Un feroce agguato all’uscita di casa: il 17 maggio 1972 viene ucciso Luigi Calabresi, commissario capo della questura di Milano. Vittima del terrorismo di Lotta Continua, fu insignito della medaglia d’oro al merito civile alla memoria. Un pezzo significativo e “duro” degli ultimi trent’anni di storia italiana del Novecento furono segnati da quel delitto.
Fu il primo capitolo delle “esecuzioni” da parte dei gruppi armati dell’estrema sinistra. Solo nel 1997 si giunse ad una sentenza – che divise l’Italia – in Corte di Cassazione: Ovidio Bompressi e Leonardo Marino (collaboratore di giustizia sulle cui parole si basò l’accusa) furono condannati come esecutori materiali; Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri per il reato di concorso morale in omicidio, ma senza l’aggravante del terrorismo.
L’avversione delle Brigate Rosse contro Calabresi era nota e radicata, in quanto ritenuto responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli (precipitò dalla finestra dell’ufficio del Commissario: suicidio o altro?) dopo la strage di Piazza Fontana. Calabresi divenne il capro espiatorio: anche se le successive inchieste dimostrarono che non era presente nella stanza dell’interrogatorio al momento della caduta, fu il bersaglio di una martellante campagna di denuncia.
Quando fu ucciso, Luigi Calabresi aveva 34 anni, una moglie e due figli. Mario, attuale direttore de La Repubblica, ha raccontato la storia della sua famiglia nel libro Spingendo la notte più in là.