Letizia Battaglia è al Festival dei Matti di Venezia, nell’edizione del decennale. Conversa con il conduttore di Caterpillar Massimo Cirri e con Denis Curti, direttore artistico della Casa dei Tre Oci (che ospita alla Giudecca, in questi mesi, fino al 18 agosto, la grande antologica a lei dedicata, a cura di Francesca Alfano Miglietti). È anziana, ma non si vede affatto; come sempre – per chi l’ha incontrata nei decenni – è diretta, simpatica, a tratti tagliente: «Questo è il posto mio – commenta divertita – sono proprio una matta … tante cose sono, non solo una fotografa. Sono innanzitutto una persona». Lei, la prima fotoreporter a giungere sul luogo in cui venne assassinato Piersanti Mattarella; suoi gli scatti all’Hotel Zagarella che ritraggono gli esattori mafiosi, i Salvo, assieme a Giorgio Andreotti (e quelle immagini sono agli atti del Maxiprocesso): «I morti di mafia? – è amara, asciutta – L’odore del sangue non mi ha più abbandonato». Eppure, guai a darle etichette di comodo: «Dire che sono una fotografa della mafia mi sembra una minchiata pazzesca. – afferma con decisione – Casomai contro la mafia». Così come sostiene che il suo lavoro – globale, trascinante, un impegno che va dal giornalismo per il quotidiano L’Ora di Palermo alla fotografia di reportage, alla politica (consigliera comunale con i Verdi nella sua città, assessora con la Giunta Orlando, eletta deputata nell’Assemblea Regionale Siciliana con La Rete); cofondatrice del Centro di Documentazione Giuseppe Impastato – è poca cosa rispetto all’enormità dei problemi che si è trovata di fronte: «Non sono le fotografie a cambiare le cose; sono le idee, la politica. Se fossero servite le mie foto, la mafia ormai sarebbe morta. Eppure – prosegue – la mia macchina fotografica era come un altro cuore, un’altra testa, non solo uno strumento di lavoro. Era il mio cuore che parlava, e io mi commuovevo. Non mi emozionavo per il mondo; bisogna emozionarsi di sé, quando si vede il mondo. O almeno, una come me (che con la fotografia non ha un rapporto teorico, ma estremamente pratico) l’ha vissuta come verità. Come salvezza e come verità.».
Letizia è arrivata alla fotografia già adulta. Nata a Palermo nel 1935, madre di tre figlie, inizia la sua carriera giornalistica a L’Ora nel 1969. Nel 1970 si trasferisce a Milano dove incomincia a fotografare, collaborando con varie testate. Nel 1974 torna a Palermo e crea con Franco Zecchin (che sarà anche il suo compagno per un ventennio) l’agenzia Informazione fotografica, frequentata – fra gli altri – da Ferdinando Scianna e Josef Koudelka: «Sono gli anni – racconta Letizia – in cui comincio a guardare la città, a guardarla sul serio. Una cosa sono i problemi personali, nella vita; altro è essere testimone di tanto dolore, di tanta corruzione. Col passare del tempo, conosco le persone: il magistrato buono e quello corrotto; il poliziotto onesto; il bravo giornalista. È così che m’innamoro della fotografia, anche se non so nulla di tecnica. Tuttora – Battaglia ha la capacità innata di alleggerire improvvisamente il carico della sofferenza nel ricordo – non capisco nulla di due cose: tecnica fotografica e … fatture. Non sono capace di fare le fatture». Scompiglio in sala, nel Teatrino di Palazzo Grassi: «Se c’è qualcuno, forse un commercialista, che possa darle una mano …», ribatte Massimo Cirri. Lei prosegue imperterrita, segue un ragionamento nitido come le sue immagini: «Poi accadde che, nella vita del mio gruppo di fotografi, entrò un certo Josef Koudelka. Ho saputo dopo della sua testimonianza fotografica sulla fine della Primavera di Praga. All’epoca, lui guardava i miei lavori e diceva “Malo”, “Malo”, sempre “Malo”. È stato importante, anzi fondamentale avere una persona che valutasse i miei scatti, facendomi riflettere al di là delle emozioni, aiutandomi ad acquisire una certa professionalità. Prima, devo ammetterlo, avevo solo bisogno di guadagnarmi da vivere, perché avevo rifiutato gli alimenti e avevo tre figlie da crescere».
A chi le chiede com’è stato, dal 1974 al ’91, dirigere il team fotografico del quotidiano comunista palermitano, una donna tra tanti uomini, Letizia risponde con orgoglio e una disarmante sincerità: «Dura, è stata dura. Ancora negli anni Ottanta, quando arrivavo con i colleghi maschi sulla scena del crimine, loro li facevano passare, e io no. Mi mettevano all’angolo, tra le donne che piangevano, il volto coperto da un velo nero. Ad un certo punto, però, ho sviluppato un sistema infallibile. Le Forze dell’ordine mi bloccavano, i colleghi delle altre testate passavano avanti? Allora, cominciavo a strillare: «Lasciatemi passare! I maschi passano e io no!» strillavo talmente forte che, prima o dopo, esasperati, cedevano. Magari non c’era classe nel mio comportamento, ma non potevamo farci battere sul tempo dalla concorrenza … e quindi strillavo. Ricordo anche un poliziotto gentile, il capo della Squadra mobile di Palermo – la voce di Battaglia si addolcisce – Si chiamava Boris Giuliano. Rivolgendosi ai suoi ragazzi, con un’eleganza e una pacatezza impreviste (io che urlavo e loro che mi trattenevano) disse “La signora deve passare, sta facendo il suo lavoro”. Una brava persona, hanno ucciso anche lui».
