Da quel Luglio sono passati esattamente cinquantanove anni. Davvero una vicenda lontana e inaccessibile, in questa stagione di irresponsabili attacchi alla democrazia, di memoria corta sull’antifascismo, di vergognose leggi-bavaglio, di autoritarismo neppure mascherato? E allora, a maggior ragione oggi, è giusto ricordare quei giorni drammatici, e quanto forte (e vittoriosa) fu allora – estate nel 1960 – la rivolta della coscienza civile del Paese contro il governo del democristiano Fernando Tambroni.
Con l’avallo del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, il sostegno del potentissimo cardinale Giuseppe Siri e di don Gianni Baget Bozzo (altro genovese poi spretato, quindi riammesso; prima dc, poi socialista e infine ispiratore di Silvio Berlusconi), Tambroni aveva creato, sulle ceneri di un governo centrista, un ministero tutto democristiano, sostenuto dai soli – e determinanti – voti neofascisti e monarchici. Le proteste nel Paese erano cominciate subito, sino ad esplodere a giugno quando l’Msi era passato all’incasso decidendo di tenere il suo congresso nazionale proprio a Genova (Siri aveva là la propria sede episcopale). I fascisti radunati nella città medaglia d’oro della Resistenza? Proprio a Genova dove (vicenda tanto più emblematica oggi che si tende a svilire tanto la lotta di Liberazione) le truppe naziste del generale Gunther Meinhold si erano arrese non agli alleati ma ai partigiani: l’atto di resa porta la firma di un operaio comunista, Remo Scappini, comandante dei Corpo volontari della libertà della Liguria.
Per denunciare quell’adunata-oltraggio (a sostegno del congresso neofascista il governo aveva allertato non solo tutte le polizie ma anche l’esercito), le tre confederazioni sindacali promuovono uno sciopero generale che paralizza, il 30 giugno, la città. La polizia interviene duramente: lavoratori e giovani sono caricati selvaggiamente e a lungo in piazza De Ferrari. La reazione, soprattutto dei portuali, porta a scontri violenti: decine di feriti tra quanti manifestano, jeep della “celere” bruciate, l’inferno nel centro della città. Altri scioperi nascono ovunque per l’Italia realizzando una quasi sempre spontanea saldatura tra rivolta antifascista, rivendicazioni economiche di molte categorie, ansie disattese di tanti giovani senza lavoro e senza prospettive di inserimento sociale.
Tambroni ha deciso insomma di usare le maniere forti: antica e sempre nuova scuola di Scelba, anzi peggio. Polizia e carabinieri hanno l’ordine di reprimere con ogni mezzo qualsiasi focolaio di protesta. E le proteste sono tante e ovunque, rivelando in particolare le eccezionali dimensioni del malessere che serpeggia soprattutto tra i giovani – le “magliette a strisce”, come si chiamarono dal diffusissimo uso, allora, di una t-shirt bicolore – diventati subito il simbolo delle lotte di quel terribile, tragico luglio. Il 2 luglio, sull’onda dello sciopero genovese, c’è la prima vittoria: il congresso è annullato, i delegati dell’Msi appena arrivati lasciano Genova in fretta e soprattutto in incognito, alla spicciolata. Ma rabbiosa sarà la reazione del governo così clamorosamente sconfitto. Ogni pretesto è buono. A San Ferdinando di Puglia i braccianti sono in sciopero per il contratto? La polizia li attacca con le armi in pugno: tre lavoratori sono gravemente feriti. A Licata, nell’agrigentino, il 5, è in corso uno sciopero generale per il lavoro? Polizia e carabinieri caricano e sparano contro il corteo guidato dal sindaco dc Castelli: il commerciante Vincenzo Napoli, 25 anni, viene ucciso da un colpo di moschetto.
Intanto Tambroni sta manovrando per sopravvivere: nello sdegno crescente, in Parlamento e nel Paese, ogni manifestazione gli appare come una sfida, un oltraggio personale. Tant’è che a Roma, il giorno appresso, un corteo diretto al sacrario di Porta San Paolo – l’ultimo bastione della difesa di Roma dai nazisti – viene caricato, la gente pestata con violenza. Sono usate persino (come nell’Ottocento) le truppe a cavallo comandate dai pluriolimpionici Raimondo e Piero D’Inzeo. Tra i feriti Pietro Ingrao, colpito alla testa.
Scatta un nuovo sciopero generale, il 7. Ed ecco una nuova, furiosa reazione del governo: ordine di sparare “a vista del pericolo”. Il “pericolo” sono sempre i giovani e gli operai: cinque ne muoiono e ventidue restano feriti a Reggio Emilia. Qualcuno, tra i meno giovani, ricorderà l’appassionata canzone dedicata da Fausto Amodei ai caduti, I morti di Reggio Emilia, appunto. Il primo a cadere è Lauro Ferioli, operaio di 22 anni. Accanto a lui muore un istante dopo anche Mario Serri, 40 anni, ex partigiano: ad ucciderli sono due celerini appostati tra gli alberi. Morirà invece all’ospedale Ovidio Franchi, operaio di 19 anni, colpito all’addome da una colpo di pistola. Una raffica di mitra falcerà più tardi Emilio Reverberi, 30 anni. Infine – mentre un registratore fissa la voce furiosa di un commissario che urla: «sparate nel mucchio!» – cade Afro Tondelli, 35 anni. Come documenterà una foto che uscirà sui giornali di mezzo mondo, Tondelli è stato assassinato freddamente da un poliziotto che si è inginocchiato per prender meglio la mira.
