IL PERSONAGGIO MEMORIE

1966, la frana di Agrigento Un solo morto: Mario Alicata

TESSERE ha l’immenso privilegio di avere tra i propri collaboratori Giorgio Frasca Polara. Di avere Giorgio Frasca Polara e la sua “memoria” arricchitasi in una lunga carriera di giornalista, quindi in presa diretta, dal vivo. Mettendo qualche link ad alcune parole chiave per aiutare i più giovani a conoscere fatti e persone lontane che a loro potrebbero non dire molto, pubblichiamo oggi il suo ricordo di quando fu portata all’attenzione dell’opinione pubblica quella che Enrico Berlinguer definirà «la questione morale» con la quale, ahi noi, abbiamo a che fare ancor oggi. Ecco il suo ricordo di Mario Alicata.  

Mario Alicata nel 1948

La prima volta che, da cronista, ho messo piede alla Camera fu nell’autunno avanzato del 1966. L’Italia aveva appena vissuto, un mese prima, la tragedia dell’alluvione di Firenze quando la commissione ministeriale d’inchiesta sulla disastrosa frana che a luglio aveva devastato la città di Agrigento consegnò al Parlamento il suo atto di accusa. Su quel pesante rapporto sarebbe intervenuto, nel pomeriggio del 5 dicembre, l’allora direttore dell’Unità, Mario Alicata. Ed io ero lì, nella tribuna stampa di Montecitorio, pronto a fornirgli, se ne avesse avuto bisogno, un supplemento di documentazione sullo scandalo di cui era stato promotore e animatore costringendo tutto il mondo dell’informazione a raccogliere e ad ampliare la sua denuncia.

Già, la denuncia: sulla scorta proprio di quel rapporto ordinato dal ministro socialista dei Lavori Pubblici, Giacomo Mancini, che confermava letteralmente la campagna – «il tormentoooone», come scandiva Alicata – contro la Dc che aveva coperto per anni e anni le porcherie del gruppo di potere della città.

«Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente – aveva scritto nelle conclusione del rapporto l’ing. Giuseppe Martuscelli, delegato da Mancini – sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e di privati operatori».

E aggiungeva: «Il danno di questa condotta – intessuta di colpe scientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica – è incalcolabile per la città di Agrigento. Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l’aspetto sociale, civile e umano. La città dei tolli (così là chiamano i grattacieli appiccicati con lo sputo su una fragile collina argillosa, nda) non è più l’Agrigento di un tempo».

Un ritaglio de “l’Unità”

Ero ancora in forza alla redazione siciliana dell’Unità, e da tempo seguivo lo scandalo di una gestione irresponsabile e truffaldina della Valle dei Templi, uno scandalo in cui erano implicati non solo gli amministratori locali e regionali (tutti democristiani) ma anche questori, prefetti e magistrati che non solo coprivano le malefatte, ma ne approfittavano. Qualche esempio: il presidente del Tribunale, Pietro Di Giovanni, benché proprietario di un alloggio Incis, possedeva anche un altro appartamento intestato al fratello in uno dei palazzi costruiti senza licenza. Di più: brigò personalmente per ottenere, come ottenne, una deroga per potersi costruire un attico abusivo.

E il procuratore della Repubblica Giovanni La Manna, e il presidente della Corte d’assise Bellanca, e il presidente del Tribunale civile Raimondo Mormino? Avevano tutti la stessa caratteristica: agrigentini pur essi, strettamente legati, per vincoli di parentela o politici, al gruppo di potere che dominava la città, perché mai dovevano muovere anche solo un dito per bloccare il saccheggio, o per vederci chiaro su questo impressionante dato: su 190 licenze edilizie rilasciate nel periodo 15 luglio 1965 e il 19 luglio 1966 (giusto il giorno del disastro) ben 134 risultavano illegali perché o in deroga, o in sanatoria, o contro i pareri dell’Ufficio tecnico o della Sovrintendenza ai monumenti o del Genio civile e dell’ufficiale sanitario.

Corsi dunque subito ad Agrigento, addirittura facendo il classico falso di scrivere da Palermo un pezzo “dal nostro inviato” in cui – con le conoscenze e i dati conosciuti e denunciati da tempo – descrivevo quanto era successo alle sette del mattino del 19 luglio 1966. Intanto, dall’autoradio, il sindaco di Agrigento lanciava un grottesco appello alla nazione: «Aiutateci, siamo vittime di un disastroso terremoto!»