Con i suoi colleghi, Letizia – togliendo tempo alla cronaca nera – comincia anche a frequentare il manicomio, la Casa dei Matti di Palermo: «Non sono entrata al manicomio per fare foto, ma perché quel mondo era sconosciuto per noi, un universo a parte. Nessuno si curava di quelle persone, ridotte a poveri corpi senza un’identità. Qualcuno girava con un sacchetto in mano per i corridoi. Dentro, magari, un pezzetto di sapone, un po’ di carta igienica, per mantenere un briciolo di dignità. Non sono entrata per le foto, ma si sa, per me è una malattia, finisce che fotografo sempre. La prima volta che sono riuscita ad interagire con una degente, è stato lanciandole una palla. Non sapevano neppure giocare, molti erano lì da sempre. È stata un’esperienza importante, un’esperienza di vita. Le foto sono venute dopo». Scorrono sullo sfondo gli scatti di Letizia Battaglia nel manicomio di Palermo: tragici, fortuiti, soprattutto reali: «Con queste persone, ed è un percorso che mi ha dato una grande soddisfazione, siamo riusciti persino a produrre laboratori teatrali. Ci aspettavano, ogni giorno, perché eravamo l’unico contatto con il mondo esterno». Intanto, fuori dal manicomio, la mafia allunga i suoi tentacoli sulla città. Insieme a Zecchin, Battaglia porta mostre fotografiche itineranti nei paesi, nelle cittadine siciliane, perché la gente veda e si accorga: «Ricordo con chiarezza – racconta dal palco del Festival dei Matti 2019, intitolato Gli anni. Legami di generazioni – la mostra a Corleone. Ricordo il capannello dei curiosi che si dirada e sparisce letteralmente quando, tra le immagini, spunta quella di Luciano Liggio, Lucianeddu… che tristezza, i siciliani credevano che la mafia uccidesse solo i mafiosi».
Letizia è sempre stata lì, presente, con la Leica al collo: «Mi prendo il mondo ovunque sia» è il suo motto. È stata la prima donna europea insignita a New York del premio “Eugene Smith”, il celebre fotografo di “Life”, nel 1985; nella lista delle mille donne segnalate per il Nobel per la Pace, il New York Times l’ha nominata (unica italiana) tra le undici più rappresentative del 2017. Quando glielo si ricorda, taglia corto: «Sei dite che le foto servono, sono contenta. Però resto dell’idea che la fotografia non cambi il mondo, né la mia né quella degli altri. Gli appetiti delle guerre, del capitalismo sono così forti che la fotografia, la cultura sono una parte della lotta, ma non bastano. Penso che niente possa cambiare il mondo, se non la propria coscienza. Poi – aggiunge – si cerca di parlare alla coscienza degli altri». Battaglia l’ha fatto, con tutto quel che poteva servire: i trecento scatti presenti ai Tre Oci di Venezia – quasi tutti in bianco e nero – ci parlano della città di Palermo colta nelle sue bellezze e nelle sue miserie; sono anche ritratti (per lo più femminili), o foto dedicate al mondo dell’infanzia: «Preferisco fotografare le donne perché mi ci riconosco. C’è quel qualcosa che ti unisce al presente, chiamatelo stile, se volete. È allora che lo scatto non racconterà solo della gente , ma anche di chi fotografa. Confesso che io voglio esserci nella foto, e non capita sempre .– sorride – Spesso sbaglio esposizione o inquadratura, e allora vado avanti lo stesso, fino a beccare l’immagine giusta». Viene da chiederle, quando è giusta una foto? Quando è bella? «Me lo chiedo di continuo – risponde serissima – ma non ho una vera risposta. A volte, ci sono fotografi stupidi che fanno belle foto, persone ciniche che realizzano scatti emozionanti: ecco, in questi casi mi stupisco. Me lo chiedo e poi rispondo per me: il mio mestiere è portare testimonianza. Se poi ci scappa anche una buona foto, meglio. Tutto qui».
Il pensiero, la necessità di agire con ogni mezzo a disposizione hanno condotto Letizia a creare una casa editrice, a pubblicare la rivista “Mezzocielo” che ha diretto dal 2000 al 2003 con Simona Mafai. Tuttavia, oggi, le piace parlare soprattutto del suo grande progetto realizzato, quel Centro Internazionale di Fotografia da lei creato a Palermo, all’interno dei Cantieri Culturali della Zisa: metà museo, metà scuola di fotografia e galleria: «Desideravo proprio questo, uno spazio ordinato, civile e rispettoso per parlare di fotografia, per dare la possibilità agli emergenti di farsi strada, per celebrare i grandi. È difficile, perché ci sono troppo pochi soldi, ma ci voglio credere. Qualche volta penso a cosa sarà del mio smisurato archivio quando me ne andrò via da questo mondo: non esiste Ente o Fondazione che prenda realmente in carico il materiale dei fotografi. Persino la città di Parigi ha rifiutato quello di Helmut Newton. In confronto alla popolarità di Newton, chi sono io?». A sentirla parlare, tornano alla mente quei due versi, tanto amati da Battaglia e cari a chi la conosce. Sono di Ezra Pound, dai Canti pisani: in traduzione suonano Strappa da te la vanità / ti dico strappala. Con la Leica al collo, e senza vanità: ecco il segreto, ecco la grandezza di Letizia.