ATTUALITÀ MEMORIE STORIE

Sesso, potere e morte nell’Italietta degli anni Cinquanta: il caso Montesi

È il 19 settembre del 1954. Il democristiano Attilio Piccioni, non solo ministro degli Esteri nel governo Dc-Psdi-Pli presieduto da Mario Scelba (il famigerato ministro di polizia), ma anche da qualche mese candidato a succedere ad Alcide De Gasperi nella responsabilità dell’allora maggior partito del Paese, si dimette dall’incarico e, in pratica, lascia la politica attiva. È il momento-clou di una drammatica e clamorosa vicenda cominciata come un comune fatto di cronaca nera: il ritrovamento, l’11 aprile dell’anno precedente, del cadavere di una ragazza, Wilma Montesi, sulla spiaggia romana di Torvaianica, presso Ostia. Se non che il comune fatto di cronaca nera si trasforma in uno dei più impressionanti intrighi politici del dopoguerra. Cioè, per far fuori dai giochi politici, come puntualmente accadde, il discreto Piccioni e spianare così la strada di Piazza del Gesù – strada asfaltata dai servizi segreti, da qualche magistrato in vena di protagonismo e persino dalla stampa di sinistra, caduta inconsapevolmente nella trappola – ad un altro concorrente alla guida della Dc: l’allora ministro dell’Interno Amintore Fanfani.

I più giovani non possono ricordare questa vicenda, i meno giovani ne hanno probabilmente memoria oramai confusa. Rinnoviamola, allora, questa memoria, o rinfreschiamola: più di qualcuno vi ritroverà l’atmosfera di più tardi eventi, un po’ più familiari e attuali. Un cadavere, dunque – e intatto – di una ragazza della piccola borghesia romana, la cui storia divenne pretesto di un affaire tanto più grande di lei; un affaire che si sviluppò a gradi sempre più alti e roventi, trasformandosi in un colossale evento mediatico, il primo vero evento mediatico del Dopoguerra, questo sì, e intriso della tipica morbosità dell’Italietta degli anni Cinquanta. Un evento che, come un rullo compressore, finì per travolgere un capo della polizia (Tommaso Pavone), dimissionò un buon ministro degli esteri, segnò il lento ma inesorabile tramonto di Scelba (sì, quello della colossale bugia sull’uccisione di Turiddu Giuliano), ma soprattutto rappresentò il trionfo di Fanfani, che in molti indicarono quasi subito come il vero, essenziale regista del caso Montesi con il malcelato obiettivo di far fuori dalla scena politica la prima generazione post degasperiana.

Un cadavere, dunque. Ordinaria amministrazione? Malore mentre la ragazza (21 anni, vergine) faceva un pediluvio per lenire certe piaghe ad un tallone? Appena una settimana dopo – siamo all’avvio di una campagna elettorale accesissima – “Paese Sera”, quotidiano di sinistra e, allora, il più diffuso giornale pomeridiano della Capitale, spara in prima pagina un titolo enigmatico: “La polizia ha scelto la versione della disgrazia. Molti punti oscuri”. Ancora una settimana ed il pur cauto “Corriere della Sera” informa che «le indagini sono state riaperte». Poi è la volta del “Roma” (organo del monarchico Achille Lauro) a rompere quello che qualcuno definisce un muro di omertà, scrivendo del coinvolgimento «del figlio di una nota personalità politica». È più di un avvertimento: si fa intendere che la morte di Wilma non sarebbe accidentale.

Ed è l’inizio di una valanga. Il 5 maggio, un settimanale satirico qualunquista, “Il merlo giallo”, pubblica una vignetta senza titolo: c’è un piccione viaggiatore che nel becco porta un reggicalze. Ai più il disegno è incomprensibile, ma qualcuno capisce che la vignetta “parla”, eccome: fa un duplice riferimento, a Piccioni (padre o figlio, al momento, non importa) e a un indumento intimo che, si era scoperto dall’autopsia, i cui particolari non erano tuttavia noti (chi li aveva rivelati e perché?), mancava all’annegata insieme alla gonna, alle calze e alle scarpe. Il nome-chiave è dunque chiaro. Ma appena tre settimane dopo, il 24 maggio, Marco Cesarini Sforza fa, su “Vie Nuove” (settimanale d’impronta Pci) il nome: quello del musicista Piero Piccioni, figlio appunto del ministro, come uno dei protagonisti del caso.

Nell’estate, con la vicenda apparentemente già quasi dimenticata, matura invece la bomba: un semisconosciuto rotocalco che ha qualche rapporto con qualche settore dei servizi segreti (“Attualità”, diretto da Silvano Muto) rispolvera il caso, ritira fuori il nome di Piero Piccioni, lascia intendere le presunte, grandi dimensioni dello “scandalo”. È, cioè, il preannuncio di un dettagliato memoriale (poi pubblicato ovviamente da Muto) che la “contessa” Anna Maria Moneta Caglio, ex amante del presunto marchese e avventuriero reale Ugo Montagna – un lurido figuro: ex spia dell’Ovra fascista e dei nazisti, sempre coinvolto in cento traffici poco chiari – consegna a un gesuita: ecco descritti nel memoriale i festini, ecco daccapo Piccioni, ecco soprattutto la “spiegazione” della morte di Wilma: deceduta nel corso di un’orgia con stupefacenti nella tenuta di Montagna, che, coincidenza, è vicina a Torvaianica.

