LA DATA

12 settembre 1940

Inserito nell’elenco dei luoghi Patrimonio dell’Unesco nel 1979, questo monumentale complesso di grotte che si snoda nella valle del fiume Verzère, in Dordogna, fu scoperto casualmente da quattro ragazzi il 12 settembre 1940 mentre il suolo, in superficie, risuonava dei passi della Wermacht e la Francia assisteva attonita all’invasione nazista ed alla nascita del governo del maresciallo Pétain.

Aperte al turismo di massa subito dopo la fine del conflitto e repentinamente sottratte all’oscurità che per millenni  aveva protetto le straordinarie pitture, le grotte di Lascaux videro allora sfilare nei loro cunicoli fino a 12.000 visitatori al giorno, fino a che le esalazioni di anidride carbonica degli umani, che si fermavano ammirati di fronte all’arte dei loro antenati, decretarono la chiusura del sito nel 1963.

Da allora le grotte, le cui pareti sono state ripetutamente attaccate da infestazioni fungine, vengono più volte restaurate ma un comitato internazionale, incaricato del monitoraggio dello stato dei dipinti e dello studio di soluzioni conservative, ne stabilisce la chiusura definitiva nel 2008.

Al momento, oltre alla visita virtuale che si può condurre sul sito dell’Unesco, è possibile vedere le repliche allestite presso Montignac: niente a che vedere con le vibrazioni emanate dagli originali, d’accordo, ma certamente una misura indispensabile per preservare capolavori millenari che l’attuale generazione ha il dovere di consegnare a quelle a venire. In questo senso è in corso uno sforzo finanziario considerevole da una parte per portare a termine la “sanctuarisation de la colline”, ovvero la limitazione dell’accesso ai mezzi a motore all’intera area; dall’altra per sostenere la ricerca, la conservazione e la divulgazione archeologico-scientifica del patrimonio di saperi custodito nelle viscere della terra grazie all’opera di questi nostri predecessori dalla mano potente ed insieme raffinata, che dovettero lavorare alla luce di primitive lanterne i cui resti sono stati ritrovati nelle grotte consentendo, insieme a fattori stilistici, la datazione al radiocarbonio.

La scoperta di questi 25 ambienti, decorati con scene i cui grandi protagonisti sono gli animali che popolavano le colline circostanti e risalenti al Paleolitico superiore (siamo all’incirca fra 18.000 e 15.000 anni fa), ha segnato un punto di svolta nella conoscenza dell’arte preistorica e ha fornito una straordinaria mole di informazioni sul piano etnologico, antropologico, zoologico e continua a nutrire l’immaginario collettivo.

Interpretate in un primo momento come immagini fini a se stesse, le pitture e le incisioni furono quindi lette come parte di un rituale propiziatorio legato alla caccia o a pratiche sciamaniche fino a che, a partire gli anni Novanta, gli studiosi hanno posto l’attenzione sulla dislocazione dei dipinti negli ambienti, al loro alternarsi nello spazio, alla ripetizione di determinati schemi fissi quali, per esempio, la rigida successione del cavallo, dell’uro (o Bos taurus primigenius, un grande bovino ormai estinto che popolava l’Eurasia e i suoi miti) e del cervo, che ha fatto supporre un collegamento con i ritmi stagionali e biologici.

Queste vaste composizioni potrebbero essere dunque le testimonianze di un primitivo pensiero di natura spirituale, la cui portata simbolica si basa su un approccio cosmogonico, sull’eterno bisogno dell’uomo di darsi una spiegazione intorno alla creazione e alle leggi del mondo: un varco segreto custodito nelle viscere della terra e rivelato, per l’appunto, ai quattro ragazzini di cui sopra proprio in una delle ore più buie della lunga storia dell’umanità.

Tags