LA DATA

25 gennaio 1949

Il 25 gennaio 1949 David Ben Gurion diventa ufficialmente primo ministro di Israele. Fu un sionista a tutto tondo. Un fiero sostenitore della necessità di fondare uno Stato ebraico nello stesso territorio palestinese da cui partì la diaspora Duemila anni prima in epoca Romana. Tra la fine dell’Impero Ottomano – subito dopo la Prima Guerra Mondale – e la Seconda Guerra Mondiale la Palestina è stata governata dall’Impero Britannico. Ma dopo anni di lotta politico-militare dei sionisti contro gli inglesi e degli arabi contro i sionisti, grazie anche alla tragedia della Shoah con la Risoluzione Onu n. 181 fu posto fine al Mandato Britannico e il 14 maggio del 1948 fu proclamata ufficialmente la nascita dello Stato d’Israele. In questo complicatissimo contesto politico – un ginepraio di rivendicazioni tutt’ora oggetto di polemiche nonostante siano passati più di settant’anni – Ben Gurion divenne primo ministro d’Israele. Fu una proclamazione complessa perché lo Stato ebraico – oltre a cercare di costruire le infrastrutture politiche e burocratiche di un territorio che non era mai stato Stato e dunque senza vere istituzioni – si trovò impegnato contemporaneamente nella prima guerra araba a cui seguirono negli anni futuri – e tuttora continuano – altre guerre e altri conflitti, tutti luttuosi, tra Israele e Popolo palestinese.

Fu un leader politico molto amato nel suo Paese. Organizzò l’esercito, si attivò per avere relazioni internazionali importanti – tra cui quella con la Germani Ovest – favorì la prima massiccia Alyah (migrazione) di molti ebrei già ferocemente colpiti dalla guerra e dalla repressione nazista. Figura di assoluto rilievo dunque, ma molto contestata sia dagli amici che dai nemici. Va da sé, ad esempio, che le parole usate da Hannah Arendt– filosofa e politologa ebrea di valore assoluto, autrice del famoso saggio Le origini del totalitarismo e dell’altrettanto famoso La banalità del male– contro il progetto di Ben Gurion sono tutt’ora profetiche: «Anche in caso di una vittoria militare – scriveva contro il leader israeliano in quegli anni furiosi – [gli ebrei] vivrebbero circondati da una popolazione araba interamente ostile, segregati entro confini perennemente minacciati, a tal punto occupati a difendersi fisicamente da trascurare ogni altro interesse e ogni altra attività. Il pensiero politico sarebbe focalizzato sulla strategia militare; lo sviluppo economico sarebbe determinato esclusivamente dalle necessità della guerra.

E questa sarebbe la sorte di una nazione che, indipendentemente dal numero di immigrati che potrebbe ancora assorbire e dall’estensione del suo territorio continuerebbe ad essere un piccolo popolo soverchiato dalla prevalenza numerica e dall’ostilità dei suoi vicini». Settant’anni dopo non c’è che dire: chapeau alla Arendt.