«Mitragliatori a fuoco incrociato contro cinquecento operai inermi». Sono le parole drammatiche e angosciate con cui il 10 gennaio del 1950 – all’indomani dell’eccidio operaio – Gianni Rodari, grande poeta dei piccoli (e dei grandi) e allora inviato del “l’Unità”, raccontò quel che era successo a Modena. Poche parole che fotografavano la tragedia che si volle deliberatamente consumare nella civilissima città emiliana, in una gelida mattina di quasi settant’anni fa: sei operai trucidati, cinquanta feriti tra cui un bambino di dieci anni che stava andando a scuola, ignaro di quel che stava accadendo.
È giusto raccontare ai più giovani quel che accadde quel giorno e ricordarlo a chi quella stagione di violenze anticontadine e antioperaie (Dalla terra alla fabbrica è il significativo titolo del fondo firmato l’indomani dal direttore di quello che fu l’organo del Pci, Pietro Ingrao) conobbe e visse, sapendo chi fossero e che cosa rappresentassero, da un lato, un padrone arrogante che aveva deciso di licenziare il blocco tutte le maestranze delle sue Fonderie Riunite, dall’altro, quel Mario Scelba, il ministro di polizia che sei mesi dopo coprirà l’alleanza con la mafia per liquidare il bandito Giuliano (il famoso e inesistito “conflitto a fuoco” coi carabinieri che resterà la prima e più clamorosa bugia di Stato del dopoguerra). Scelba quel giorno rappresenterà il più funzionale ed efficace punto di riferimento dei nemici di classe – si chiamavano così, almeno una volta – dei lavoratori.
E infatti il ministro siciliano era stato avvertito per tempo e per benino di quel che poteva provocare la sconsiderata decisione di Adolfo Orsi (il proprietario delle Fonderie e della Maserati, che poi impiegava gli spiccioli per coltivare la più famosa scuderia di cavalli dell’epoca, la Mangelli) di disporre la serrata della fabbrica, come risposta a uno sciopero proclamato dalle maestranze per un più equo salario e migliori condizioni di lavoro. Attenzione alla data: appena qualche mese dopo le elezioni politiche del 18 aprile 1948, che avevano segnato la sconfitta delle sinistre e assicurato alla Dc la maggioranza assoluta.
Si sentiva dunque forte, Orsi, e ringalluzzito dalla vittoria Dc. A tal punto che, continuando a singhiozzo le agitazioni delle maestranze, verso la fine del ’49 il padrone decise di licenziare tutti e 560 i lavoratori delle Fonderie Riunite con l’obiettivo di assumere solo operai non iscritti ai sindacati e, men che mai, ai partiti di sinistra. Il piano di Orsi prevedeva inoltre non di aumentare i salari ma di ridurre i premi di produzione, abolire il Consiglio di gestione, addebitare il costo della mensa in busta paga, rimuovere ogni bacheca sindacale o politica all’interno della fabbrica e discriminare le donne: via la stanza che le operaie si erano conquistate per poter allattare i figli che si portavano in fabbrica.
Scattò allora uno sciopero generale. La risposta fu un mese di serrata, daccapo. Ecco allora la reazione durissima della Cgil (e non anche della Cisl): sciopero generale di tutte le categorie e in tutta la provincia per il 9 gennaio nonostante una miriade di ostacoli posti dalla prefettura e della questura: negato persino l’uso di qualsiasi piazza per tenere una manifestazione. Secondo alcune fonti, il questore arrivò a minacciare esplicitamente («vi sistemeremo tutti») la delegazione di parlamentari e dirigenti sindacali che insistevano per avere la piazza. In effetti la minaccia aveva un fondamento. Il giorno prima dello sciopero arrivarono a Modena circa 1.500 uomini armati appartenenti a molti distaccamenti della regione: un battaglione carabinieri di Bologna, il reparto corazzato di Cesena, le compagnie al completo della celere di Ferrara, Parma, Forlì e Reggio Emilia oltre a tutte le forze disponibili in città. L’ordine: presidiare le Fonderie Riunite con camion, jeep, sei T17 Staghound (autoblindo Usa da combattimento), armamento pesante, appostamenti non solo sui tetti della fabbrica ma anche sui tetti delle palazzine che fronteggiano l’ingresso principale della fabbrica.
Così che, quando verso le dieci del mattino del 9, un gruppo di metalmeccanici cercarono di forzare il portone della loro fabbrica, scattò la repressione, violentissima e feroce. Un carabiniere, all’improvviso, sparò un colpo di pistola in pieno petto ad Angelo Appiani, 30 anni, meccanico ed ex partigiano, che morì sul colpo. Subito dopo, da una tettoia della fabbrica, sempre i carabinieri aprirono il fuoco con le mitragliatrici verso via Ciro Menotti, contro un altro gruppo di lavoratori che si trovavano al di là del passaggio a livello sbarrato in attesa dell’arrivo di un treno. Furono uccisi in due, Arturo Chiappelli, spazzino, 43 anni, e Arturo Malagoli, 21 anni, metalmeccanico ed ex partigiano.
