IDEE VISIONI

Sfida all’ultimo selfie… di dieci anni prima

Sembra proprio che nessuno riesca a sottrarsi alla moda di inizio anno, della quale si poteva serenamente fare a meno. Si chiama Ten Years Challenge e, come ogni tendenza che si rispetti da quando esistono i social, ha il suo bell’hashtag, #10yearschallenge, appunto. Altro non è che la condivisione di una propria foto di 10 anni fa, affiancata a una attuale. Tanto per vedere quanto si è invecchiati male, verrebbe da dire, o quanto i miracoli della medicina estetica abbiano migliorato l’aspetto.

Non c’è personaggio della politica, dello sport, dello show businness, della moda, del cinema, in tutto il mondo (quella parte del mondo che non ha problemi su come mangiare tre volte al giorno), che non si sia lanciato a postare istanti di vita del passato e del presente, rigorosamente a distanza di 10 anni, nella stessa posa, in qualche caso con la stessa maglietta e gli stessi pantaloni. In due giorni, solo su Intagram, l’hashtag ha generato 2 milioni e mezzo di post.

Un fenomeno virale, come cinque anni fa lo era stata l’Ice Bucket Challenge, la sfida a rovesciarsi in testa tinozze di acqua gelata davanti una telecamera. Ma almeno, in quel caso, era per una nobile causa: sensibilizzare l’opinione pubblica sulla sclerosi laterale amiotrofica e stimolare le donazioni per la ricerca. Già con questo obiettivo e pur avendo come “madrina” la Als Association, che raccoglie fondi per contrastare questa terribile malattia degenerativa, i filmati che spopolavano sui social network erano decisamente ridicoli.

Le foto a confronto – che per inciso hanno scatenato la fantasia dei produttori professionisti di tarocchi, con risultati talvolta esilaranti – sono invece l’espressione massima del narcisismo secondo alcuni esperti, dell’esibizionismo secondo altri, del business stando i più scafati. Inevitabile non tornare con la memoria agli show televisivi che andavano di moda nel decennio scorso, con vecchie glorie della musica, della tv e del cinema a scimmiottare i “se stessi” di parecchi lustri prima, alcuni con una robusta dose di autoironia che rendeva lo spettacolo meno patetico e più divertente. Ma si poteva capire, perché lì la comparsata comportava mettersi in tasca un lauto compenso, farsi pubblicità ed era comunque limitata a i vip.

Qui invece si va da Madonna al pizzicagnolo sotto casa. Senza pietà. Una specie di rimpatriata virtuale nella piazza on line offerta dai social, tra vecchi amici, appena conoscenti, sconosciuti contatti di Facebook. E tutti a dirsi «come stai bene, sei meglio ora». Esattamente come nelle cene di leva a venti anni dalla maturità. Che poi tra 18 e 28 anni, la differenza è relativa, pelle e capelli ancora tengono, il sale e pepe è lontano. Quando invece si sale di una generazione, dieci anni in più possono anche rappresentare un disastro. Allora meglio non postare la foto, o farlo scherzandoci su. Ma non importa la parola d’ordine è esserci, il come è relativo.

Ma se, come ipotizza la giornalista e scrittrice Kate O’ Neill in un post sul profilo Twitter, ripreso e approfondito in un suo articolo sulla rivista “Wired”, dietro a questi circences si nascondessero micidiali algoritmi che catturano i dati antropometrici oppure un sistema di riconoscimento facciale? «Dieci anni fa avrei partecipato allegramente con le mie foto a #10yearschallenge su Facebook e Instagram – scrive la O’Neill – oggi mi chiedo se tutti questi dati non servano ad addestrare gli algoritmi a riconoscere i cambiamenti somatici in relazione all’età».

È vero che i social – #10yearschallenge è stato lanciato su Facebook, come meme spontaneo, precisa lo staff di Zuckerberg – hanno già miliardi di foto dei propri utenti sicuramente a tutte le età, ma questa moda, prosegue la giornalista, potrebbe servire a testare un nuovo algoritmo basato sull’avanzamento degli anni o a incrementare le funzioni di una qualche intelligenza artificiale.

C’è da preoccupasi, perché i sistemi di riconoscimento facciale già esistono e si possono usare per ragioni di sicurezza, anche in barba ai regolamenti sulla privacy (come l’europeo General Data Protection Regulation-GDPR) o aggirandoli del tutto con studi sul comportamento che, non identificando i soggetti studiati, possono essere ammessi. L’immensa banca dati di milioni di foto della stessa persona a confronto, a distanza di anni, non fa altro che rendere il piatto più ricco.

Complottismo? Non è detto. Del resto basta ricordare il caso di Cambridge Analytica, che con un’applicazione di Facebook, scaricata da 270 milioni di ignari utenti, ha ottenuto dati su 70 milioni di profili.