Macché sisma: due interi quartieri erano letteralmente scivolati giù dalla collina Atenea, e per fortuna non c’erano vittime ché alle sette, con un caldo soffocante, la gente era già tutta sveglia. Quando arrivai ad Agrigento dovetti, semmai, aggravare la descrizione, i fatti, il clima di panico, le prime tende, le prime cucine da campo.

Alicata, a Roma, ne trasse subito le dimensioni politiche della vicenda e riuscì in pochi giorni a creare un caso, anzi il caso, costringendo tutti nel Paese – la politica, l’informazione, le forze sociali e sindacali – a misurarsi con quel che era accaduto e soprattutto con le responsabilità di quanti, tanti, avevano coperto sfregio e massacro urbanistico.

Grazie alla sua iniziativa, la frana di Agrigento divenne insomma occasione non momentanea di un vero e proprio dibattito nazionale, forse il primo in cui si faceva leva su quel che avremmo più tardi chiamato “la questione morale”.

Lui da Roma – un editoriale o un corsivo al giorno, sempre in prima pagina – io da Agrigento – un paio di servizi al giorno – demmo faticosamente la sveglia ad un partito che solo con estrema lentezza colse la gravità dell’accaduto, costringemmo gli altri giornali a spedire gli inviati, la tv a parlarne con qualche onestà.

L’unico a tacere? Il segretario nazionale della Dc di allora, Mariano Rumor. Ma il potente boss fanfaniano Raffaele Rubino (per inciso fratello di uno dei divoratori della città) dettò la linea cui tutto il partito si attenne: «Agrigento è la nuova Danzica di una guerra del Pci per colpirci e umiliarci!».

E venne il momento della prima resa politica dei conti: il dibattito alla Camera, appunto, sulla relazione dell’ing. Martuscelli. Alicata intervenne nell’aula di Montecitorio il pomeriggio del 5 dicembre, forte della clamorosa conferma data dall’inchiesta ministeriale al “tormentone” del giornale sull’incredibile sistema di potere dc che aveva consentito il massacro urbanistico di Agrigento culminato nella frana.

«Se Ella, signor Presidente – esordì parlando dell’ing. Martuscelli – presiedesse la Convenzione giacobina, io proporrei di decretare la corona civica per questo coraggioso e onesto funzionario che ha svelato i meccanismi dello scandalo». Ma ora, da questo scandalo, «tocca a voi trarre le conseguenze politiche», disse risolto alla Dc e al governo: «Fatelo, altrimenti più gravi guasti ne verranno non solo ad Agrigento ma alle istituzioni».

Il riferimento al rischio istituzionale, la preveggenza impressionante della catena di scandali che ne sarebbe seguita nei due decenni successivi, era tutt’altro che casuale: Alicata stava snocciolando un elenco inedito e impressionante, mai poi smentito, di quanti, in magistratura e in polizia, in comune, provincia, regione, e su, nei Palazzi romani, erano legati in modo diretto alla speculazione edilizia di Agrigento.

Era stanco, Alicata, sfinito dall’essersi impegnato, per un mese, in una nuova campagna giornalistica: quella che sbugiardava la “fatalità” dei danni paurosi dell’alluvione di Firenze. Ma era lucidissimo quando, quel pomeriggio di cinquantuno anni fa, finì di parlare inchiodando alle loro responsabilità non solo i maggioranti dc della Sicilia (ammanigliati e persino imparentati, come Rubino, con i costruttori dei “tolli”) ma quanti, a cominciare da Rumor, continuavano e continuarono a proteggersi, al punto che, dopo mezzo secolo, nessuno ma proprio nessuno ha pagato, neppure i quattro sindaci che si erano succeduti nel sacco della città: tutto (e per tutti) era caduto in prescrizione…

Concluso il dibattito, Mario Alicata tornò in fretta al giornale, scrisse a penna su un foglietto, il titolo al resoconto del suo intervento – «Trarre le conseguenze politiche / dalla lezione di Agrigento» –, poi se ne andò a cena soddisfatto. A me, che da luglio a novembre gli avevo fatto ininterrottamente da spalla ad Agrigento, consentì di andare finalmente in ferie.

L’indomani mattina mi telefonarono: Alicata è morto, stroncato da un infarto.