Passa una mezz’ora e la furiosa sarabanda si estende in città, con sviluppi atroci. In fondo a via Santa Caterina, mezzo chilometro dalla fabbrica, l’operaio metalmeccanico Roberto Rovatti, 36 anni, forse “reo” di portare al collo una vistosa sciarpa rossa, viene circondato da una squadra di carabinieri, scaraventato dentro un fosso, massacrato prima con i calci dei fucili e poi finito con un colpo sparato a distanza ravvicinata. Infine giunse in via Ciro Menotti anche un blindato T17 che cominciò a sparare sulla folla uccidendo Ennio Garagnani, 21 anni, carrettiere nelle campagne di Gaggio: trovò la morte mentre cercava di allontanarsi dalla zona calda. Poco dopo mezzogiorno la sesta vittima, Renzo Bersani, 21 anni, metallurgico. Anche lui era in via Menotti, ma in fondo, all’incrocio tra via Paolo Ferrari e Montegrappa. Stava attraversando la strada quando un graduato dei carabinieri, distante almeno cento metri, si inginocchiò a terra, prese la mira col moschetto e sparò. Ucciso al primo colpo, a freddo.
Già, la tecnica della repressione era stata studiata a tavolino. Sicché, mentre una parte di poliziotti e carabinieri presidiava la fabbrica come fosse un fortino assediato, un’altra parte di uomini armati lanciava, alle spalle e sulle teste dei lavoratori, grappoli di lacrimogeni misti a raffiche di mitragliatrici (attenzione: non “semplici” mitra ma vere e proprie mitragliatrici) istallate sui tetti delle case vicine, con il risultato di imbottigliare i lavoratori in sciopero e tanti altri cittadini casualmente per le strade. E più fuggivano, più la soldataglia si accaniva contro di loro. Una strage di uomini assolutamente indifesi e increduli: non una pietra fu trovata e dio sa solo quanto fu cercata invano dagli ispettori di Scelba per giustificare a posteriori quant’era accaduto. Eppure, in 34 furono arrestati con le accuse più assurde, poi cadute nel nulla davanti ai magistrati. Senza contare il numero alto, ma imprecisato dei feriti: almeno 50 ricorsero ai pronto soccorso e mal gliene incolse: furono fermati, piantonati giorno a notte, accusati di «attentato alle libere istituzioni per sovvertire l’ordine pubblico e abbattere lo stato democratico». Così che molti altri evitarono di farlo nel timore di esser denunciati anch’essi.
Affoga nel sangue il governo del 18 aprile, titolò “l’Avanti!”. E “l’Unità”: Tutta l’Italia si leva contro il nuovo eccidio!. Infatti uno sciopero generale investì tutto il Paese: da Torino a Palermo, da Bari a Livorno, Alessandria, Milano, Genova ci furono proteste e manifestazioni. A Roma una grande folla gremì piazza Santi Apostoli raccogliendo l’appello della Cgil (la Cisl non si associò). Scelba difenderà accanitamente gli autori del massacro. Il capo dello Stato, Luigi Einaudi, allarmato non solo per le proporzioni dell’eccidio ma anche per le sue dinamiche, convocò il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, per chiedergli spiegazioni. Non ne ebbe alcuna che lo soddisfacesse. Nessuno pagò, naturalmente. Un incidente clamoroso avvenne alla Camera: la deputata modenese Gina Borellini, medaglia d’oro al valor militare, vedova di un partigiano fucilato in piazza dai repubblichini, essa stessa amputata di una gamba nella guerra di Liberazione, scese faticosamente dal suo scranno e gettò in faccia a De Gasperi le foto delle sei vittime dell’eccidio. Nessuno fiatò.
Atti di grande generosità solo da sinistra. Il più significativo: accorse a Modena una delegazione del Pci al più alto livello (ma anche i socialisti intervennero con Pietro Nenni), mentre Palmiro Togliatti decise, d’accordo con la sua compagna Nilde Iotti, di adottare Marisa Malagoli, la sorella più piccola di una delle vittime, Arturo, il più “vecchio” di sei figli di mezzadri assai poveri. Marisa entrò in casa Togliatti aggiungendo più tardi al suo il cognome del leader comunista. E contribuì così a formare «quella strana famiglia – racconterà più tardi colei che divenne poi per tredici anni presidente della Camera – in cui non c’era un vero marito, una vera moglie, una vera figlia, ma che era felicissima e unita».