C’è tutto quel che serve. E infatti il gesuita consegna il memoriale della Caglio (che verrà più tardi processata e condannata per calunnia) al ministro dell’Interno Fanfani che puntualmente – la regia è perfetta – dispone una indagine di polizia; l’indagine genera un’inchiesta giudiziaria che farà di un oscuro magistrato, il sostituto procuratore Raffaele Sepe, il disinvolto co-protagonista del pasticcio: amava esibirsi nei panni dell’integerrimo nemico di privilegi, si concedeva facilmente ai giornalisti, regalava loro sue foto, mostrava di gradire il plauso popolare. Un antesignano. Il procedimento andrà lontano, assai lontano e sempre più in alto, raggiungendo l’obiettivo prefissato in sede politica, mallevadrice una amministrazione giudiziaria romana ancora a lungo strettamente ammanigliata col Palazzo.

Intanto l’intreccio, tra crisi del vertice della Dc e gestione dell’affaire Montesi, si fa ancor più chiaro, addirittura sfacciato. L’organo dell’allora Psi, “L’Avanti!” denuncia che Giorgio Tupini (figlio di un altro ministro dc, Umberto) non è estraneo alla diffusione del nome di Piero Piccioni. E il governo – di Scelba! – annuncia, proprio in riferimento all’eco enorme del caso Montesi, nientemeno che «misure contro l’azione delle forze totalitarie di cui è stata provata la dipendenza da paesi stranieri». Siamo al grottesco. Ma non è finita. (Lo scandalo sfiorerà anche il Vaticano quando si scoprirà che il “marchese” Montagna era stretto amico del medico di Pio XII, Riccardo Galeazzi Lisi. L’archiatra che più tardi, alla morte di papa Pacelli, verrà sputtanato e cacciato con disdoro per aver fotografato il papa agonizzante e poi venduto le immagini ad un’agenzia di stampa).

La valanga ha effetto, eccome: l’inchiesta affidata a Sepe porta all’accusa e all’arresto per omicidio colposo di Piero Piccioni (se ne scaverà volgarmente la privacy sino a spettegolare sull’affettuoso suo legame con la bellissima attrice Alida Valli, oramai scomparsa) e, per favoreggiamento, di Ugo Montagna. A questo punto sono inevitabili le dimissioni di Piccioni dal governo. Sistemato lui, viene sistemato anche il comunista che aveva difeso Silvano Muto: l’avvocato Giuseppe Sotgiu, celebre penalista, oltre che ultimo presidente di sinistra della Provincia di Roma: viene sorpreso in una casa d’appuntamenti con la moglie e un ragazzino compiacente. Anche i moralisti di sinistra, insomma, sono sistemati grazie a una classica cortesia dei servizi segreti.

Ah, dimenticavo: il 27 maggio 1957 il tribunale di Venezia (dove il processo era stato trasferito per legittimo sospetto, pardon: per “legittima suspicione”) manderà assolti con formula piena tanto Piccioni quanto quel figuro di Montagna. Nessun appello a quella sentenza che invece, come si è detto, aveva condannato la Caglio e solo lei (risparmiati il gesuita-postino e il Muto-megafono). Praticamente tutti i protagonisti del caso sono morti e sepolti da tempo. La povera Wilma tornerà, giustamente, la vittima di un malore durante il pediluvio.

Chi ne voglia sapere di più ha a disposizione due libri ben fatti. Uno, il più recente, è del giornalista della “Stampa” Francesco Grignetti (Il caso Montesi, Marsilio edutore) che ha avuto modo, passati tanti anni, di recuperare documenti inediti e de-secretati: le buste dell’Archivio centrale dello Stato sono una miniera inesauribile sol che si sappia coltivarla. L’altro, più vecchio ma di maggior spessore sociologico, porta la firma dello scrittore tedesco Hans Magnus Enzenberger ed è in una raccolta di scritti vari su Politica e crimine (Bollati e Boringhieri editore). Uno di questi è dedicato proprio al caso Montesi. Sono andato a rileggermi il post-scriptum che qualche anno fa lo scrittore tedesco ha steso per una ri-edizione della sua raccolta. Ecco il passaggio che più intriga a chiosa di queste note: «quando morì la povera Wilma Montesi non si parlava ancora di Moro e di Sofri, di Gelli e di Craxi, eppure la logica surreale dei servizi segreti e della giustizia era già ben visibile sol che si avessero gli occhi per vederla (…) mi dispiace molto che questo libro non sia diventato superfluo». Chiaro, nevvero?