vedono tutte le cose, Lampedusa aveva trovato il suo osservatorio in un bar di piazza Ungheria a Palermo per vedere il passato della sua famiglia e attraverso le volute del fumo della sigaretta, anche il nostro presente.

Questo è il punto. Le sigarette non erano un aiuto alla scrittura, erano la scrittura.

Lui prima sputava una boccata di fumo davanti e poi vi leggeva quello che c’era scritto. Interpretava le parole, come fanno gli indovini quando leggono i fondi di caffè. Infatti, le parole di Lampedusa non dicono, ma suggeriscono. Dietro il significato evidente, dietro il suono delle sillabe, vi è un significato occulto, a volte opposto a quello che dicono. È una strategia di scrittura che vuole complicità con il lettore, non sudditanza. A volte è così lieve la differenza fra quello che la parola dice e quella che suggerisce che bisogna rileggere il testo. Gli austeri censori del romanzo non avevano capito che quest’opera è straordinaria non solo per quello che dice, ma per quello che non dice e lascia immaginare.

Faccio un esempio. Alla fine della parte terza, vi è la descrizione dell’ingresso del Principe nella stanza di soggiorno delle figlie, che sono Carolina, Caterina, Chiara e Concetta. (Non è un caso che i nomi delle figlie inizino con la C?) Ha appena finito di parlare con Don Calogero, con il quale si è messo d’accordo per il matrimonio fra Angelica e Tancredi, sacrificando l’amore di Concetta per il cugino. All’entrata nella sala tutte le donne lo salutano, ma non lo fa Concetta «che non l’aveva sentito». Uno si chiede cosa significhi questa frase: non aveva sentito il colloquio, non aveva sentito arrivare il padre, oppure lo disprezzava, dando al verbo sentire, il significato di “capire”, come fa altre volte? Ma chi è il vero protagonista del romanzo, il Principe o sua figlia Concetta? Padre e figlia, vittima e carnefice, simboli della casa ambedue!

Io credo che anche Visconti fosse consapevole della leggerezza di scrittura del romanzo, e che proprio questa robusta levità egli abbia cercato di rendere nel film allestendo scenografie superbe, puntuali ed insinuanti. Goffredo Lombardo, produttore della Titanus, raccontava l’aneddoto per cui le rose fresche dovevano venire con l’aereo da San Remo ogni tre giorni, altrimenti Visconti non le avrebbe usate. Altro particolare: se uno ascolta la voce del parroco quando intona il Te Deum a Donnafugata, si rende conto che il tecnico del suono doveva essere di primissimo piano, altrimenti l’effetto di voce paesana, umile e stentorea non sarebbe venuto! Insomma, il duca Luchino Visconti aveva sentito davvero Giuseppe Tomasi principe di Lampedusa e duca di Palma e si era stabilita una complicità carsica fra un milanese e un siciliano, che affondava le sue radici nella consapevolezza che un mondo era finito ed un altro era nato. Portandosi tutti i difetti e i pregi di quello precedente.

Tuttavia c’è un punto nel quale io dissento da Visconti. Egli dà poca importanza al cibo e – come sappiamo – molto spazio al ballo. Quarantacinque minuti al ballo e pochissime inquadrature al cibo. Certo, veder mangiare per 45 minuti un gruppo di persone è noioso, ma si è perso così il luccichio sensuale di queste deperibili opere d’arte. Vi sono nel romanzo tre pasti importanti: il primo nella casa di Palermo dove descrive l’assedio dei cucchiai ad una monumentale gelatina, mentre il principe pensa di andare a trovare la prostituta Mariannina; il secondo a Donnafugata in presenza di Angelica (il pranzo era più buono perché un’aurea sensuale era entrata in casa); il terzo infine nella scena del ballo dove la bellezza di Angelica travolge perfino lo stagionato Principe. E la fresca sensualità della ragazza rinvia ai vogliosi appetiti dei ballerini. Nella sala da buffet vi erano «immani babà sauri come il manto dei cavalli… beignets che le mandorle screziavano di bianco ed i pistacchi di verdino… collinette di profiteroles alla cioccolata, marroni e grasse come l’humus della piana di Catania… parfaits bigi che si sfaldavano scricchiolando quando la spatola li divideva, sviolinature in maggiore delle amarene candite… timbri aciduli delle ananas…ecc.».

Il rapporto fra sesso e cibo è suggerito ogni volta e la descrizione della suntuosità dei piatti e delle portate nella casa di Palermo dove si tiene il ballo è tale da far gridare al sacrilegio. La consapevolezza che egli ha dei labili confini fra il piacere della gola e gli osceni pensieri che questo fa lievitare si ha quando parla del dolce chiamato «le mammelle di sant’Agata»: «Di queste Don Fabrizio si fece dare due e tenendole nel piatto sembrava una profana caricatura di Sant’Agata esibente i propri seni recisi. “Come mai il Santo Uffizio, quando lo poteva, non pensò a proibire questi dolci? I trionfi della Gola (la gola peccato mortale!) le mammelle di S. Agata vendute dai monasteri, divorate dai festaioli! Mah!”».

Una scena bellissima del romanzo e del film è quando il Principe saluta il nobile Chevalley, venuto a proporgli la candidatura a senatore del nuovo regno d’Italia, con queste parole: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra». Parole monumentali, quelle del romanzo, aneddoto memorabile quello ricordato dal produttore Goffredo Lombardo. Per girare questa scena Visconti impiegò una settimana: Burt Lancaster salutava all’americana, muovendo tutto il braccio, Visconti voleva che il braccio fosse rigido e che si muovessero solo le dita della mano. Una settimana per farglielo capire, una settimana pagata a vuoto. Il film sfiorò il budget di un miliardo di lire agli inizi degli anni Sessanta, quando gli stipendi erano di 70 mila al massimo 100 mila lire al mese. Ci vollero degli anni per recuperare il danaro speso, ci sono voluti degli anni per far capire alla critica italiana che il romanzo Il gattopardo è un capolavoro.

Benedetti debiti della Titanus, benedette sigarette, benedettissimo Giorgio Bassani che lo fece pubblicare a un anno dalla morte dell’autore.

Leggi QUI l’articolo originale