In risposta all’eccidio di Reggio l’indomani 8 luglio è proclamato un altro sciopero generale nel Paese. E stavolta la rabbia esplode prima a Catania, e poi a Palermo. In Sicilia il compito più truce è affidato ai carabinieri. Uno di loro ammazza un giovane edile, Salvatore Novembre, 17 anni. Prima è massacrato a colpi di calcio di moschetto, e quindi, quando Totuccio è ormai riverso esanime sul ciglio di un marciapiede, viene finito con due colpi di quello stesso fucile. A Palermo il bilancio sarà ancora più tragico: quattro morti e cinquantuno feriti gravi. Ma accadrà che non per qualche giorno ma per anni ci si dimenticherà (nei rapporti di polizia, nelle controrelazioni, al processo non contro i carabinieri ma contro i manifestanti, e persino in molti libri sugli eventi del luglio 1960) della quarta vittima, e per un impressionante particolare.
Tutto si consuma in poche ore, la mattina di quel venerdì 8 luglio, a Palermo. Due cortei uno proveniente dal Politeama e l’altro dal Massimo sono praticamente imbottigliati di fronte e alle spalle da truppe armate e decise a tutto. Ne fui testimone: ero un cronista di primo pelo, il ragazzo di bottega dell’Unità-Sicilia, e vissi dall’interno dei cortei quella tragica giornata. Tutto comincia quando un pugno di carabinieri si para davanti alla testa di una colonna di manifestanti. «Fermatevi, in nome della legge!», grida un commissario con la fascia tricolore. «Quale legge?», replica con voce tonante Pompeo Colajanni, il popolare comandante partigiano “Barbato” che è alla testa del corteo. Dietro il commissario, un carabiniere perde la testa (sommando più tardi tanti segnali pensammo che fosse stato imbottito di simpamina) e si lancia con la baionetta inastata contro Pompeo nel tentativo di ucciderlo. Un ferroviere che stava accanto a Colajanni ha la prontezza di gettare il suo berretto addosso al carabiniere che perde la rincorsa, sbanda, cade.
La rabbia esplode. Ma alle mani, alle aste dei cartelli, alle pietre si oppongono i moschetti, i mitra, le pistole. Inerme e indifeso, cade Francesco Vella, 42 anni, operaio edile, instancabile diffusore dell’Unità. Poi è la volta di Andrea Gangitano, quattordici anni, venditore ambulante di mazzetti di gelsomino. Quindi – a testimonianza dell’ordine di sparare comunque e dovunque – è ammazzata Rosa La Barbera, casalinga, 53 anni: la uccide una pistolettata calibro 9 in pieno petto mentre sta chiudendo le imposte di una finestra di casa sua, al terzo piano. Altro che pallottola vagante, come si osò dire al processo. Ma all’elenco delle vittime manca (mancò a lungo) un nome, quello di Giuseppe Malleo, 16 anni, apprendista edile, militante della gioventù comunista. Era uno dei feriti più gravi, raggiunto da un colpo di moschetto alla nuca sparato contro un grappolo umano che volgeva le spalle alle truppe. Il povero Pino fu dimenticato. Morì il 29 dicembre, cioè dopo sei mesi di atroci sofferenze: operato più volte, andò in agonia sotto le feste. Non si tratta di rivendicare “una vittima in più”. In Sicilia i moti libertari e le lotte per il lavoro e la democrazia hanno una lunga storia di splendide imprese e di tragici sacrifici con un pesante bilancio di sangue in cui vanno annoverati anche quasi cinquanta tra capilega, capipopolo, dirigenti sindacali e di partito, semplici lavoratori uccisi dalla mafia in questo dopoguerra. E pure Pino Malleo fa parte di questo tragico elenco.
Torniamo a Tambroni. La situazione per lui e per il suo governo diventa a questo punto insostenibile. Tre ministri della sinistra dc – Giulio Pastore, Giorgio Bo, Fiorentino Sullo – si dimettono polemicamente, non solo per il ricattatorio peso politico dei fascisti ma anche e proprio per l’uso sconsiderato che viene fatto delle forze di polizia e dell’esercito. Saranno giorni di concitate, sotterranee manovre (su cui peraltro non è stata fatta ancora piena luce) per sostenere da un lato e per contrastare dall’altro i disperati, ostinati tentativi del presidente del Consiglio di fronteggiare ad ogni costo la crisi. Ma alla fine, il 19 luglio, Tambroni è costretto a mollare. Con le sue dimissioni si apre la strada ad un governo di Amintore Fanfani, poi ad un governo “balneare” di Giovanni Leone che preparerà la strada al primo governo di Aldo Moro con la partecipazione per la prima volta del Psi. Titolo de “L’Avanti!”: Ciascuno da oggi è più libero. Quanta inutile enfasi.