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Un mestiere pericoloso: raccontare

«Scrivo quello che vedo», diceva Anna Politkovskaja. Aveva visto troppo, e troppo aveva scritto, la giornalista russa, uccisa sul pianerottolo della sua casa di Mosca, la sera del 7 ottobre 2006. E aveva scritto troppo, e certo troppo scandalizzato, l’editorialista Jamal Kashoggi, massacrato nelle stanze del consolato saudita di Istanbul, il 2 ottobre scorso. E certo aveva scritto troppo, e troppo indagato, quella ficcanaso di Daphne Caruano Galizia, fatta a pezzi da una bomba, a Malta, il 16 ottobre del 2017. E che minaccia poteva mai rappresentare il cronista Jan Kuciak, appena trenta anni, liquidato insieme alla fidanzata in un appartamento di Velka Maca, nella sonnolenta Slovacchia?

La lunga lista di nomi, di storie e di croci, appena compilata da “Reporters sans Frontierès” ci racconta che l’anno che si sta chiudendo è stato il più nefasto degli ultimi tempi. Secondo il bollettino dell’organizzazione, nel 2018 ben 80 operatori dell’informazione sono morti facendo il loro mestiere: l’8 per cento in più rispetto al 2017. Dato ancora più significativo, solo la metà delle ottanta vittime sono state uccise in zone di guerra.

La morte in guerra è atroce, ma forse fa più male la banalità della morte in tempo di pace. Anna è colpita all’uscita dalla gabbia dell’ascensore, davanti alla porta di casa. Aveva appena fatto la spesa, e dalla borsa caduta a terra si sono sparsi sul pavimento la verdura, la frutta, le confezioni comprate al supermercato. Daphne è saltata in aria nella sua auto, posteggiata al bordo di una anonima strada di provincia. Jamal entra fiducioso nelle lussuose stanze del suo consolato, e proprio lì, tra una poltrona e una scrivania, gli aguzzini lo fanno letteralmente a pezzi. Martina, la ragazza di Jan Kuciak, apre la porta a qualcuno ed è freddata da un colpo in fronte.

Delitti senza castigo, indagini senza risposta. Chiediamo giustizia, ma non ci facciamo illusioni. Questi morti, i nostri morti, non avranno mai giustizia. Come non hanno avuto giustizia Ilaria e Miran, uccisi a Mogadiscio in un agguato che doveva sembrare una rapina: sono trascorsi venticinque anni, e sono morti il padre e la madre, sono svaniti i testimoni, sono fuggiti i complici, le carte ingialliscono nei tribunali, la memoria vacilla.

Tuttavia, anche se impunito, il colpevole è ben conosciuto. Il colpevole, il mandante, l’ispiratore degli assassini è sempre il potere: il gelido potere degli Stati, il truce potere della criminalità organizzata. Scrive Reporters sans Frontières: «oltre la metà dei giornalisti uccisi nel 2018 sono stati presi deliberatamente come obbiettivo e assassinati a causa di inchieste che disturbavano le autorità politiche ed economiche, poteri religiosi o mafiosi».

Oggi il potere ha un’altra arma contro chi vede, scrive, parla, denuncia. Così riflette il segretario generale di Rsf, Christophe Deloire «l’odio contro i giornalisti propagato da leaders politici e religiosi, da uomini d’affari senza scrupoli, si traduce in un innalzamento inquietante degli abusi. E l’ostilità contro chi lavora nell’informazione è sempre più pesante, amplificata dai social networks che funzionano da cassa di risonanza per offese, minacce e insulti».

Ilaria Alpi

Eccoci dunque alla domanda cruciale: i giornalisti sono puttane, come accusa un giovane tifoso (e prossimo ministro) del governo del cambiamento in Italia? Oppure: i giornalisti sono pidocchi, come ebbe ad argomentare pacatamente lo Zar russo Vladìmir Putin? Oppure: i giornalisti sono cessi, come non si stanca di ripetere via tweet il presidente americano Donald Trump? E sono dunque puttane, pidocchi, cessi, anche i 348 giornalisti oggi detenuti nelle carceri di tutto il mondo?

Dice la russa Julija Latinina: «i nostri dirigenti, i nostri capi, temono la critica come i vampiri temono la luce. Ma noi giornalisti, se ci facciamo intimorire, possiamo anche cambiare mestiere». Lei, dopo tante inchieste, dopo tanti libri, dopo tante battaglie, non ha cambiato mestiere, ma ha cambiato Paese: ha lasciato Mosca, con tutta la sua famiglia, dopo una serie paurosa di agguati e intimidazioni.

Dunque, anche questa è una guerra. Il potere continuerà ad usare le sue armi, e i giornalisti – intendo i giornalisti onesti – continueranno a guardare, a indagare, a scrivere, a testimoniare. Così come milioni di migranti continueranno a lasciare i loro lazzeretti e a bussare alle porte delle nostre case ben riscaldate. È infine la nostra storia, che non si ferma. «Mostratemi un muro alto quindici metri, e io vi mostrerò una scala lunga quindici metri e mezzo…»