Il 20 agosto 1968, l’esercito sovietico, accompagnato dagli alleati del Patto di Varsavia ad esclusione della Romania, invase Praga, ponendo fine al tentativo di dare vita al “socialismo dal volto umano”, teorizzato dal leader del Partito comunista slovacco, Alexander Dubček.
Terminava così quella che è passata alla storia come la “Primavera di Praga”, il periodo di rinnovamento politico e sociale iniziato il 5 gennaio 1968, quando salì al potere, appunto, il riformista Dubček.
Alla fine del 1967 la popolarità del presidente Antonín Novotný aveva toccato i minimi storici. Il Paese era attanagliato da una grave crisi economica, resa ancora più pesante dalla sovrapposizione del modello sovietico a un sistema produttivo più avanzato rispetto agli altri Stati del blocco orientale; la riabilitazione dei dissidenti procedeva con lentezza, le strette alla libertà di stampa alimentavano il malcontento di un nutrito gruppo di intellettuali, che a loro volta si erano fatti portavoce di un movimento popolare di opposizione al regime. Era uno dei motivi per cui fu Brežnev in persona a decidere di sostituire Novotný con Dubček, dando così involontariamente inizio alla “Primavera di Praga” .
Il “socialismo dal volto umano” teorizzato da Dubček, peraltro, non significava rinnegare il modello sovietico e staccarsi dall’Urss, quanto piuttosto affiancare quel sistema economico e sociale con la tutela delle libertà individuali, a partire da quella di espressione e, di conseguenza, di stampa. Tuttavia, il timore di perdere il controllo di un Paese collocato geograficamente al centro del blocco orientale, “sorvegliato speciale” dall’intellighenzia europea, che guardava con favore alla “primavera” di riforme in contrapposizione all’intransigente – e per molti aspetti spietato – “inverno” sovietico, spinse Brežnev a inviare i soldati (stimati tra 200 e 600 mila con circa 6.000 carri armati), dopo aver tentato invano una mediazione diplomatica.
Non ci fu una resistenza armata all’invasione “amica”, destinata a durare fino agli anni Novanta, ma solo manifestazioni pacifiche, incoraggiate dallo stesso Dubček.
Umberto Eco, in quel momento a Praga in vacanza e testimone suo malgrado degli aventi, così descrisse quanto stava accadendo, in un articolo sull’Espresso di pochi giorni successivo: «La gente parla in russo con i soldati, gli chiede perché sono lì. I soldati rispondono che a Praga c’è il colpo di stato fascista, la gente ride, qualcuno sale su, li prende per il bavero e gli mostra la città, altri tirano fuori la tessera del partito. I russi sorridono imbambolati, qualcuno discute. (…) Così incomincio a rendermi conto che questa è una cosa diversa, non ha precedenti storici. La gente ha volti tristi, la tensione è spasmodica, ma la città brulica di folla come a una festa patronale e ogni carro armato è un comizio».
Nei mesi successivi, la popolazione cominciò a dare segni di insofferenza verso gli invasori. Il 28 e 29 marzo 1969 ci fu la prima reazione violenta durante i festeggiamenti per la vittoria dei cechi sui sovietici nell’hockey, ai Mondiali di Stoccolma. Poco dopo Dubček fu costretto alle dimissioni in favore del conservatore Gustav Husák, che avviò il processo di “normalizzazione”.
Il culmine della protesta non violenta fu il 16 gennaio 1969, quando lo studente Jan Palach si suicidò dandosi fuoco in piazza San Venceslao, in segno di protesta contro l’invasione, seguito il 25 febbraio dal giovane Jan Zajic. Fu la fine di un sogno che negli anni successivi avrebbe ispirato film, libri, canzoni.
Bisogna aspettare Mikhail Gorbachev, il ritorno di Dubček sulla scena politica e la “Rivoluzione di Velluto” del 1989 per completare il percorso verso la democrazia e rendere giustizia a un popolo costretto a subire l’occupazione armata per oltre venti anni.
La lezione di Dubček, tuttavia, non è purtroppo riuscita a far comprendere che a fianco delle libertà individuali, sociali, politiche, è indispensabile costruire modelli sociali, economici e politici in grado di garantire a tutti l’accesso alla soddisfazione dei bisogni primari, vale a dire ad una più equa e oculata distribuzione delle ricchezze.