Memoria è una parola che ha tanti significati, cambia di senso a seconda del contesto nel quale viene usata. Se dici «non ho più memoria», puoi voler dire che non ricordi situazioni o episodi della tua vita, oppure che nella memoria esterna a cui colleghi il tuo computer è finito lo spazio di archiviazione disponibile.
La memoria, dunque, è spazio di archiviazione: oppure no? Mai come in questo momento storico la memoria è un vuoto a perdere, un pozzo svuotato, slegato dal suo vincolo con persone e territori.
Malattie neurodegenerative sempre più diffuse colpiscono i centri di archiviazione della mente, depauperandola della memoria dei gesti più consueti, come lavarsi o nutrirsi, o degli affetti più cari, come i propri figli o fratelli. All’origine è il disturbo neurocognitivo lieve (noto anche come “declino cognitivo lieve”): un forma di deficit della memoria che può aumentare le probabilità di sviluppare, negli anni successivi, la malattia di Alzheimer.
Ma mentre gli anziani perdono quella più vicina a sé e sembrano non ricordare cos’hanno fatto la sera precedente o anche solo al mattino, i più e i meno giovani spesso difettano di quella derivata dalla lettura dei libri, e da quello sforzo mnemonico di conservare episodi lontani che possano essere importanti anche per l’oggi.
Memoria sono i misteri in base ai quali cancelliamo dalla mente quanto ci è risultato sgradito, o gonfiamo quanto ci è risultato straordinario, sono le connessioni con cui rimuoviamo o ripetiamo fino all’ossessione, le pasticche o il fosforo contenuto nei pesci, che, dicono, aiutano ad annodare il fazzoletto e ricordare, ricordare, ricordare ancora.
Anche la memoria collettiva degenera, sprofonda nell’approssimazione e nell’ignoranza, s’affida ai moderni banditori di verità preconfezionate, buone per tutte le stagioni, possibilmente così stagne che non possano essere messe in relazione con quanto si apprende dai libri di storia nemmeno con un piccolo sforzo di logica. Scrive lo storico Eric Hobsbawm nel suo ormai classico saggio Il Secolo breve: “La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono.”( Rizzoli, Milano 1995, pp. 14-15)
Se questo scollamento fra passato e presente era già evidente alla fine degli anni novanta del Novecento, a maggior ragione il ventunesimo secolo si è trovato con povere radici sempre più rachitiche e superficiali, a frugare nella terra quel che resta, pure i materiali di scarto. Del declino cognitivo collettivo gli attori sono molteplici: c’è la velocità, il perenne scorrere delle news nella rete, la lettura superficiale che fa sì che nulla si attacchi e se si vuole ripetere quel che si è letto, mancano subito i passaggi fondamentali; c’è il turbinìo di una vita che porta l’adulto a correre da mane a sera senza sosta, e poi a tracollare sul divano davanti alla tv, in una totale assenza da sé, e il giovine imbonito a rintronarsi davanti allo smartphone, in una totale assenza di sé.
C’è pure una qualche volontà di farci perdere in questo mare di imperdibili offerte commerciali, proni ma con l’illusione di far scelte, e la memoria ci potrebbe ricordare che altri erano i sogni e le strade per provare a realizzarli.
Per la nostra memoria resistono gli scaffali delle biblioteche o l’Archivio di Stato, i Musei dove vengono conservate le opere del passato sulle quali ci possiamo ancora interrogare in autonomia, senza sposare necessariamente la mostra ultimo grido del marketing. Sono memoria le collezioni dei giornali le cui notizie sono destinate a scomparire nel volgere di 24 ore o di qualche settimana di dibattito, ma capaci di ricomparire molti anni dopo nelle mani degli storici, pronti a ricomporre il puzzle di una narrazione che dura da millenni.
Poi ci sono i mirabolanti meccanismi che hanno consentito ad un Pico della Mirandola, ed a molti dopo di lui, di conservare una quantità sterminata di informazioni, con la capacità, peraltro, di saperle elaborare, di metterle in fila o in relazione tra loro, per trarne un ragionamento degno di questo nome: non piacerebbe anche voi esserne capaci?
Spesso memoria è la conservazione di quanto non si può e non si deve dimenticare, perché farlo sarebbe commettere un’imperdonabile leggerezza nel migliore dei casi, o addirittura un crimine nel peggiore, a meno che appunto non intervenga la fisiologia del cervello, e allora è un’altra faccenda. Fare un lifting a questa nostra memoria è ancora possibile? E chi altri potrebbe almeno provare, se non proprio noi?
Memoria è portare lo ieri nell’oggi e l’oggi nel domani. È la staffetta a cui si è destinati. TESSERE tenterà di indagarla quanto più a fondo possibile. Ci potete aiutare?